Se pericolosa e viola le distanze la nuova canna fumaria va demolita

Se pericolosa e viola le distanze la nuova canna fumaria va demolita

La ratio dell’art. 890 c.c. è quella di evitare che fumi nocivi ed intollerabili emessi dalle canne fumarie invadano le abitazioni e, trattandosi di tetti che coprono il medesimo fabbricato ad altezza diversa, tale scopo può essere raggiunto avendo come riferimento, per il calcolo delle distanze, il c.d. “colmo del tetto”, cioè la parte più alta dell’intero fabbricato e non già il tetto di copertura della porzione più bassa del medesimo fabbricato.  Questo è quanto sancito dalla Corte di Cassazione, sez. II Civile, ordinanza n. 15441/2021, depositata il 3 giugno.

Il caso. Una condomina lamentando la violazione delle distanze previste dall’art. 890 c.c., in combinato disposto con il Regolamento Edilizio del Comune de quo, art. 32, chiedeva ex art. 1170 c.c., artt. 703 e 669 bis c.p.c., la rimozione della canna fumaria realizzata nel dicembre 2003 da un altro condomino sul tetto dell’edificio di quest’ultimo e adiacente alla finestra della ricorrente. Quest’ultimo, si costituiva nel giudizio possessorio, rilevando come il manufatto era esistente fin dal 1967 e che, nel dicembre del 2003, era stato interessato da un intervento di manutenzione che non ne aveva alterato la precedente funzione; chiedeva, altresì, l’accertamento dell’acquisto per usucapione del diritto a mantenere la canna fumaria in quella posizione e a quella distanza. Il Tribunale competente rigettava la domanda.

Avverso tale sentenza la parte soccombente interponeva gravame. In particolare, secondo la Corte d’Appello territoriale, ai fini della conformità della canna fumaria alle prescrizioni del Regolamento, l’altezza della canna fumaria non era quella del tetto sul quale la stessa insisteva, bensì quella del colmo della più alta copertura del fabbricato comune. Inoltre, l’intervento edilizio realizzato non poteva essere inteso come una semplice ristrutturazione. La Corte d’Appello accoglieva il gravame proposto dalla parte appellante.

Avverso tale sentenza la parte soccombente proponeva ricorso per cassazione. Con il primo motivo di ricorso, si eccepiva che la Corte territoriale aveva errato nel ritenere che l’intervento edilizio del 2003 costituiva una “nuova costruzione” quando, di contro, tale mutamento doveva essere ricondotto alla categoria degli interventi di ristrutturazione. Inoltre, il ricorrente contestava il ragionamento della determinazione dell’altezza necessaria all’installazione di una canna fumaria. Secondo gli Ermellini, i giudici di seconde cure avevano fatto corretta applicazione dei principi di diritto in materia di “costruzione”. Come noto, difatti, “è ravvisabile una “nuova costruzione” quando l’opera di modifica si traduce non soltanto nella realizzazione “ex novo” di un fabbricato, ma anche in qualsiasi modificazione della volumetria dell’edificio preesistente che ne comporti un aumento della volumetria (Cass. civ. sez. II, n. 28612 del 15.12.2020; Cass. civ., sez. II, n. 10873 del 25.05.2016). Ai fini dell’osservanza delle norme in materia di distanze legali stabilite dall’art. 873 c.c. e seguenti, e delle norme dei regolamenti locali integrativi della disciplina codicistica, la nozione di “costruzione” è unica e non si identifica con quella di edificio, ma si estende a qualsiasi manufatto non completamente interrato avente i caratteri della solidità, stabilità e immobilizzazione al suolo anche mediante appoggio, incorporazione o collegamento fisso a un corpo di fabbrica contestualmente realizzato o preesistente e ciò indipendentemente dal livello di posa ed elevazione dell’opera stessa (Cassazione civile, sez. II, 17/10/2017, n. 24473).” Dall’orientamento menzionato si ricavava che, conformemente a quanto statuito dalla Corte di merito, era ravvisabile una “nuova costruzione” ogniqualvolta l’opera originariamente esistente subisse variazioni in termini di superficie o volume. Pertanto, l’intervento edilizio effettuato nel 2003 non poteva essere inteso come una semplice ristrutturazione di una canna fumaria preesistente ma come una nuova costruzione perché non erano rimasti invariati volume e dimensioni del manufatto. Con il secondo motivo di ricorso, si censurava la violazione dell’art. 890 c.c., in combinato disposto con il Regolamento Edilizio del Comune in questione, art. 32, nonché la carenza, mancanza ed illogicità della motivazione, per avere la Corte d’Appello erroneamente interpretato la previsione normativa dello strumento urbanistico ritenendo che, ai fini della determinazione dell’altezza necessaria all’installazione di una canna fumaria, dovesse aversi riguardo non già al tetto sul quale la canna fumaria insisteva bensì alla parte più alta del fabbricato comune. Inoltre, la Corte avrebbe, altresì, errato nel ritenere impossibile un innalzamento della canna fumaria fino al raggiungimento dell’altezza di legge, non essendo siffatta conclusione avvalorata da alcun supporto giuridico o scientifico. Al riguardo, in giurisprudenza, era stato sostenuto che in presenza di un regolamento anche locale che disciplina il profilo delle distanze, vigeva una presunzione di pericolosità assoluta la quale preclude qualsiasi accertamento concreto (Cass. n. 22389/2009,) mentre, in difetto di una disposizione regolamentare, si aveva pur sempre una presunzione di pericolosità, seppure relativa, che poteva essere superata ove la parte interessata al mantenimento del manufatto dimostrasse che mediante opportuni accorgimenti poteva ovviarsi al pericolo o al danno del fondo vicino. Detto ciò, poiché il fabbricato oggetto di giudizio risultava coperto da due tetti strutturalmente autonomi, secondo la Suprema Corte, i Giudici di merito avevano correttamente preso in considerazione, per verificare la conformità della canna fumaria alle prescrizioni del Regolamento, non il tetto sul quale la stessa insisteva ma il colmo della più alta copertura del fabbricato comune. Nel caso di specie, a seguito di CTU, la canna fumaria si trovava a mt 3,375 di distanza dalla finestra dell’attrice mentre l’art.32 del Reg. Edilizio prevedeva una distanza minima di dieci metri da ogni finestra posta a quota uguale o superiore; inoltre detta canna fumaria superava l’altezza della finestra di soli 0,87 metri e non di un metro come prescritto dallo strumento urbanistico. Pertanto, secondo la Suprema Corte, era corretta la decisione della Corte di merito di disporre la demolizione, resa peraltro necessaria dalle esigenze di stabilità della canna fumaria.

Per tali motivi la Corte di Cassazione dichiarava inammissibile il ricorso e condannava la parte ricorrente al pagamento, in favore della parte controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità.

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Diritto di proprietà: è imprescrittibile l’azione per ottenere il rispetto delle distanze legali?

Diritto di proprietà: è imprescrittibile l’azione per ottenere il rispetto delle distanze legali?

I poteri inerenti al diritto di proprietà, tra i quali rientra quello di esigere il rispetto delle distanze, non si estinguono per il decorso del tempo, salvi gli effetti dell’usucapione del diritto a mantenere la costruzione a distanza inferiore a quella legale. L’azione per ottenere il rispetto delle distanze legali è quindi imprescrittibile, trattandosi di azione reale modellata sullo schema dell’actio negatoria servitutis, rivolta non ad accertare il diritto di proprietà dell’attore, bensì a respingere l’imposizione di limitazioni a carico della proprietà suscettibili di dar luogo a servitù.  Ciò è quanto stabilito dalla Corte di Cassazione, sez. II Civile, ordinanza n. 15142/2021, depositata il 31 maggio. 

Il caso. Un Condominio, proprietario dell’edificio confinante, costruito in aderenza, adiva in giudizio per chiedere accertarsi la violazione delle distanze in relazione a tre finestre situate al piano terra e quattro finestre site al primo piano; lamentava, inoltre, che il cornicione sporgeva per cm 50 ed il canale di gronda ed i pluviali sconfinavano nella proprietà del Condominio sporgendo oltre il confine. Il Condominio esponeva, inoltre, che il precedente proprietario del suddetto fabbricato aveva autorizzato l’attuale proprietario a mantenere in quella posizione tali finestre, cornicione e gronda fino alla vendita dell’immobile stesso, deducendo quindi che la concessione non fosse più operante essendo avvenuta la suddetta vendita. Il Tribunale respingeva la domanda del Condominio e accoglieva la domanda di usucapione.

Avverso tale sentenza il Condominio interponeva appello. La Corte d’Appello distrettuale, invece, non condivideva tale pronuncia sottolineando l’avvenuta prescrizione del diritto del Condominio a pretendere il rispetto delle distanze legali.

Avverso tale sentenza il Condominio proponeva ricorso per cassazione. Con il primo motivo di ricorso, si deduceva la violazione e falsa applicazione degli artt. 948, 949 e 2946 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere la corte di merito dichiarato prescritto il diritto del Condominio di pretendere l’eliminazione delle opere realizzate in violazione delle distanze legali pur trattandosi di azione imprescrittibile connessa all’esercizio delle facoltà e dei poteri inerenti al diritto di proprietà, salvo l’acquisto per usucapione. Secondo il ricorrente, il diritto a chiedere il rispetto delle distanze legali non sarebbe derivato dall’atto di concessione precaria del 1966, con il quale il ricorrente avrebbe consentito al resistente di mantenere le vedute a distanza non legale dietro versamento di un corrispettivo in quanto l’accordo avrebbe efficacia tra le parti, sarebbe stato limitato nel tempo e soggetto a revoca in caso di trasferimento del bene da parte del concessionario. Sarebbe stata, pertanto, errata la decisione della Corte distrettuale, che aveva ritenuto prescritto il diritto di chiedere l’eliminazione delle opere per non avere il Condominio esercitato il diritto di credito come contropartita della convenzione conclusa tra i danti causa delle parti, in quanto il diritto non sarebbe derivato dall’obbligazione contrattuale. Il motivo di doglianza era fondato in quanto “I poteri inerenti al diritto di proprietà, tra i quali rientra quello di esigere il rispetto delle distanze, non si estinguono per il decorso del tempo, salvi gli effetti dell’usucapione del diritto a mantenere la costruzione a distanza inferiore a quella legale. Discende da tale principio che anche l’azione per ottenere il rispetto delle distanze legali è imprescrittibile, trattandosi di azione reale modellata sullo schema dell’”actio negatoria servitutis”, rivolta non ad accertare il diritto di proprietà dell’attore, bensì a respingere l’imposizione di limitazioni a carico della proprietà suscettibili di dar luogo a servitù (Cass. Civ., Sez. II, 23.1.2012, n. 871, Cass. Civ., Sez. II, 7.9.2009, n. 19289; Cass. Civ., Sez. II, Cass. Civ., Sez. II, 26.1.2000, n. 867).” Nel caso de quo la Corte di merito non aveva rispettato i suddetti principi, sostenendo che l’azione volta al rispetto delle distanze legali fosse prescritta per decorrenza del termine decennale previsto per l’esercizio del diritto di credito del Condominio. 

Per tali motivi la Corte di Cassazione accoglieva il ricorso, cassava la sentenza impugnata e rinviava alla Corte d’Appello distrettuale in diversa composizione.

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L’affitto per finalità turistiche di breve durata e il regolamento condominiale

L’affitto per finalità turistiche di breve durata e il regolamento condominiale

Secondo l’art. 51, D.L. n. 79/2011, le locazioni di breve durata stipulate da alcuni condomini sono riconducibili a quelle per finalità turistiche per brevi periodi non superiori a 30 giorni. Ne consegue che esse non si distinguano dunque dalle ordinarie locazioni, connotandosi solo per la loro durata transitoria. Ciò è quanto stabilito dalla  Corte d’Appello di Milano, sez. III Civile, sentenza n. 93/2021, depositata il 13 gennaio.

Il caso. Un Condominio proponeva appello avverso la sentenza del Tribunale competente che aveva respinto la sua domanda nei confronti di alcuni condomini, avente ad oggetto l’accertamento della contrarietà al regolamento condominiale dell’utilizzo dell’unità immobiliare degli stessi, sita al terzo piano dello stabile, ad alloggio temporaneo di breve durata, nonché l’ordine ai convenuti di cessare immediatamente tale utilizzo. Aveva censurato la suddetta sentenza per aver erroneamente ritenuto che non fosse opponibile ai condomini (che avevano acquistato l’appartamento in questione nel 1981) il regolamento condominiale (approvato all’unanimità nel 1961) ed in particolare le clausole che vietavano l’esercizio all’interno dell’appartamento dell’attività di “pensione” o l’uso dello stesso “a camere ammobiliate affittate a terzi”, sostenendo che dette limitazioni costituissero servitù atipiche e come tali opponibili ai terzi acquirenti solo ove trascritte o specificamente indicate nell’atto di acquisto (mentre in realtà si sarebbe trattato di una obbligazione propter rem, vincolante per effetto dell’acquisto dell’immobile e della contestuale accettazione del regolamento condominiale). Poiché gli stessi appellati avrebbero riconosciuto di affittare il loro appartamento per periodi brevissimi (limitati a qualche giorno), aveva chiesto l’integrale riforma della sentenza appellata, considerato altresì – come già sostenuto in primo grado – che dette locazioni brevi avrebbero arrecato disturbo alla tranquillità degli altri condomini e sarebbero stati contrari al decoro dell’edificio (in violazione di altra disposizione regolamentare) e che non sarebbero state previamente comunicate all’amministratore del Condominio (come pure previsto dal regolamento). Gli appellati chiedevano la conferma della sentenza impugnata, affermando che comunque la locazione breve posta in essere non costituisse violazione di alcuna norma regolamentare, non essendo assimilabile all’affitto di camere ammobiliate (trattandosi di affitto dell’intera unità immobiliare, per uso abitativo e senza servizi accessori di carattere alberghiero). Secondo la Corte d’Appello, il Tribunale aveva affermato che nel 1961, con l’approvazione all’unanimità del regolamento del Condominio de quo ed in particolare del suo art. 4 (il quale prevedeva il divieto di “uso dell’appartamento a camere ammobiliate affittate a terzi”), i condomini avessero costituito una servitù atipica di non facere a carico di ciascuna unità immobiliare ed a favore di tutte le altre: come tale, essa sarebbe opponibile al terzo che fosse divenuto proprietario di una di dette unità solo a condizione che la clausola regolamentare fosse trascritta nei registri immobiliari ex artt. 2659 e 2665 c.c., oppure che l’acquirente avesse preso atto in modo specifico della stessa contestualmente all’atto d’acquisto, non essendo invece sufficiente che l’atto di provenienza contenesse un mero richiamo al contenuto del regolamento. Con ciò, dunque, il Tribunale aveva aderito all’orientamento espresso dalla Suprema Corte a partire dalla sentenza n. 21024/16 (confermato in seguito da Cass. n. 6769/18), in contrasto con il consolidato precedente orientamento secondo il quale “la semplice limitazione al godimento degli immobili, senza la determinazione di un peso di prestazioni positive, non raffigura né una servitù, né un onere reale…il divieto di svolgere una determinata attività negli appartamenti costituisce un rapporto obbligatorio reale di non facere; precisamente, una obbligazione propter rem con contenuto negativo, di non conferire all’immobile una certa destinazione” (Cass. n. 11684/00). A queste conclusioni si era giunto rilevando soprattutto l’assenza, nelle clausole di cui si discuteva, del connotato tipico della servitù, e cioè la soggezione di un bene, in questo caso l’immobile, a vantaggio di un altro immobile, che non si configurava nel caso di clausole regolamentari incidenti sulla destinazione d’uso degli immobili, che, invece, costituivano una previsione concepita nell’interesse e a vantaggio dei condomini che ne beneficiavano: quanto all’ammissibilità di una convenzione che ponesse limitazioni ai diritti dei condomini, poi, questa era stata ritenuta sulla base del principio di autonomia negoziale. Tutto ciò con la conseguenza della idoneità della mera indicazione del regolamento condominiale nell’atto di acquisto ai fini dell’opponibilità ai terzi acquirenti (Cass. n. 19212/16). Detta qualificazione, peraltro, si presentava irrilevante nel caso in esame, posto che il comportamento attribuito agli appellati non si poteva ritenere violazione delle prescrizioni del regolamento di condominio in questione. Inoltre, i giudici di seconde cure ritenevano che “Le locazioni stipulate dagli appellati sono riconducibili a quelle per finalità turistiche per brevi periodo non superiori a 30 gg ai sensi dell’art.53 del D.lgs. n.79/2011, che la Regione Lombardia ha espressamente escluso dall’ambito delle attività ricettive (quali proprio quelle di Bed and Breakfast ed affittacamere): esse non si distinguono dunque dalle ordinarie locazioni (cui certamente il Condominio non può neppure opporre un proprio gradimento, il che porta a ritenere l’onere di informazione preventivo all’Amministratore come finalizzato al più alla facilitazione dei contatti con i conduttori, ogni diversa interpretazione configurando la nullità della clausola), connotandosi solo per la loro durata transitoria. In sé, del resto, dette locazioni non sono necessariamente più moleste per gli altri condomini rispetto a quanto potrebbe esserlo una di ordinaria durata quadriennale, osservandosi ad esempio che il turista è di norma un adulto, senza animali al seguito e che per la maggior parte della giornata non occupa l’alloggio, mentre eventuali comportamenti irrispettosi possono essere propri anche di uno stabile conduttore (che il locatore potrebbe solo richiamare all’osservanza del regolamento)”.

Per tali motivi la Corte d’Appello distrettuale rigettava il ricorso e condannava il Condominio al pagamento delle spese processuali.

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È necessario anche un segnale luminoso per avvisare della presenza dell’autovelox?

È necessario anche un segnale luminoso per avvisare della presenza dell’autovelox?

In tema di autovelox non risulta da alcuna normativa che la segnaletica di avvertimento del controllo debba essere anche luminescente ma incombe sulla P.A. fornire le prove relative alla “omologazione” e alla “taratura” dell’autovelox per legittimare il verbale redatto dalla Polizia municipale. Ciò è quanto stabilito dalla Corte di Cassazione, sez. II Civile, ordinanza n. 13630/2021, depositata il 19 maggio.

Il caso. Un automobilista proponeva, innanzi al Giudice di Pace competente, opposizione avverso il verbale di accertamento di violazione dell’art. 142, comma 8, C.d.S. elevato dal Comando della Polizia Municipale del Comune competente. Il Giudice di prime cure accoglieva l’opposizione e annullava l’impugnato verbale sul presupposto che “dalle emergenze processuali risultava che in loco non era stato apposto alcun dispositivo luminoso di segnalazione e/o comunque alcun cartello indicante la tipologia di controllo effettuato”.

  •  

Avverso tale sentenza il Comune interponeva appello. Il Tribunale, in funzione di Giudice di appello, ritenendo privo di senso il riferimento alla presunta necessità di una segnalazione luminosa dell’autovelox, accoglieva il gravame e rigettava l’opposizione.

Avverso tale sentenza l’automobilista proponeva ricorso per cassazione. Con il primo e il secondo motivo il ricorrente deduceva sostanzialmente il vizio di violazione delle norme del C.d.S. in tema di segnalazione delle postazioni di rilevamento della velocità. La doglianza della parte ricorrente si risolveva nel pretendere –  al fine della legittimità della sanzione contestata – l’adempimento di un “obbligo di informazione della presenza di postazioni di controllo” per il quale non sarebbe stata sufficiente la sola relativa segnaletica (pacificamente esistente), ma una ulteriore e necessaria segnaletica di tipo luminoso. Secondo gli Ermellini tale lamentela era del tutto infondata “non risultando da alcuna normativa che la segnaletica di avvertimento del controllo debba essere anche luminescente.” Con il terzo motivo, parte ricorrente lamentava una errata applicazione, da parte della sentenza impugnata, dei principi relativi all’onere probatorio. In particolare (e per il profilo meritevole di accoglimento) veniva svolta censura in ordine alla mancata prova – da parte della P.A. procedente – della prova e attestazione della omologazione dell’apparato autovelox a mezzo del quale veniva accertata la contestata violazione al C.d.S.. Il Tribunale aveva, sul punto, ritenuto che era “onere dell’opponente dimostrare il fatto impeditivo della pretesa sanzionatoria” e che “alcuna prova sulla circostanza che l’autovelox potesse non essere omologato era stata data” dall’odierna parte ricorrente. Tanto comportava un’errata applicazione del principio dell’onere della prova con violazione della norma di cui all’art. 2697 c.c.. Infatti, come già affermato dalla Corte di Cassazione 26 maggio 1999, n. 5095, incombeva all’Amministrazione “l’onere (nel caso de quo non risultante svolto) di dimostrare compiutamente l’esistenza dei fatti costitutivi dell’illecito”. Al riguardo doveva raffermarsi il principio secondo cui l’allegazione della omologazione e taratura del sistema di verifica ed accertamento della velocità costituiva indefettibile onere a carico della P.A.. Nel caso in esame, in violazione  anche di detto principio, si era verificata, prima ancora dell’apprezzamento della prova, un’errata applicazione del principio dell’onere della prova attribuito ad una parte diversa da quella che ne era gravata” (Cass. 16 maggio 2007, n. 11216).

Per tali motivi la Corte di Cassazione rigettava il primo ed il secondo motivo del ricorso, accoglieva il terzo, assorbiti i rimanenti motivi, cassava – in relazione al motivo accolto – l’impugnata sentenza e rinviava, anche per le spese, al Tribunale competente in persona di diverso Giudice.

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Spese straordinarie:le deve pagare chi era condomino al momento della delibera assembleare

Spese straordinarie:le deve pagare chi era condomino al momento della delibera assembleare

In caso di spese condominiali di carattere straordinario il Condominio è legittimato ad agire sia verso il Condomino che era proprietario al momento della delibera assembleare che aveva deciso l’esecuzione dei lavori, sia verso il soggetto che ha acquistato l’immobile dal primo, ed è quindi responsabile per le somme dovute per l’anno in corso e per l’anno precedente. Nei rapporti interni tra i due debitori, invece, salvo patto contrario, a sostenere le spese sarà il soggetto proprietario al momento della delibera assembleare. Questo è quanto stabilito dalla Corte di Cassazione, sez. II Civile, sentenza n. 11199/2021, depositata il 28 aprile.

Il caso. Un Condominio depositava ricorso per decreto ingiuntivo nei confronti dell’ex condomina e dell’attuale proprietaria dell’appartamento al fine di ottenere il pagamento della somma di Euro 8.436,25 dovuta per spese relative a lavori straordinari di ristrutturazione eseguiti nell’edificio. Secondo il Condominio le due intimate erano responsabili in solido per l’obbligazione relativa al pagamento delle spese condominiali per i lavori straordinari. Entrambe proponevano opposizione al decreto ingiuntivo con due azioni in seguito riunite nel medesimo procedimento. In particolare l’ex condomina sosteneva che le spese non fossero imputabili a lei in quanto i lavori erano stati eseguiti a seguito della vendita del suo appartamento. L’attuale condomina, al contrario, sosteneva che la sua dante causa fosse debitrice, in quanto i lavori erano stati deliberati quando ella aveva la qualità di condomina. L’adito Tribunale dava ragione all’ex condomina e, con il rigetto dell’opposizione dell’attuale condomina, decretava la sua responsabilità per il pagamento delle spese.

Avverso tale sentenza l’attuale proprietaria interponeva appello. La Corte d’appello distrettuale accoglieva il gravame proposto e riteneva che, base a quanto stabilito dall’art. 63 disp. att. c.c., correttamente il Tribunale aveva intimato ad entrambe le ingiunte di pagare i contributi pretesi dal Condominio, e perciò rigettato la domanda di revoca del decreto ingiuntivo avanzata dall’appellante. Invece, quanto ai rapporti interni, la Corte d’Appello richiamava il principio secondo cui obbligato a contribuire alle spese di manutenzione delle parti comuni dell’edificio era colui il quale risultava proprietario dell’unità immobiliare al momento dell’adozione della delibera di approvazione dei lavori. La ragione, chiaramente, era da ricercarsi nel fatto che i lavori erano stati decisi quando il venditore poteva partecipare all’assemblea e votare, mentre il compratore era ancora estraneo al Condominio e non aveva voce in capitolo. Applicando tale criterio in ordine all’azione di rivalsa, i giudici di seconde cure concludevano che l’ex proprietaria era tenuta a rifondere all’attuale proprietaria quanto la stessa dovesse pagare al Condominio in forza del decreto ingiuntivo opposto.

Avverso tale sentenza l’ex condomina proponeva ricorso per cassazione. Secondo la ricorrente la Corte d’Appello non aveva correttamente valutato le risultanze istruttorie dei gradi di merito, infatti, l’obbligo di pagare le spese sarebbe stato trasferito alla parte acquirente per espresso accordo delle parti. Tale accordo avrebbe derogato alla disciplina legale invece applicata dalla Corte d’Appello. Secondo gli Ermellini, i Giudici d’Appello non avevano correttamente valutato delle testimonianze che avrebbero provato l’esistenza di accordi in ragione dei quali la parte acquirente si era impegnata a sostenere le spese relative ai lavori straordinari dietro ad uno sconto nel prezzo dell’immobile. Tale patto avrebbe avuto il potenziale effetto di derogare alla disciplina legale, introducendo quella pattizia. L’effetto, tuttavia, non sarebbe stato verso il Condominio, ma solo volto a modificare i rapporti debitori interni tra i due soggetti legittimati passivi. Ecco perché la Suprema Corte sollevava l’attenzione sull’importante locuzione “salvo diversi accordi”. Nel caso di debiti relativi alle spese straordinarie il Condominio poteva validamente rivolgersi sia all’ex condomino, che a quello attuale. Infatti, alla stregua dell’art. 63 disp. att. c.c., comma 2 (nella formulazione antecedente alla modificazione operata dalla L. 11 dicembre 2012, n. 220), “chi subentra nei diritti di un condomino è obbligato, solidalmente con questo, al pagamento dei contributi relativi all’anno in corso e a quello precedente. Come già ricordato, occorre a tal fine distinguere tra spese necessarie alla manutenzione ordinaria, alla conservazione, al godimento delle parti comuni dell’edificio o alla prestazione di servizi nell’interesse comune, ovvero ad impedire o riparare un deterioramento, e spese attinenti a lavori che consistano in un’innovazione o che comunque comportino, per la loro particolarità e consistenza, un onere rilevante, superiore a quello inerente alla manutenzione ordinaria dell’edificio e cagionate da un evento non evitabile con quest’ultima. Nella prima ipotesi, l’obbligazione si ritiene sorta non appena si compia l’intervento ritenuto necessario dall’amministratore, e quindi in coincidenza con il compimento effettivo dell’attività gestionale. Nel caso, invece, delle opere di manutenzione straordinaria e delle innovazioni, la deliberazione dell’assemblea, chiamata a determinare quantità, qualità e costi dell’intervento, assume valore costitutivo della relativa obbligazione in capo a ciascun condomino. Da ciò si fa derivare che, verificandosi l’alienazione di una porzione esclusiva posta nel condominio in seguito all’adozione di una Delib. assembleare, antecedente alla stipula dell’atto traslativo, volta all’esecuzione di lavori consistenti in innovazioni, straordinaria manutenzione o ristrutturazione, ove non sia diversamente convenuto nei rapporti interni tra venditore e compratore, i relativi costi devono essere sopportati dal primo, anche se poi i lavori siano stati, in tutto o in parte, effettuati in epoca successiva, con conseguente diritto dell’acquirente a rivalersi nei confronti del proprio dante causa, per quanto pagato al condominio in forza del principio di solidarietà passiva ex art. 63 disp. att. c.c..” Dunque, di nessun rilievo era la data di esecuzione effettiva dei lavori, in quanto a valere, quanto meno nei rapporti con il Condominio, era la data della deliberazione dei lavori e la data di acquisto dell’immobile in Condominio. Dunque, tale momento di insorgenza dell’obbligo di contribuzione condominiale rileva anche per imputare l’obbligo di partecipazione alla spesa nei rapporti interni tra venditore e compratore, ma sempre che gli stessi, come nel caso di specie, non si fossero diversamente accordati, rimanendo, peraltro, inopponibili al Condominio i patti eventualmente intercorsi tra costoro. La Corte di Cassazione considerava  pure che il dedotto accollo del debito condominiale da parte della compratrice, in quanto semplice modalità di adempimento dell’obbligo di pagamento del prezzo della compravendita immobiliare comunque determinato in contratto, non potrebbe dirsi sottoposto ai limiti di prova di cui all’art. 2725 c.c., comma 2 e art. 1350 c.c., n. 1. Il Condominio, pertanto, era legittimato a richiedere la quota spettante sia all’ex condomina, che alla nuova. Quanto ai rapporti interni tra i debitori, invece, la Cassazione specificava che – salvo diversi accordi – il responsabile doveva intendersi il soggetto che rivestiva la qualità di condomino al momento della deliberazione, e non dell’esecuzione, dei lavori. In caso di pagamento, totale o parziale, da parte del nuovo condomino, quindi, questi sarebbe stato autorizzato a richiedere il risarcimento al legittimo debitore, ossia il suo dante causa.

Per tali motivi la Corte di Cassazione cassava la sentenza impugnata e rinviava ad altra sezione della Corte d’Appello per una nuova valutazione nel merito.

Avvocato Anna Maria Cupolillo Staff Giuridico Avvocato Express

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Passo carrabile vietato nonostante l’autorizzazione comunale

Passo carrabile vietato nonostante l’autorizzazione comunale

Il proprietario di vani terranei di un edificio in un Condominio non può eseguire modificazioni della pavimentazione e dell’accesso al proprio locale per consentire l’attraversamento con autovetture, ove da tale utilizzazione della cosa comune risulti alterata la destinazione e sia impedito agli altri condomini di farne parimenti uso secondo il loro diritto.  Questo è quanto stabilito dalla  Corte di Cassazione, sez. VI Civile – 2,  ordinanza n. 11870/2021, depositata il 6 maggio.

Il caso. Un Condominio esprimeva parere contrario alla richiesta di una società di eseguire, a sue spese, i lavori necessari ad adeguare la quota del marciapiede condominiale al livello stradale e all’eliminazione dei vasi posti a ornamento e delimitazione del marciapiede stesso. La suddetta società, proprietaria di un appartamento a uso ufficio e di un terrazzo di uso esclusivo, posto a piano terra del Condominio e destinato a parcheggio, otteneva dal Comune l’autorizzazione ad aprire un passo carrabile, necessario per il transito dei veicoli, previa esecuzione delle suddette opere di adeguamento. Il Condominio, nel motivare il suo diniego, sosteneva che i lavori costituivano innovazioni vietate ai sensi dell’art. 1102 c.c.. La società impugnava la delibera citando in giudizio il Condominio dinnanzi al Tribunale e lamentando: 1. l’erronea applicazione dell’art. 1120 c.c. e la violazione degli artt. 1102 e 1122 c.c., relativamente al diniego all’apertura del passo carrabile, che non costituiva un’innovazione ma una “modificazione finalizzata alla migliore utilizzazione della cosa comune”; 2. l’inopponibilità del regolamento condominiale alla società; 3. l’illegittimità della delibera, per aver invitato la condomina a “ripristinare la destinazione d’uso precedente”; 4. l’assenza di legittimazione del Condominio rispetto all’area utilizzata come marciapiede e adiacente al terrazzo della Società. Il Tribunale respingeva la domanda da parte della società ritenendo che i lavori da eseguire costituissero un’innovazione rispetto alla destinazione della cosa comune e al diritto al pari di ciascun condomino e che il regolamento condominiale fosse opponibile all’attrice in quanto trascritto.

Avverso tale sentenza la società interponeva appello. La Corte d’Appello distrettuale confermava la sentenza del Tribunale.

Avverso tale sentenza la società proponeva ricorso per cassazione sostenendo che la Corte d’Appello avesse erroneamente ritenuto che i lavori autorizzati dall’Amministrazione comunale fossero illegittimi ex art. 1102 c.c., in quanto suscettibili di mutare “l’attuale destinazione dei luoghi comuni a marciapiede che, per sua natura, ha come funzione tipica quella di consentire il sicuro transito pedonale dei condomini”. In realtà, ad avviso della ricorrente, era stato dimostrato che le opere da eseguire non avrebbero determinato né una modificazione materiale, né un’alterazione dell’essenza o della originaria funzione della cosa comune, né un mutamento della sua destinazione, rimanendo l’area calpestabile per i pedoni. Pertanto, l’utilizzo della cosa comune non avrebbe subito alcuna compromissione qualitativa o quantitativa in danno degli altri condomini. Per la Suprema Corte, però, il ricorso era inammissibile in quanto il motivo di ricorso allegava la violazione o falsa dell’art. 1102 c.c., ma il suo contenuto si limitava a criticare l’apprezzamento di fatto delle risultanze probatorie che aveva portato il Giudice di merito alla pronuncia impugnata, la cui censura sarebbe possibile solo tramite il vizio dell’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c.. Ne risultava che la Corte d’Appello aveva evidenziato che sarebbe risultata mutata, seppure per un tratto limitato, l’attuale destinazione dei luoghi comuni a marciapiede. Secondo l’art. 1102 c.c., la nozione di pari uso della cosa comune, seppure non andava intesa nel senso di uso identico e contemporaneo, implicava, tuttavia, la condizione che questa fosse compatibile con i diritti degli altri. Secondo un precedente orientamento della giurisprudenza, “Il proprietario di vani terranei di un edificio in condominio non può, perciò, eseguire modificazioni della pavimentazione e dell’arredo del marciapiede condominiale in corrispondenza dell’accesso al proprio locale per consentirne l’attraversamento con autovetture, ove da tale utilizzazione della cosa comune risulti alterata la destinazione e sia impedito agli altri condomini di farne parimenti uso secondo il loro diritto (Cass. Sez. 2, 18/02/1998, n. 1708; Cass. 14/12/1994, n. 10704; Cass. Sez. 2, 17/07/1962, n. 1899). L’accertamento del superamento dei limiti imposti dall’art. 1102 c.c., al condomino, che si assuma abbia alterato, nell’uso della cosa comune, la destinazione della stessa, ricollegandosi all’entità e alla qualità dell’incidenza del nuovo uso, è comunque riservato al giudice di merito e, come tale, non è censurabile in sede di legittimità per violazione di norme di diritto.”

Per tali morivi la Corte di Cassazione dichiarava inammissibile il ricorso e condannava la ricorrente a rimborsare al controricorrente le spese sostenute nel giudizio di cassazione.

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