D. Sentenza dichiarativa di fallimento: la comunicazione via PEC del rigetto del reclamo fa decorrere il termine breve?

D. Sentenza dichiarativa di fallimento: la comunicazione via PEC del rigetto del reclamo fa decorrere il termine breve?

R. La comunicazione del testo integrale della sentenza di rigetto del reclamo avverso la sentenza dichiarativa di fallimento, effettuata dal cancelliere mediante PEC, è idonea a far decorrere il termine breve per l’impugnazione in Cassazione ex art. 18, comma 14, l. fall..

(Corte di Cassazione, sez. VI Civile, ordinanza n. 568/21; depositata il 14 gennaio)

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Testamento biologico: si può disporre sul proprio fine vita?

Testamento biologico: si può disporre sul proprio fine vita?

In tema di testamento biologico, l’Ufficiale dello Stato Civile che si rifiuti o omette un adempimento connesso all’applicazione delle regole dettate dalle disposizioni del D.P.R. n. 396/2000, nonché dal codice civile e dalle leggi ordinarie e speciali, da normative comunitarie e da convenzioni internazionali, è passibile di ricorso innanzi al Tribunale competente al fine di sentirsi ordinare la ricezione dell’atto di disposizione anticipata di trattamento (DAT) per scrittura privata predisposta dal disponente, è, per l’effetto, procedere all’annotazione nel Registro dei Testamenti Biologici istituito presso il Comune competente. Questo è quanto stabilito dal Tribunale di Napoli, sez. XIII Civile, decreto depositato il 3 novembre.

Il caso. Con ricorso il ricorrente chiedeva ordinarsi all’Ufficiale dello Stato Civile del Comune competente di ricevere l’atto di Disposizione Anticipata di Trattamento ( DAT) per scrittura privata, con susseguente annotazione nell’apposito Registro dei Testamenti Biologici istituito presso l’Amministrazione del territorio. Il ricorrente precisava di aver formulato la richiesta al Comune via PEC, in esecuzione della procedura dallo stesso dettata, secondo la quale il cittadino doveva richiedere un appuntamento per depositare l’atto contenente le DAT redatte a norma dell’art. 4 L. n. 219/2017 ed allegava di aver effettuato regolarmente la procedura indicata dal Comune e di non avere, tuttavia, ottenuto alcuna interlocuzione, nota, appuntamento o riscontro; decorsi oltre trenta giorni e preso atto del rifiuto ad adempiere dell’Ufficiale dello Stato Civile, formulava la richiesta oggetto del ricorso. Il Tribunale, in composizione collegiale, accoglieva il ricorso. Il Tribunale condivideva l’impostazione data dal ricorrente tendente ad inquadrare la fattispecie nella tipologia del silenzio dell’Ufficiale dello Stato Civile del Comune in virtù di quanto sancito dell’art. 95 D.P.R. n. 396/2000 (Nuovo Ordinamento dello Stato Civile), secondo cui ” ….. chi …… intende opporsi a un rifiuto dell’ufficiale dello stato civile di ricevere in tutto o in parte una dichiarazione o di eseguire una trascrizione, una annotazione o altro adempimento, deve proporre ricorso al tribunale nel cui circondario si trova l’ufficio dello stato civile presso il quale è registrato l’atto di cui si tratta o presso il quale si chiede che sia eseguito l’adempimento”. Presupposto dell’azione era che l’attività richiesta dal cittadino non fosse connotata dalla discrezionalità della Pubblica Amministrazione e che il rifiuto di adempiere incidesse nella sfera giuridica del destinatario. Il Tribunale, a norma del successivo art. 96 del D.P.R. 396/2000, poteva senza particolari formalità, assumere informazioni, acquisire documenti e disporre l’audizione dell’Ufficiale dello Stato Civile. Nel caso de quo, l’inadempimento dell’Ufficiale di Stato Civile del Comune si era consumato in materia di ricezione e raccolta delle DAT, ossia delle disposizioni anticipate di trattamento, di cui all’art. 41. 219/2017. La norma prevedeva che “ogni persona maggiorenne, capace di intendere e di volere, in previsione di una eventuale futura incapacità di autodeterminarsi può, attraverso disposizioni anticipate di trattamento (DAT), esprimere le proprie convinzioni e preferenze in materia di trattamenti sanitari, nonché il consenso o il rifiuto rispetto a scelte diagnostiche o terapeutiche e a singoli trattamenti sanitari, comprese le pratiche di nutrizione e idratazione artificiali, e può procedere alla nomina di un fiduciario che ne faccia le veci e la rappresenti nella relazione con il medico e con le strutture sanitarie”. Il comma 6 del predetto articolo disponeva che “le DAT devono essere redatte per atto pubblico o per scrittura privata autenticata ovvero per scrittura privata consegnata personalmente dal disponente presso l’ufficio dello stato civile del Comune di residenza del disponente medesimo che provvede all’annotazione in apposito registro ove istituito oppure presso le strutture sanitarie, quando ricorrono i presupposti di cui al comma 7”. Ne derivava che le DAT raccolte in sede locale dovevano andare ad alimentare la banca dati nazionale; il D.M. 10.12.2019 n. 168, disciplinava le modalità di registrazione delle DAT nella banca dati che aveva la funzione di raccogliere copie delle DAT, garantire il tempestivo aggiornamento in caso di rinnovo, modifica o revoca, assicurarne la piena accessibilità sia da parte del medico che aveva in cura il paziente, in situazione di incapacità di autodeterminarsi, sia da parte del disponente che del fiduciario eventualmente da lui nominato. In qualsiasi momento il dichiarante poteva revocare il deposito del proprio testamento biologico, poteva richiederne la sostituzione o indicare un nuovo fiduciario; in questi casi doveva ripetere tutto il procedimento al pari di un nuovo testamento biologico e, solo il dichiarante o il suo fiduciario, potevano richiedere la riconsegna di quanto depositato.

Per tali motivi la domanda veniva accolta integralmente; nulla per le spese di lite trattandosi di procedimento non contenzioso attratto nella disciplina dettata dagli artt. 737 e ss c.p.c. che veniva definito con decreto.

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In caso di condanna a un non facere risponde in proprio il conduttore subentrante in un immobile

In caso di condanna a un non facere risponde in proprio il conduttore subentrante in un immobile

L’accertamento contenuto nella sentenza costituente titolo esecutivo relativo allo svolgimento all’interno di un immobile di una attività contraria al regolamento di condominio produce effetti anche nei confronti di un nuovo e diverso conduttore che ha conseguito la detenzione dell’immobile solo dopo la formazione del suddetto titolo esecutivo. Questo è quanto stabilito dalla Corte di Cassazione, sez. VI Civile – 3, ordinanza n. 29131/2020, depositata il 18 dicembre.

Il caso. Due condomini proponevano opposizione all’esecuzione, ai sensi dell’art. 615 c.p.c., avverso l’atto di precetto di pagamento loro intimato da un’altra condomina sulla base di titolo esecutivo costituito da una sentenza che li aveva condannati al pagamento di una somma di danaro ai sensi dell’art. 614 bis c.p.c., per ogni giorno di inosservanza al divieto di svolgimento, in un appartamento di loro proprietà, di una determinata attività contraria al regolamento di condominio. L’opposizione veniva rigettata dal giudice di primo grado e tale pronuncia veniva confermato dalla Corte di Appello distrettuale.

Avverso tale sentenza gli appellanti proponevano ricorso per cassazione eccependo la violazione dell’art. 2909 c.c., dell’art. 24 Cost., nonché degli artt. 2043 c.c. e 3 e 24, comma 1, Cost., art. 6, comma 1, Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo. La Suprema Corte evidenziava la manifesta infondatezza e la parziale inammissibilità della censura mossa dai ricorrenti riguardo al fatto che l’accertamento contenuto nel titolo esecutivo non aveva valore in relazione all’attività svolta da una nuova conduttrice dell’immobile, subentrata alla precedente dopo l’emanazione della sentenza di primo grado. I Giudici di legittimità ritenevano che, come correttamente osservato dalla Corte di Appello distrettuale, la pronuncia di cui al titolo esecutivo consistente nella condanna a cessare lo svolgimento dell’attività ritenuta contraria al regolamento di condominio nell’immobile dei ricorrenti, era stata emessa anche direttamente nei confronti di questi ultimi, così come la condanna al pagamento di una somma di denaro per l’eventuale inosservanza dell’obbligo. Conseguentemente, il titolo aveva efficacia diretta nei loro confronti, anche nella parte relativa al pagamento della somma di denaro per l’inosservanza dell’obbligo di non facere, ai sensi dell’art. 614-bis c.p.c., per il solo fatto che l’attività vietata aveva continuato ad essere svolto nel loro immobile, e questo indipendentemente del relativo conduttore la cui la mancata partecipazione al giudizio era irrilevante. Con riguardo all’accertamento della violazione del divieto sanzionato nel titolo con il pagamento di una somma di denaro, la censura risultava inammissibile; la Corte condividendo quanto accertato dalla Corte di Appello, riteneva che l’attività originariamente svolta dalla prima conduttrice, aveva continuato ad essere svolta nei locali di proprietà dei ricorrenti anche dalla nuova conduttrice che aveva di fatto riaperto la medesima attività contraria al regolamento condominiale. Si trattava di accertamenti di fatto operati dalla Corte territoriale sulla base della valutazione del materiale istruttorio acquisito nel corso del giudizio. Ciò era a dirsi, diversamente da quanto sostenuto dei ricorrenti, anche con riguardo all’interpretazione dell’effettivo contenuto del titolo esecutivo, in base al costante indirizzo della Corte di legittimità (che il ricorso non conteneva argomenti idonei ad indurre a rivedere) per cui “l’interpretazione del titolo esecutivo compiuta dal giudice dell’esecuzione o da quello chiamato a sindacarne l’operato nell’ambito delle opposizioni esecutive, si risolve nell’apprezzamento di un “fatto”, come tale incensurabile in Cassazione se esente da vizi logici o giuridici, senza che possa diversamente opinarsi alla luce dei poteri di rilievo officioso e di diretta interpretazione del giudicato esterno da parte del giudice di legittimità, atteso che, in sede di esecuzione, il provvedimento passato in giudicato, pur ponendosi come “giudicato esterno” (in quanto decisione assunta fuori dal processo esecutivo), non opera come decisione della controversia, bensì come titolo esecutivo e, pertanto, non va inteso come momento terminale della funzione cognitiva del giudice, ma come presupposto fattuale dell’esecuzione, ossia come condizione necessaria e sufficiente per procedere ad essa” (Cass., Sez. 6-3, Ordinanza n. 15538 del 13/06/2018; nel medesimo senso: Cass., Sez. 3, Sentenza n. 14727 del 21/11/2001; Sez. 3, Sentenza n. 1114 del 24/01/2003; Sez. 3, Sentenza n. 4382 del 25/03/2003; Sez. 3, Sentenza n. 7530 del 12/04/2005; Sez. 3, Sentenza n. 19057 del 05/09/2006; Sez. 3, Sentenza n. 15852 del 06/07/2010; Sez. 3, Sentenza n. 760 del 14/01/2011; Sez. L, Sentenza n. 13811 del 31/05/2013; Sez. 3, Sentenza n. 26890 del 19/12/2014).

Per questi motivi la Corte di Cassazione rigettava il ricorso e condannava i ricorrenti alla rifusione delle spese di lite in favore della parte contro ricorrente.

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La determinazione dell’assegno divorzile si basa sul tenore di vita goduto durante il matrimonio?

La determinazione dell’assegno divorzile si basa sul tenore di vita goduto durante il matrimonio?

Il tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio non può più costituire il parametro al quale fare riferimento per la determinazione dell’assegno divorzile, dovendo piuttosto il giudice avere riguardo alla indipendenza economica intesa come disponibilità di mezzi adeguati tali da consentire una vita dignitosa ed autosufficiente secondo una valutazione di fatto riservata al giudice di merito.  Questo è quanto stabilito dalla Corte di Cassazione, sez. Vi Civile, ordinanza n. 28104/2020, depositata il 9 dicembre.

Il caso. Il Tribunale pronunciandosi nel giudizio di divorzio tra due coniugi stabiliva un assegno divorzile di 300,00 Euro mensili in favore dell’ex moglie.


Avverso tale sentenza il marito interponeva appello e la Corte di Appello distrettuale respingeva l’appello e confermava la corresponsione dell’assegno divorzile di 300,00 Euro mensili in favore dell’ex moglie.


Avverso tale sentenza l’ex marito proponeva ricorso per cassazione. In sostanza il ricorrente lamentava la mancata rivalutazione dell’assegno in relazione alla comparazione reddituale e all’omessa osservanza dei principi fissati dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 11504/17. Il giudice di merito aveva, infatti, determinato in 300,00 euro la somma a favore dell’ex coniuge in considerazione del tenore di vita goduto dai coniugi in costanza del matrimonio, durato 28 anni, e alla disparità delle relative condizioni economiche.

Il Supremo Collegio,  richiamava la sentenza a Sezioni Unite n. 18287 del 11/07/2018 con la quale si stabiliva che “Il riconoscimento dell’assegno di divorzio in favore dell’ex coniuge, cui deve attribuirsi una funzione assistenziale ed in pari misura compensativa e perequativa, ai sensi della L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, richiede l’accertamento dell’inadeguatezza dei mezzi dell’ex coniuge istante, e dell’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, applicandosi i criteri equiordinati di cui alla prima parte della norma, i quali costituiscono il parametro cui occorre attenersi per decidere sia sulla attribuzione sia sulla quantificazione dell’assegno. Il giudizio dovrà essere espresso, in particolare, alla luce di una valutazione comparativa delle condizioni economico-patrimoniali delle parti, in considerazione del contributo fornito dal richiedente alla conduzione della vita familiare ed alla formazione del patrimonio comune, nonché di quello personale di ciascuno degli ex coniugi, in relazione alla durata del matrimonio ed all’età dell’avente diritto. La funzione equilibratrice del reddito degli ex coniugi, anch’essa assegnata dal legislatore all’assegno divorzile, non è finalizzata alla ricostituzione del tenore di vita endoconiugale, ma al riconoscimento del ruolo e del contributo fornito dall’ex coniuge economicamente più debole alla formazione del patrimonio della famiglia e di quello personale degli ex coniugi. Pertanto ai fini dell’attribuzione e della quantificazione dell’assegno divorzile deve tenersi conto delle risorse economiche di cui dispone l’ex coniuge più debole e se tali risorse siano sufficienti ad assicurare una esistenza libera e dignitosa ed un’adeguata autosufficienza economica, nonostante la sproporzione delle rispettive posizioni economiche delle parti”. Sulla base di tale contesto giurisprudenziale, risultava evidente che “il tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio non può più costituire il parametro al quale fare riferimento per la determinazione dell’assegno divorzile, dovendo piuttosto il giudice avere riguardo alla indipendenza economica intesa come disponibilità di mezzi adeguati tali da consentire una vita dignitosa ed autosufficiente secondo una valutazione di fatto riservata al giudice di merito”. Nel caso de quo, il Giudice di merito non aveva adeguatamente tenuto conto della situazione reddituale dei due ex coniugi, mancando totalmente una valutazione della situazione economica delle parti.

Per questi motivi, la Corte di Cassazione accoglieva il ricorso e cassava la sentenza impugnata con rinvio alla Corte d’Appello distrettuale.

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Il danneggiato deve dimostrare il nesso eziologico tra la cosa in custodia ed il danno

Il danneggiato deve dimostrare il nesso eziologico tra la cosa in custodia ed il danno

In tema di responsabilità da cosa in custodia ex art. 2051 c.c., trattandosi di un criterio di imputazione oggettivo della responsabilità, l’attore/danneggiato deve dimostrare il nesso eziologico tra la cosa in custodia ed il danno, mentre sul custode grava l’onere della prova liberatoria. Questo è quanto stabilito dalla Corte di Cassazione, sez. II, civile, ordinanza n. 25018/2020, depositata il 9 novembre. 

Il caso. La Corte d’Appello distrettuale dichiarava inammissibile l’impugnazione della pronuncia di prime cure con cui era stata respinta la domanda di risarcimento del danno da infiltrazioni di acqua e di umido proveniente dalle parti comuni del Condominio. Secondo i giudici dell’appello non poteva ritenersi dimostrato il nesso causale tra il danno e la cosa in custodia.

Avverso tale sentenza il condomino proponeva ricorso per cassazione. Con l’unico motivo di ricorso si denunciava la violazione dell’art. 2051 c.c. lamentando che la sentenza avesse ritenuto indimostrato il nesso causale e la provenienza del danno dalle parti comuni dell’edificio, confondendo la prova del nesso eziologico tra la cosa in custodia e il pregiudizio lamentato, con la necessità di individuare specificamente anche la causa del danno stesso, la cui prova competeva al Condominio. Secondo il ricorrente, la prova del nesso causale era stata comunque raggiunta, poiché il c.t.u. aveva elaborato una pluralità di ipotesi, ognuna delle quali comprovava la responsabilità del Condominio (provenienza delle infiltrazioni dal sottosuolo comune, dalle pareti condominiali o provocate da un innalzamento della falda acquifera). Secondo il Supremo Collegio “L’art. 2051 c.c., nell’affermare la responsabilità del custode della cosa per i danni da questa cagionati, individua un criterio di imputazione che prescinde da qualunque connotato di colpa, operando sul piano oggettivo dell’accertamento del rapporto causale tra la cosa e l’evento dannoso (Cass. 2477/2018). Non assume rilievo, a tal fine, la condotta del custode e l’osservanza degli obblighi di vigilanza: tale responsabilità è quindi esclusa solo dal caso fortuito, fattore che attiene non già ad un comportamento del responsabile, ma al profilo causale dell’evento” (Cass. 15383/2006; Cass. 2563/2007). Si trattava in definitiva di un criterio di imputazione oggettivo della responsabilità per la cui dimostrazione l’attore/danneggiato doveva dimostrare il nesso eziologico tra la cosa in custodia ed il danno, mentre sul custode grava l’onere della prova liberatoria. Come precisato dalla Corte di legittimità, il criterio di imputazione collegato al rapporto di custodia reagiva sul rapporto di causalità, nel senso che “un rapporto causale concepito allo stato puro tende all’infinito. La responsabilità oggettiva non può essere pura assenza o irrilevanza dei criteri soggettivi di imputazione, bensì sostituzione di questi con altri di natura oggettiva, i quali svolgono nei confronti del rapporto di causalità, la medesima funzione che da sempre è propria dei criteri soggettivi di imputazione nei fatti illeciti. Tale criterio di imputazione nelle specifiche fattispecie di responsabilità oggettive è fissato dal legislatore con una qualificazione del soggetto, su cui viene fatto ricadere il costo del danno” (così, testualmente, Cass. 15383/2006). In definitiva, la responsabilità ex art. 2051 c.c., postulava la sussistenza di un rapporto di custodia della cosa e una relazione di fatto tra un soggetto e la cosa stessa, tale da consentire il potere di controllarla, di eliminare le situazioni di pericolo che fossero insorte e di escludere i terzi dal contatto con la cosa. Detta norma non dispensava il danneggiato dall’onere di provare il nesso causale, ossia di dimostrare che l’evento si era prodotto come conseguenza normale della particolare condizione, potenzialmente lesiva, posseduta dalla cosa, mentre restava a carico del custode, offrire la prova contraria alla presunzione iuris tantum della sua responsabilità, mediante la dimostrazione positiva del caso fortuito, cioè del fatto estraneo alla sua sfera di custodia, avente un impulso causale autonomo e carattere di imprevedibilità e di assoluta eccezionalità. Le ulteriori deduzioni del ricorrente circa il positivo accertamento, ad opera del c.t.u., della derivazione delle infiltrazioni dalle parti comuni dell’edificio apparivano inammissibili, poiché l’accertamento del nesso di causalità e della colpa di un soggetto nella produzione di un evento dannoso si risolveva in un giudizio di fatto, che si sottraeva al sindacato in sede di legittimità se, come nella specie, correttamente motivato (Cass. 3939/1996; Cass. 6974/2000).

Per tali motivi, la Corte di Cassazione rigettava il ricorso e condannava il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

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Nelle abitazioni moderne di taglio medio, il secondo bagno è un’esigenza tanto diffusa quanto essenziale

Nelle abitazioni moderne di taglio medio, il secondo bagno è un’esigenza tanto diffusa quanto essenziale

La realizzazione di un secondo bagno nelle moderne abitazioni di taglio medio, trattandosi di un’esigenza tanto diffusa da rivestire il carattere dell’essenzialità, giustifica la mancata applicazione dell’art. 889 c.c. negli edifici in Condominio.

Questo è quanto stabilito dalla Corte di Cassazione, sez. II Civile, ordinanza n. 26680/2020, depositata il 24 novembre.

Il caso. Il proprietario di un appartamento sito in uno stabile condominiale ricorreva innanzi al Tribunale competente al fine di far accertare la violazione delle distanze dei tubi realizzati dal proprietario dell’appartamento posto al piano superiore, ai sensi dell’art. 889 c.c.. Il Tribunale accoglieva la domanda e accertava la violazione delle distanze.

Avverso tale sentenza la parte soccombente interponeva appello e la Corte d’appello distrettuale  dichiarava la nullità della sentenza di primo grado e, decidendo nel merito, rigettava la domanda.

Avverso tale sentenza veniva proposto ricorso per cassazione che dichiarava la nullità del processo d’appello per mancato rispetto dei termini a comparire nei confronti degli appellati, eredi del proprietario dell’appartamento sottostante.


Riassunto il giudizio da parte del proprietario dell’appartamento sovrastante, la Corte d’appello  accoglieva il gravame e, per l’effetto rigettava la domanda proposta. La Corte di merito osservava che, in relazione alle installazioni dei tubi nei solai che separavano i piani di un edificio condominiale, doveva applicarsi l’art. 1102 c.c.; accertava, quindi, che l’uso più intenso del solaio comune intermedio non fosse inidoneo a pregiudicare l’utilizzo del bene condominiale ed a provocare una particolare situazione di danno o di pericolo. La corte distrettuale escludeva, inoltre la violazione dell’art. 889 c.c., in quanto incompatibile con la struttura dell’edificio e delle esigenze abitative connesse alla creazione di un secondo bagno, necessario in un’abitazione di taglio medio.


Gli eredi del proprietario dell’appartamento sottostante proponevano ricorso per cassazione. Ebbene, con riguardo alla dedotta violazione dell’art. 889 c.c., la Corte di Cassazione aveva affermato che “le norme che regolano i rapporti di vicinato trovano applicazione, rispetto alle singole unità immobiliari, solo in quanto compatibili con la concreta struttura dell’edificio e con la natura dei diritti e delle facoltà dei condomini, sicché il giudice deve accertare se la rigorosa osservanza di dette disposizioni non sia irragionevole, considerando che la coesistenza di più appartamenti in un unico edificio implica di per sé il contemperamento dei vari interessi al fine dell’ordinato svolgersi della convivenza tra i condomini. (Cassazione civile sez. II, 2/02/2016, n. 1989; Cassazione civile sez. II, 28/06/2019, n. 17549)”. In particolare, per quanto atteneva la realizzazione del secondo bagno, la disposizione dell’art. 889 c.c., relativa alle distanze da rispettare per pozzi, cisterne, fossi e tubi era applicabile anche con riguardo agli edifici in Condominio, salvo che si trattasse di impianti da considerarsi indispensabili ai fini di una completa e reale utilizzazione dell’immobile, tale da essere adeguata all’evoluzione delle esigenze generali dei cittadini nel campo abitativo e alle moderne concezioni in tema di igiene; ne conseguiva che la creazione o la modifica di un secondo bagno nelle moderne abitazioni di taglio medio trattandosi di un’esigenza tanto diffusa da rivestire il carattere dell’essenzialità – giustificava la mancata applicazione dell’art. 889 c.c. negli edifici in Condominio (Cassazione civile sez. II, 09/06/2009, n. 13313). La Corte di merito aveva accertato che l’installazione delle tubazioni nel solaio intermedio – peraltro già attraversato dalle tubazioni a servizio del bagno preesistente tra i due piani – da parte del proprietario del piano soprastante rispondesse all’esigenza di dotare di un secondo bagno un appartamento di taglio medio, costituito da quattro camere e servizi di circa 80 mq., esigenza di carattere essenziale, indipendentemente dal concreto utilizzo del proprietario. La realizzazione del secondo bagno non aveva arrecato pregiudizio nell’utilizzo dei beni comuni da parte degli altri condomini, risolvendosi l’installazione delle tubature in un uso più intenso del solaio, peraltro realizzato in adiacenza a quello preesistente.


Per tali motivi la Corte di Cassazione rigettava il ricorso e condannava la parte ricorrente al pagamento, in favore della parte controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità.

Avvocato Anna Maria Cupolillo Staff Giuridico Avvocato Express

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