Vanno rispettate le distanze anche in caso di inedificabilità?

Vanno rispettate le distanze anche in caso di inedificabilità?

Le costruzioni realizzate in zona soggetta a vincolo di inedificabilità assoluta devono osservare le norme in materia di distanze previste dal D.M. n. 1444/1968. Questo è quanto stabilito dalla Cassazione civile, sez. II, ordinanza, 31 agosto 2022, n. 25647

Il caso. Due condomini agivano in giudizio per ottenere la condanna della vicina di casa alla rimozione di una veduta e l’arretramento di tubazioni ai sensi dell’art. 889 c.c.. Secondo gli attori, la vicina aveva realizzato una sopraelevazione del terrazzino senza rispettare le normative sulle distanze legali tra edifici, considerando anche che gli immobili erano collocati nel centro storico cittadino, in cui era imposto un vincolo di inedificabilità assoluta. Non era, pertanto, possibile realizzare la sopraelevazione, in quanto l’obbligo di rispettare l’originaria distanza tra i volumi preesistenti riguardava lserial number zemana antimalware premiume sole ristrutturazioni, mentre nella fattispecie era stato realizzato un vero proprio ampliamento di volumetria e, dunque, una nuova costruzione. Il giudice di prime cure dava ragione agli attori.

Avverso tale sentenza parte soccombente interponeva appello e i giudici di seconde cure, in parziale accoglimento del gravame, respingeva le domande volte ad ottenere la rimozione di una veduta e l’arretramento di tubazioni ai sensi dell’art. 889 c.c. e ss.. Secondo la Corte d’Appello distrettuale, l’appellante nell’eseguire i lavori presso lo stabile di sua proprietà, aveva osservato la distanza tra i volumi preesistenti, ai sensi del D. M. n. 1444/1968, art. 9, comma 1, punto 1) norma recepita nello strumento urbanistico locale ed applicabile alla zona A – centro storico – in cui erano situati i manufatti. Dal rogito di acquisto dell’appellante emergeva che l’edificio originario eradaemon tools crack costituito da alcuni vani a piano terra e da due piccoli vani ammezzati, oltre che da una sovrastante area libera e che le nuove opere erano identiche a quelle originarie, come confermavano anche talune foto prodotte dalla dante causa della stessa, riprese in corso di lavori, dalle quali già si evinceva l’esistenza di un manufatto al di sopra del piano terra, con la copertura divelta. Si configurava – ad avviso della Corte di merito – una mera ristrutturazione, senza alcun avanzamento verso la confinante proprietà della controparte, senza riduzione delle distanze tra volumi preesistenti e senza dar luogo ad un’apprezzabile riduzione di aria e di luce, atteso che i vani, posti al piano ammezzato, avevano un’altezza, senza il tetto (divelto), praticamente uguale a quella dei vani origiiobit malware fighter serialnari. Altresì, la Corte, riteneva legittima anche la realizzazione del terrazzino, posto a distanza di 1,50 prevista dall’art. 905 c.c., comma 2, evidenziando che dalle aperture presenti sulla parete degli appellanti non era possibile nè l’inspicere nè il prospicere, essendo “incassate” nel muro per circa 40 centimetri ovvero poste ad un’altezza che non consentiva l’affaccio e la veduta, reputando corretta anche l’apposizione di pannelli volti ad impedire che dal terrazzino si esercitasse la veduta.

Avverso tale sentenza gli appellati proponevano ricorso per cassazione. Secondo gli Ermellini il ricorso era infondato, in quanto trattavasi di una semplice ristrutturazione di manufatti preesistenti, senza incrementi volumetrici, con la conseguenza che l’opera risultava conforme al regime delle distanze. Le norme urbanistiche locali avevano, infatti, recepito le prescrizioni del D. M. n. 1444/1968, art. 9, comma 1, n. 1, che prevedeva, per il centro storico, in cui vigeva un vincolo di inedificabilità assoluta, l’osservanza delle distanze preesistenti (Cass. civ., n. 3739/2018; Cass. civ., n. 12767/2008; Cass, civ., n. 879/1999; Cass. civ., n. 4754/1995). A ciò si aggiungeva la previsione secondo cui i divieti assoluti di costruzione, vigenti in una data zona, non contemplavano, di norma, prescrizioni integrative dell’art. 873 c.c., «essendo posti esclusivamente allo scopo di conservare la destinazione urbanistica di una determinata parte del territorio e a tutela di interessi generali, quali le limitazioni del volume, della altezza, della densità degli edifici, le esigenze dell’igiene e della viabilità, la conservazione dell’ambiente» (Cass. civ., n. 10775/2003; Cass. civ., n. 5508/1994; Cass. civ., n. 7154/1995; Cass. civ., n. 5719/1998; Cass. civ., n. 16094/2025). Pertanto, nei centri storici, l’inedificabilità assoluta, anche se conseguenza di eventuali vincoli di carattere paesaggistico, non escludeva che nei rapporti interprivati si dovesse osservare la distanza tra le opere preesistenti (Cass. civ., n. 2008/12767). In particolare, i limiti imposti dall’art. 9. D. M. n. 1444/1968, trovavano applicazione anche con riferimento alle nuove costruzioni, quali dovevano considerarsi le sopraelevazioni effettuate nei centri storici ove, vigendo il generale divieto di nuove edificazioni, era previsto solo che le distanze tra gli edifici non potessero essere inferiori a quelle intercorrenti tra i preesistenti volumi edificati (Cass. civ., n. 3739/2018).

Per tali motivi la Corte di Cassazione rigettava il ricorso.

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Rendiconto approvato e vendita dell’immobile:l’amministratore può ottenere il decreto ingiuntivo anche nei confronti dell’ex proprietario?

Rendiconto approvato e vendita dell’immobile:l’amministratore può ottenere il decreto ingiuntivo anche nei confronti dell’ex proprietario?

La delibera di approvazione del rendiconto non è del tutto irrilevante nel rapporto di credito e debito tra il Condominio e l’ex condomino. In tal caso, l’ex condomino non può limitarsi a contestare il documento nella sua globalità, deducendo la mera non vincolatività della delibera nei suoi confronti, ma è tenuto afootball manager 2021 ไฟล์เดียว contestare, in relazione al rendiconto approvato, le singole voci di spesa per cui ritiene non dovuti i contributi, restando a carico del Condominio, in tal caso, l’onere di provare, in relazione ad esse, il fondamento della propria pretesa. Questo è quanto stabilito dalla Cassazione civile, sez. II, ordinanza, 3 agosto 2022, n. 24069.

Il caso. Un ex condomino proponeva opposizione a due decreti ingiuntivi richiesti, il primo, dal supercondominio e, il secondo, dal Cnero 2015 torrentsondominio, per il pagamento di oneri condominiali approvati dalle rispettive assemblee e relativi ad annualità precedenti l’alienazione del suo immobile.

Nel giudizio di primo grado, dopo la riunione dei procedimenti, il Giudice di prime cure dichiarava nulli i decreti ingiuntivi opposti.

Avverso tale sentenza, veniva interposto appello e il Giudice di seconde cure, in riforma del precedente provvedimento, revocava il decreto ingiuntivo emesso in favore del supercondominio, condannando l’opponente al pagamento della minor somma di Euro 1.691,13, e rigettava, invece, l’opposizione nei confronti del provvedimento monitorio richiesto dal Condominio. Secondo il giuwondershare streaming audio recorder crack itadicante, le somme ingiunte erano a carico dell’opponente in quanto riferite a spese condominiali relative al periodo precedente la vendita in cui egli era ancora proprietario dell’immobile.

Avverso tale sentenza, il venditore proponeva ricorso per Cassazione eccependo, tra i vari motivi, che non essendo l’opponente condomino al momento della delibera, egli non poteva partecipare all’assemblea ed impugnare le relative decisioni. A tale proposito la Corte di legittimità riteneva opportuno richiamare alcune norme e principi che regolavano la posizione che veniva ad assumere il condomino in conseguenza della vendita della propria unità immobiliare. Secondo gli Ermellini, si poteva partire da due affermazioni di carattere generale, più volte ribadite dalla giurisprudenza della stessa Corte, cui erano legate implicazioni e conseguenze giuridiche che meritavano di essere a loro volta esaminate e chiarite: “la prima è che il condomino che venda la propria unità immobiliare è tenuto al pagamento delle spese di gestione fatte nel periodo in cui era proprietario (Cass. n. 14531 del 2022; Cass. n. 11199 del 2021; Cass. n. 15547 del 2017; Cass. n. 1956 del 2000; Cass. n. 981 del 1998). Il principio è diretta conseguenza della natura propter rem delle obbligazioni che sorgono per effetto di tali spese ed è affermato esplicitamente dall’art. 1123 c.c., oltre a ricevere dirette conferme da altre disposizioni, tra cui quella dettata dall’art. 63 disp. att. c.c., laddove prevede, al comma 4, un’obbligazione solidale autonoma, non propter rem, a carico dell’acquirente per i contributi maturati nell’anno in corso ed in quello precedente la vendita (Cass. n. 21860 del 2020), la quale presuppone l’esistenza di una obbligazione principale a carico dell’ex proprietario, e, al comma successivo, l’obbligo, sempre in via solidale, dello stesso per i contributi maturati fino alla comunicazione all’amministratore dell’atto di cessione del bene. La seconda affermazione è che il condomino che vende non può più considerarsi tale, ma diventa soggetto estraneo al condominio (Cass. n. 23345 del 2008; Cass. n. 9 del 1990). La posizione di condomino è assunta, per effetto della cessione, dal nuovo proprietario. Da tale seconda affermazione discende, quale corollario, che il cedente, non essendo più condomino, non ha alcun titolo per partecipare alle assemblee condominiali né può considerarsi vincolato dalle sue deliberazioni. L’art. 1137 c.c., comma 1, stabilisce che le deliberazioni dell’assemblea sono obbligatorie per tutti i condomini e tale principio comporta, in negativo, che esse non sono vincolanti per coloro che sono estranei alla compagine condominiale. Ne deriva che non ha senso porre il tema, nei confronti dell’ex condomino, della definitività della delibera condominiale per mancata impugnazione, dal momento che questi non può, non avendone la legittimazione, proporla e che, inoltre, le contestazioni che egli dovesse eventualmente sollevare in giudizio nei confronti della stessa sfuggono alla stessa logica della distinzione tra cause di annullabilità e cause di nullità della delibera, che può porsi esclusivamente rispetto alle impugnative proposte dai condomini.” Pertanto, il cedente, non essendo più condomino, non poteva considerarsi vincolato dalle deliberazioni. Tuttavia, secondo il Supremo Collegio, il venditore non più legittimato a partecipare direttamente alla assemblea poteva comunque far valere le sue ragioni connesse al pagamento dei contributi relativi al periodo in cui era proprietario attraverso l’acquirente che gli era subentrato, e per il quale, anche in relazione al vincolo di solidarietà, si configurava una gestione di affari non rappresentativa: partecipare alle assemblee condominiali e rappresentare e far valere, in esse, anche le ragioni del suo dante causa. Pertanto, l’obbligo del condomino di pagare i contributi per le spese di manutenzione delle parti comuni dell’edificio derivava non dalla preventiva approvazione della spesa e dalla ripartizione della stessa, ma dalla concreta attuazione dell’attività di manutenzione e sorgeva, quindi, per effetto dell’attività gestionale concretamente compiuta. Dunque, l’eventuale venir meno della delibera per invalidità non comportava anche l’insussistenza del diritto del Condominio di pretendere la contribuzione alle spese per i beni e servizi comuni di fatto erogati. Con ciò si voleva dire che, a differenza di quella che approvava l’esecuzione di lavori straordinari, la delibera dell’assemblea condominiale che approvava il rendiconto era innovativa soltanto per la parte che approvava il documento contabile, cui la legge riconduceva determinati effetti, non con riguardo al suo contenuto, cioè alla rendicontazione delle spese effettuate, nei cui confronti aveva un valore ricognitivo o dichiarativo. Ad ogni modo, secondo il Supremo Collegio, il fatto che la delibera non fosse vincolante per l’ex proprietario si traduceva nella possibilità di sollevare avverso di essa contestazioni liberamente, non astrette nel termine ed alle regole che disciplinano l’impugnativa da parte dei condomini ai sensi dell’art. 1137 c.c., ma non significava, per contro, che essa fosse del tutto irrilevante nel rapporto di credito e debito tra il Condominio e l’ex condomino. In tali termini, la delibera de qua si configurava come un documento ricognitivo e, pertanto, rappresentativo che, seppure non vincolante nei confronti dell’ex condomino, aveva tuttavia un valore probatorio intrinseco del credito vantato dal Condominio, suscettibile di valutazione da parte del giudice. Ne discendeva che l’ex condomino non poteva limitarsi a contestare il documento nella sua globalità, deducendo la mera non vincolatività della delibera nei suoi confronti, ma era tenuto a contestare, in relazione al rendiconto approvato, le singole voci di spesa per cui ritiene non dovuti i contributi, restando a carico del Condominio, in tal caso, l’onere di provare, in relazione ad esse, il fondamento della propria pretesa. Altresì, la considerazione secondo cui l’alienante dell’immobile, per effetto della vendita, non fosse più condomino comportava l’inapplicabilità della disposizione ex art. 63, comma 1, disp. att. c.c. che consentiva all’amministratore, sulla base dello stato di ripartizione delle spese approvato dall’assemblea, di ottenere decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo. Tale conseguenza, tuttavia, come nel caso de quo, non escludeva che potesse avvalersi della procedura monitoria, ai sensi della norma generale posta dall’art. 633 c.p.c., quindi senza automatica provvisoria esecuzione, procedura che poteva contare sulla produzione da parte dell’amministratore della delibera di approvazione di rendiconto e di ripartizione della spesa, a cui andava riconosciuta valore di prova anche nei confronti dell’ex condomino, sia pure sottoposta alla valutazione da parte del giudice. 

Per tali motivi la Corte di Cassazione rigettava il ricorso proposto nei confronti del Condominio e condannava il ricorrente al pagamento delle spese di giudizio.

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I redditi occultati al fisco hanno rilevanza per la determinazione dell’assegno di mantenimento?

I redditi occultati al fisco hanno rilevanza per la determinazione dell’assegno di mantenimento?

Ai fini dell’accertamento del tenore di vita familiare funzionale alla quantificazione dell’assegno di mantenimento in favore di moglie e figli in sede di separazione, rilevano anche i redditi sottratti al fisco e goduti dalla famiglia. Si attribuisce al giudice il potere ufficioso di disporre accertamenti patrimoniali allo scopo di fare emergere nel processo consistenze economiche non palesate dalle parti, quando, in ragione del loro occultamento, l’ordinaria ripartizione dell’onere della prova renderebbe estremamente difficoltosa, se non impossibile, la loro rivelazione. Questo è quanto stabilito dalla Cassazione civile, sez. I, ordinanza, 19 luglio 2022, n. 22616.

Il caso. Il Giudice di prime cure dichiarava la separazione personale dei coniugi addebitandola al marito, assegnava la casa coniugale alla moglie, quale genitore convivente con il figlio maggiorenne non autosufficiente economicamente, poneva a carico del marito l’obbligo di contribuire al mantenimento del figlio, mediante il versamento alla madre della somma di Euro 1.200,00 mensili, da rivalutarsi annualmente, oltre al pagamento del 100% delle spese straordinarie, stabiliva in favore della moglie un assegno di mantenimento di Euro 1.300,00 mensili, da rivalutarsi annualmente e compensava, in parte, le spese di lite.

Avverso tale sentenza la ricorrente proponeva appello innanzi alla Corte distrettuale, lamentando l’insufficienza della quantificazione degli assegni. Censurava la statuizione nella parte in cui, ai fini della determinazione del tenore di vita familiare e delle effettive condizioni economiche del marito, aveva escluso qualsivoglia rilevanza ai redditi derivanti dall’attività libero professionale del marito asseritaavg vpn crackedmente non dichiarati al fisco. Per questo insisteva sia per l’accoglimento dell’ordine di esibizione, formulata in primo grado, sia sul compimento di accertamenti di polizia tributaria. Si costituiva l’appellato chiedendo il rigetto dell’impugnazione. La Corte d’Appello rigettava l’impugnazione confermando la decisione del Tribunale.

Avverso tale sentenza veniva proposto ricorso per cassazione articolato in due motivi. Con il primo motivo di impugnazione si deduceva la violazione o falsa applicazione di legge per avere la Corte di appello ritenuto che l’eventuale disponibilità di entrate sottratte all’imposizione fiscale, di cui tutto il nucleo familiare aveva in passato beneficiato, non potesse essere presa  a parametro di riferimento per determinare l’assegno spettante al coniuge separato e al figlio, mentre avrebbe dovuto considerare che ciò che rilevava era il tenore di vita matrimoniale, a prescindere dal fatto che le disponibilità di cui godeva la famiglia fossero o meno sottratte all’imposizione fiscale. Con il secondo motivo di ricorso si deduceva la violazione o falsa applicazione di legge per avere la Corte di Appello negato indagini di polizia tributaria ed ulteriori approfondimenti istruttori mediante ordini di esibizione ex art. 210 c.p.c., sull’erroneo presupposto che le eventuali entrate sottratte all’imposizione fiscale non potessero costituire parametro di riferimento del tenone di vita familiare. Il controricorrente eccepiva l’inammissibilità dell’avverso ricorso. Il Supremo Collegio esaminava congiuntamente il primo e secondo motivo essendo tra loro strettamente connessi e riteneva entrambi fondati sia pure nei limiti di seguito esposti. La giurisprudenza di legittimità consolidata riteneva che il giudice di merito per quantificare l’assegno di mantenimento spettante al coniuge al quale fosse addebitabile la separazione doveva accertare, quale indispensabile elemento di riferimento, il tenore di vita di cui la coppia avesse goduto durante la convivenza, quale situazione condizionante la qualità e la quantità delle esigenze del richiedente, accertando le disponibilità patrimoniali dell’onerato. Al riguardo, non poteva limitarsi a considerare soltanto il reddito emergente dalla documentazione fiscale prodotta, ma, doveva tenere conto anche degli altri elementi di ordine economico suscettibili di incidere sulle condizioni delle parti quali la disponibilità di un consistente patrimonio, anche mobiliare, e la conduzione di uno stile di vita particolarmente agiato e lussuoso. Anche l’assegno di mantenimento in favore dei figli minori e maggiori di età, ma non autosufficienti economicamente, doveva essere determinato considerando le esigenze del beneficiario in rapporto al tenore di vita goduto durante la convivenza dei genitori, tenendo conto di tutte le risorse a disposizione della famiglia, non potendo i figli di genitori separati essere discriminati rispetto a quelli i cui genitori continuano a vivere insieme. L’art. 5, comma 9, L. 898/1970, stabiliva, altresì, che in caso di contestazioni il Giudice di primo grado disponeva indagini sui redditi e patrimoni dei coniugi e sul loro effettivo tenore di vita, avvalendosi, se del caso, della polizia tributaria. Questa previsione applicabile per il giudizio di divorzio, in via analogica, andava applicata anche ai procedimenti di separazione personale così come prospettato dalla Cass. Civ. S.U. 11 luglio 2018, n. 18297 che aveva riconosciuto all’assegno divorzile la funzione perequativo-compensativa accanto a quella assistenziale. Nel caso in esame, il giudice del gravame aveva in un primo momento ribadito che le eventuali disponibilità di denaro derivanti da attività sottratte al fisco di cui la famiglia avesse goduto non potevano essere considerate ai fini della ricostruzione del tenore di vita familiare, per poi rilevare che comunque al fine della liquidazione degli assegni, non occorreva la precisa quantificazione dei redditi delle parti, potendo il giudice desumere argomenti di prova anche dal comportamento processuale delle parti in relazione all’ordine di esibizione non adempiuti o non completamente adempiuti. Sulla base di tali principi riteneva che il giudice di primo grado avesse operato la valutazione di tutti gli elementi di prova acquisiti al processo, ritenuti più che idonei a fondare la statuizione sulla misura dei medesimi assegni. Tuttavia, la Suprema Corte riteneva che tali principi non fossero conformi a diritto tenuto conto che anche le entrate sottratte al fisco contribuivano alla ricostruzione del tenore di vita familiare; tali entrate, ove esistenti, dovevano essere accertate anche facendo ricorso a presunzioni e argomenti di prova, il giudice quindi non aveva adottato l’ordine di esibizione richiesto e non aveva potuto valutare il contegno processuale in ordine allo stesso. Ne conseguiva che non risultava conforme a diritto la statuizione di rigetto di richiesta di indagini di polizia tributaria. Gli Ermellini precisavano che l’art. 5, comma 9, L. 898/1970, non poteva essere letto nel senso che il potere del giudice di disporre indagini di polizia tributaria dovesse essere considerato come un dovere imposto dalla mera contestazione delle parti in ordine alle rispettive condizioni economiche e la relativa istanza e la contestazione dei fatti incidenti sulla posizione reddituale del coniuge dovevano basarsi su fatti specifici e circostanziati. Il Supremo Collegio aveva più volte affermato che il diniego delle indagini non era sindacabile purché fosse correlabile, anche per implicito, ad una valutazione di superfluità dell’iniziativa e di sufficienza dei dati istruttoria acquisiti. Era tuttavia evidente che tale valutazione doveva fondarsi su corretti presupposti giuridici tra cui quelli inerenti alla individuazione degli elementi che rilevavano ai fini della decisione. Nel caso de quo, la Suprema Corte riteneva che non potevano ritenersi superflue ai fini della ricostruzione del tenore di vita familiare le eventuali entrate occultate al fisco. Il giudice dell’appello non avrebbe dovuto valutare la sufficienza o meno delle prove già acquisite, nella non corretta ottica della irrilevanza di possibili redditi nascosti al fisco, ma verificare se gli elementi addotti dalla ricorrente in ordine all’incompletezza e alla inattendibilità delle risultanze relative alle consistenze economiche del marito, fossero così specifiche e circostanziate da giustificare la ricerca di ulteriori informazioni rispetto a quelle già acquisite, facendo ricorso alla polizia tributaria. Solo una volta acquisite tali informazioni, il medesimo giudice avrebbe, poi, potuto valutare se le medesime fossero in grado di rappresentare un tenore di vita migliore di quello già acquisito al processo e, dunque, di giustificare un aumento degli assegni di mantenimento oppure no.

Per tali motivi la Corte di Cassazione accoglieva il ricorso, cassava la sentenza impugnata e rinviava la causa, anche per quanto riguardava le spese del presente grado di giudizio, alla Corte di appello competente in diversa composizione.

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Chi paga le spese condominiali pregresse all’acquisto dell’immobile?

Chi paga le spese condominiali pregresse all’acquisto dell’immobile?

L’acquirente dell’appartamento risponde soltanto delle obbligazioni condominiali sorte in epoca successiva al momento in cui, acquistandolo, è divenuto condomino e qualora sia chiamato a rispondere delle obbligazioni condominiali sorte in epoca anteriore, in virtù del principio dell’ambulatorietà, ha comunque diritti a rivalersi nei confronti del suo dante causa. Questo è quanto stabilito dalla Cassazione civile, sez. II, ordinanza, 9 maggio 2022, n. 14531.

Il caso. Una signora, in qualità di acquirente di un appartamento, conveniva in giudizio la venditrice, chiedendo la condanna di quest’ultima alla restituzione della somma pari ad Euro 17.738,93 corrisposta dall’attrice in favore del Condominio a titolo di oneri condominiali a seguito di decreto ingiuntivo, emesso nei suoi confronti in quanto proprietaria attuale dell’immobile, affermando che detti oneri erano di spettanza della convenuta venditrice in quanto relativi a voci di spesa antecedenti l’alienazione dell’appartamento. Il Tribunale competente accoglieva la domanda formulata dall’attrice.

Avverso tale sentenza la soccombente venditrice interponeva gravame. La Corte di appello distrettuale accoglieva l’appello e, in riforma della sentenza impugnata, respingeva l’originaria domanda. In particolare, i giudici di seconde cure affermavano che, essendo i contributi condominiali in questione precedenti di oltre due anni la compravendita, l’obbligazione oggetto di causa non era solidale fra le parti per cui l’azione proposta dall’acquirente non poteva essere qualificata di regresso ai sensi dell’art. 1299 c.c., ma quale adempimento del terzo di un debito altrui, con conseguente richiesta di restituzione da parte dell’effettivo debitore, essendo pacifico che il soggetto obbligato nei confronti del Condominio fosse la venditrice. Ciò posto, la Corte d’Appello accertava che la venditrice, “ben prima” del pagamento effettuato in corso di causa dall’acquirente, aveva rappresentato a quest’ultima che le delibere sulle quali il Condominio fondava il proprio credito erano radicalmente nulle in quanto effettuate senza la partecipazione di tutti gli aventi diritto, manifestando così l’intenzione di non voler procedere al pagamento e di far valere dette nullità nell’ipotesi di ingiunzione da parte del Condominio. Altresì, la Corte affermava che l’acquirente non era legittimata a richiedere la restituzione di quanto “malamente pagato”, per non aver dato immediata comunicazione alla debitrice effettiva della ricevuta notifica del decreto ingiuntivo relativo ad un debito altrui e avendo, così, impedito alla venditrice di difendersi e opporsi tempestivamente.

Avverso tale sentenza l’acquirente proponeva ricorso per Cassazione con due motivi. Con il primo motivo la ricorrente sosteneva di vantare un diritto di credito nei confronti della venditrice sia in forza della clausola prevista al punto n. 3 del contratto di compravendita con la quale controparte si sarebbe impegnata a consegnare all’acquirente l’immobile libero da pesi, gravami, vincoli, oneri e privilegi, sia in ragione della contestuale scrittura privata in manleva intercorsa inter partes. Aggiungeva, inoltre, che la fattispecie in esame non sarebbe rientrata nel paradigma di cui all’art. 1180 c.c., rivestendo non già la qualità di terzo ma quella di nuova proprietaria dell’appartamento e, come tale, sarebbe stata obbligata al pagamento degli oneri nei rapporti con il Condominio, dovendosi qualificare il debito condominiale oggetto di causa come obbligazione reale. Con il secondo motivo la ricorrente lamentava il vizio di motivazione della sentenza impugnata per omesso esame circa un fatto controverso e decisivo in relazione all’art. 1137 c.c. e art. 305 c.p.c., per aver il giudice di appello rigettato la domanda dell’acquirente per non avere quest’ultima attivato un procedimento monitorio di opposizione a decreto ingiuntivo che le avrebbe consentito di chiamare in causa la venditrice così da permetterle di poter eccepire la nullità delle delibere condominiali poste a fondamento del decreto ingiuntivo. Ad avviso della ricorrente, infatti, la sua eventuale opposizione a decreto ingiuntivo non avrebbe mai comportato una declaratoria di nullità delle predette delibere, poiché sarebbero state già impugnate dalla venditrice in due precedenti giudizi, conclusisi entrambi, uno con sentenza definitiva di rigetto dell’opposizione e l’altro con dichiarazione di estinzione per mancata riassunzione. I motivi del ricorso venivano esaminati congiuntamente data la loro intrinseca connessione. Secondo pacifica giurisprudenza della Corte “in tema di ripartizione delle spese condominiali tra venditore e acquirente dell’immobile, il previgente art. 63 disp. att. c.c., comma 2, ratione temporis applicabile – ora, in forza della L. n. 220 del 2012, art. 63, comma 4, disp. att. c.c. – delinea a carico dell’acquirente un’obbligazione solidale, non propter rem, ma autonoma, in quanto costituita ex novo dalla legge esclusivamente in funzione di rafforzamento dell’aspettativa creditoria del Condominio su cui incombe, poi, l’onere di provare l’inerenza della spesa all’anno in corso o a quello precedente al subentro dell’acquirente (Cass. n. 21860 del 2020). In altri termini, la responsabilità solidale dell’acquirente per il pagamento dei contribuiti dovuti al Condominio dal venditore è limitata al biennio precedente all’acquisto, trovando applicazione l’art. 63 disp. att. c.c., comma 2, e non già l’art. 1104 c.c., atteso che, ai sensi dell’art. 1139 c.c., le norme sulla comunione in generale si estendono al condominio soltanto in mancanza di apposita disciplina (Cass. n. 2979 del 2012 e Cass. n. 16975 del 2005).” Inoltre, gli Ermellini, ribadivano che “il principio dell’ambulatorietà di cui all’art. 63 disp. att. c.c., secondo cui l’acquirente di un’unità immobiliare condominiale può essere chiamato a rispondere dei debiti condominiali del suo dante causa, solidamente con lui, ma non al suo posto, opera solo nei confronti dei rapporti esterni con il condominio, non anche nei rapporti interni tra acquirente e venditore. In quest’ultimo rapporto, salvo che non sia diversamente convenuto dalle parti, è operante il principio generale della personalità delle obbligazioni, con la conseguenza che l’acquirente dell’appartamento risponde soltanto delle obbligazioni condominiali sorte in epoca successiva al momento in cui, acquistandolo, è divenuto condomino e qualora sia chiamato a rispondere delle obbligazioni condominiali sorte in epoca anteriore, in virtù del principio dell’ambulatorietà, ha comunque diritti a rivalersi nei confronti del suo dante causa (Cass. n. 1956 del 2000).” Anche la Corte d’Appello aveva affermato che, essendo i contributi condominiali precedenti di oltre due anni la compravendita, l’obbligazione oggetto della causa non era solidale fra le parti, per cui l’azione proposta dall’acquirente dell’immobile non poteva essere qualificata di regresso ai sensi dell’art, 1299 c.c., ma quale adempimento del terzo di un debito altrui, con conseguente richiesta di restituzione da parte dell’effettivo debitore. Alla luce di tali considerazioni, nel caso di specie l’unico soggetto obbligato al pagamento delle spese nei confronti del Condominio era la venditrice, in qualità di proprietaria dell’unità immobiliare al momento dell’adozione delle delibere condominiali fonti dell’obbligazione in questione, con conseguente legittimità dell’azione di indebito soggettivo proposta dall’acquirente.

Per tali motivi la Corte di Cassazione accoglieva il ricorso, cassava la sentenza impugnata e rinviava alla Corte di appello distrettuale, in diversa composizione, anche per la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.

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Difetto di ricezione dell’avviso di convocazione:si deve annullare la delibera assembleare

Difetto di ricezione dell’avviso di convocazione:si deve annullare la delibera assembleare

Va annullata la delibera assunta dal Condominio per difetto di ricezione dell’avviso di convocazione da parte di un condomino. Questo è quanto stabilito dal Tribunale Roma, sentenza, 18 febbraio 2022, n. 2636

Il caso. Una condomina citava in giudizio il Condominio chiedendo l’annullamento della delibera condominiale per violazione delle forme di convocazione. L’attrice impugnava la delibera lamentando di non aver ricevuto la convocazione per la relativa assemblea. “In materia di condominio, la disposizione di cui all’art. 1136 co. VI c.c. – secondo cui l’assemblea non può deliberare se non consta che tutti i condomini sono stati invitati alla riunione – comporta che ogni condomino ha diritto di intervenire all’assemblea e deve quindi essere messo in condizione di farlo ricevendo l’avviso di convocazione nel termine indicato dall’art. 66 disp. att. c.c., se non è previsto un termine pattizio maggiore (Cass. 22.11.1985, n.5769); il vizio derivante dall’omessa convocazione, incidendo sulla corretta formazione della volontà collegiale, comporta l’annullabilità della delibera, come chiarito dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (n.4806/2005), e la prova dell’avvenuta convocazione entro tale termine spetta al condominio”. L’adito Tribunale accoglieva la domanda attorea ricordando che, come chiarito da tempo dalla giurisprudenza di legittimità, l’avviso deve essere non solo inviato ma anche ricevuto dal condomino entro il termine stabilito (Cass. n. 5769/1985), proprio alla luce della ratio della norma, che mira ad assicurare la conoscenza, o anche solo la conoscibilità con l’ordinaria diligenza, da parte del condomino dell’esistenza di un’assemblea e degli argomenti che in essa si discuteranno”. Nel caso de quo, infatti, il Condominio non aveva assolto tale onere probatorio, limitandosi a produrre copia della raccomandata spedita tramite posta privata e consegnata al portiere dello stabile. A tal proposito il Tribunale rammentava che dal 2011, grazie al processo di liberalizzazione del mercato postale, l’avviso di convocazione dell’assemblea di Condominio poteva avvenire anche tramite servizio postale privato. Nel caso in esame, però la raccomandata era stata sottoscritta dal portiere con la mera indicazione di tale sua qualità. Tale notifica, pertanto, doveva considerarsi nulla e non in grado di comprovare l’effettiva e tempestiva ricezione da parte del destinatario dell’avviso di convocazione.

Per tali motivi il Tribunale accoglieva la domanda e, per l’effetto, annullava la delibera impugnata per difetto di ricezione dell’avviso di convocazione della stessa.

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Installazione del sistema di videosorveglianza:serve l’unanimità o la maggioranza dei condomini?

Installazione del sistema di videosorveglianza:serve l’unanimità o la maggioranza dei condomini?

Le deliberazioni concernenti l’installazione su parti comuni di impianti volti a consentire la videosorveglianza di essi sono approvate dall’assemblea con la maggioranza di cui all’art. 1136, comma 1, c.c. (ossia tanti condomini che rappresentino i due terzi del valore dell’intero edificio e la maggioranza dei partecipanti al Condominio). Ciò è quanto stabilito dalla Cassazione civile, sez. II, ordinanza, 11 maggio 2022, n. 14969.

Il caso. Una condomina di uno stabile impugnava due deliberazioni assembleari: la prima riguardante la ripartizione, in base ai millesimi di proprietà, del canone da versare al Comune per una intercapedine per l’anno 2010 e della spesa per l’installazione di un sistema di videosorveglianza; la seconda la ripartizione del canone per l’intercapedine per l’anno successivo e la spesa per completare l’impianto già oggetto della precedente delibera. Il Tribunale dichiarava inammissibile l’impugnativa della prima delibera per decorso del termine e rigettava l’impugnativa della seconda, ritenendola infondata.

Avverso tale sentenza la condomina interponeva appello deducendo che le due delibere erano nulle e non semplicemente annullabili, sia per quanto riguardava la spesa per il canone per l’intercapedine, sia per la spesa relativa all’impianto di videosorveglianza. Secondo la condomina, l’intercapedine non era un bene comune e, in ogni caso, la relativa spesa non poteva essere imputata a tutti i condomini in base ai millesimi di proprietà, ma doveva ripartirsi in base all’uso. Al riguardo evidenziava che l’intercapedine era destinata al servizio dei box interrati posti ai piani -2 e -3 e, altresì, in ordine all’impianto di videosorveglianza, eccepiva che la materia esulava dalla competenza dell’assemblea, richiedendosi il consenso unanime di tutti i partecipanti al Condominio. La Corte d’Appello distrettuale confermava la sentenza di primo grado, osservando che il Condominio aveva replicato che l’intercapedine era funzionale all’intero fabbricato e che, al cospetto di tale deduzione, la diversa destinazione dell’intercapedine, dedotta dalla condomina, era rimasta del tutto sfornita di prova; inoltre, riconosceva la legittimità della decisione dell’assemblea riguardo all’impianto di videosorveglianza, benchè assunta solo a maggioranza.

Avverso tale sentenza la condomina proponeva ricorso per Cassazione sulla base di due motivi di doglianza. In particolare, la condomina lamentava che i giudici di seconde cure non avessero tenuto conto della maggioranza occorrente per l’installazione dell’impianto di videosorveglianza, non bastando secondo la ricorrente quella semplice. Secondo la Suprema Corte, prima della riforma del Condominio la giurisprudenza di merito, nel silenzio della legge, aveva affrontato più volte le problematiche sottese all’uso di telecamere, arrivando però a soluzione contrastanti. In particolare, una parte della giurisprudenza di merito sosteneva che la delibera dell’assemblea condominiale che approva l’installazione di un impianto di videosorveglianza relativo a parti comuni, non rientrava, in senso assoluto, tra quelle riconducibili all’approvazione dell’assemblea. Altro orientamento faceva salvo il caso in cui la decisione fosse stata assunta all’unanimità dai condomini, perfezionandosi in questo caso un comune consenso idoneo a fondare effetti tipici di un negozio dispositivo dei diritti coinvolti. Una terza impostazione si accontentava della deliberazione a maggioranza e per la prospettata violazione della privacy dei condomini richiamava la giurisprudenza della Corte di cassazione penale secondo cui installare una telecamera sul cortile condominiale non integrava gli estremi del reato di cui all’art. 615 bis c.p.. Il legislatore della novella, con un articolo dedicato, ossia il nuovo art. 1122 ter c.c., ha introdotto, nel sistema della disciplina condominiale, la videosorveglianza. La nuova disposizione prescriveva che le deliberazioni concernenti l’installazione su parti comuni di impianti volti a consentire la video sorveglianza di essi erano approvate dall’assemblea con la maggioranza di cui all’art. 1136, comma 1, c.c. (ossia tanti condomini che rappresentino i due terzi del valore dell’intero edificio e la maggioranza dei partecipanti al Condominio).

Per tali motivi la Corte di Cassazione rigettava il ricorso e condannava la ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità.

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