R. Nelle ipotesi di trasformazioni eterogenee – nelle quali si assiste al passaggio da una società ad una comunione di godimento di azienda o comunque da una società ad una impresa individuale – si determina sempre un rapporto di successione tra soggetti distinti, perché persona fisica e persona giuridica si distinguono appunto per natura e non solo per forma, con la conseguenza che la nascita di una comunione indivisa tra due o più persone fisiche (cui l’ente collettivo trasferisca il proprio patrimonio) non preclude la dichiarazione di fallimento della società entro il termine di un anno dalla sua eventuale cancellazione dal registro delle imprese.
(Corte di Cassazione, sez. I Civile, sentenza n. 16511/19; depositata il 19 giugno)
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R. Sacrosanto il diritto del lavoratore a vedersi risarcito per le ripercussioni negative subite a seguito della condotta tenuta dal datore di lavoro, che ora dovrà sborsare quasi 160mila euro. Decisiva la constatazione che i nuovi compiti assegnati al dipendente non prevedevano più i poteri di direzione e di coordinamento in precedenza espletati.
(Corte di Cassazione, sez. Lavoro, ordinanza n. 16596/19; depositata il 20 giugno)
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R. L’art. 3, comma 1, Direttiva 2009/103/CE, concernente l’assicurazione della responsabilità civile risultante dalla circolazione di autoveicoli e il controllo dell’obbligo di assicurare tale responsabilità, deve essere interpretato nel senso che rientra nella nozione di «circolazione dei veicoli», contemplata da tale disposizione, una situazione, come quella in discussione nel procedimento principale, nella quale un veicolo parcheggiato in un garage privato di un immobile, utilizzato in conformità della sua funzione di mezzo di trasporto, abbia preso fuoco, provocando un incendio avente origine nel circuito elettrico del veicolo stesso, e abbia causato dei danni a tale immobile, malgrado il fatto che detto veicolo non fosse stato spostato da più di 24 ore prima del verificarsi dell’incendio.
(Corte di Giustizia UE, Seconda Sezione, sentenza 20 giugno 2019, causa C-100/18)
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CPer i tubi d’acqua e loro diramazioni deve osservarsi la distanza dal confine di almeno un metro, si fonda su una presunzione assoluta di dannosità per infiltrazioni o trasudamenti che non ammette prova contraria. Questo vale anche per i canali di gronda e i pluviali discendenti dal tetto. Questo è quanto stabilito dalla Corte di Cassazione, sez. II Civile, sentenza n. 14273/2019, depositata il 24 maggio.
Il caso. Due comproprietari di un fabbricato evocavano in giudizio, innanzi il Tribunale, i proprietari di un terreno
confinante per sentirli condannare all’abbattimento del timpano eseguito in
sopraelevazione del fabbricato confinante, all’arretramento dello sporto di
gronda e al ripristino dello stato precedente del terreno, nonché al
risarcimento del danno, sul presupposto
che tutte le opere denunciate fossero state eseguite in
violazione delle norme in tema di distanza dai confini e tra i fabbricati. Si
costituivano i convenuti resistendo alla domanda e sostenendo la liceità di
quanto da loro realizzato in conformità ai titoli autorizzatori ottenuti dal
Comune. Il Tribunale respingeva tutte le domande condannando gli
attori alle spese del grado.
Avverso tale sentenza gli attori interponevano
appello.
La Corte di Appello territoriale accoglieva in parte il gravame
condannando uno degli appellati a convogliare le acque meteoriche provenienti
dal tetto dello stabile di sua proprietà in conformità al regolamento di igiene
della Regione di appartenenza, nonché respingeva gli altri motivi di appello
compensando le spese del grado.
Avverso tale sentenza le parti soccombenti proponevano
ricorso per cassazione. Con la prima
censura, contenuta alla lettera “B” del primo motivo, i ricorrenti
lamentavano la violazione e falsa applicazione dell’art. 873 c.c. in relazione
all’art. 360 c.p.c., n. 3 perché la Corte di Appello aveva errato nel ritenere
che la realizzazione del timpano sul tetto dello stabile della società
resistente non costituiva nuova costruzione, posto che la C.T.U. aveva
accertato che l’opera era alta cm.257 e che qualsiasi opera non completamente
interrata aventi requisiti di stabilità, indipendentemente dalla sua
utilizzabilità a fini abitativi e dalla sua altezza, andava ritenuta
“nuova costruzione” e come tale andava assoggettata alle prescrizioni
di cui all’art. 873 c.c.. Il motivo veniva ritenuto fondato. In proposito, la
Suprema Corte ribadiva il principio secondo cui “La sopraelevazione, anche
se di ridotte dimensioni, comporta sempre un aumento della volumetria e della
superficie di ingombro e va, pertanto, considerata a tutti gli effetti, e,
quindi, anche per la disciplina delle distanze, come nuova costruzione”.
Pertanto, la Corte di Appello aveva erroneamente valorizzato il fatto che il nuovo
volume derivante dalla sopraelevazione oggetto di causa non possedesse i
requisiti di abitabilità ed accessibilità, senza considerare che “…
rientra nel concetto di nuova costruzione qualsiasi modifica della volumetria
di un fabbricato preesistente che comporti l’aumento della sagoma d’ingombro,
in guisa da incidere direttamente sulla situazione di distanza tra edifici,
indipendentemente dalla sua utilizzabilità ai fini abitativi”. Con la seconda
parte del primo motivo, identificata dalla lettera “C”, i ricorrenti
lamentavano un ulteriore profilo di violazione e falsa applicazione art. 873
c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3 perché la Corte di Appello avrebbe
dovuto applicare la norma sulle distanze anche alla gronda, che era stata
prolungata in conseguenza della modifica del tetto e posta, nella parte nuova,
a distanza dal confine, inferiore a quella legale. Con il secondo motivo, i
ricorrenti lamentavano la violazione e falsa applicazione art. 889 c.c., comma
2 in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3 perché la Corte di Appello avrebbe
dovuto considerare che anche lo sporto di gronda era stato prolungato per
effetto della modifica realizzata al tetto dello stabile della società controricorrente
e posto a soli 28 cm dal confine tra i lotti, in violazione della distanza
minima di un metro imposta dall’art. 889 c.c.. Le due censure, venivano
trattate congiuntamente in quanto ambedue relative alla distanza dal confine
dei canali di scarico delle acque piovane dell’edificio della società controricorrente,
e venivano ritenute fondate, seppur limitatamente. Gli Ermellini ribadivano il
principio secondo cui “In tema di distanze per impianti dal fondo contiguo
la disposizione dell’art. 889 c.c., comma 2, secondo cui per i tubi d’acqua
pura o lurida e loro diramazioni deve osservarsi la distanza dal confine di
almeno un metro, si fonda su una presunzione assoluta di dannosità per
infiltrazioni o trasudamenti che non ammette la prova contraria”. Proprio
in virtù della ritenuta presunzione assoluta di dannosità, con i precedenti
appena richiamati, la Corte di legittimità sanciva la completa equiparazione
dei canali di gronda e dei pluviali discendenti dal tetto dello stabile alle
colonne di scarico. Di conseguenza, la Corte di Appello aveva erroneamente
escluso dall’ambito di applicazione dell’art. 889 c.c. il canale di gronda e i
pluviali di scarico realizzati dalla società controricorrente in diretta
conseguenza dell’intervento di sopraelevazione e di modifica della sagoma del
tetto dell’edificio di cui era causa.
Per tali
motivi la Corte di Cassazione accoglieva il ricorso, cassava la sentenza
impugnata e rinviava la causa, anche per le spese del presente giudizio di
Cassazione, ad altra sezione della Corte di Appello territoriale.
Avv. Anna Maria
Cupolillo Staff Giuridico Avvocato Express
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RLanciare un grosso oggetto (nel caso de quo un pezzo di legno) contro un collega di lavoro – senza riuscire a colpirlo, peraltro – è comportamento sì censurabile ma non così grave da portare al licenziamento. Tale gesto può essere visto come un mero gesto dimostrativo di protesta. Questo è quanto stabilito dalla Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza n. 14054/2019, depositata il 23 maggio.
Il caso. Il dipendente di un’aziendascagliava “un pezzo di legno – lungo circa 60 centimetri, largo 6
centimetri e spesso 4 centimetri – in direzione di un collega, senza però
riuscire a colpirlo”. A provocare l’attimo di follia erano state le “operazioni
ad elevata rumorosità” compiute dal lavoratore preso di mira, operazioni che
avevano già precedentemente “provocato una reazione di fastidio, accompagnata
da espressioni offensive” nell’operaio resosi poi protagonista del lancio. Tutti
gli elementi a disposizione facevano sì che la società decideva di licenziare il
lavoratore finito sotto accusa per avere provato a colpire il collega. Gli
stessi elementi, però, venivano letti diversamente dai giudici di merito, che,
tanto in primo che in secondo grado, azzeravano il licenziamento, ritenendo “non
sussistente il fatto oggetto di contestazione disciplinare, identificato in un tentativo
di lesioni volontarie”, poiché “il lancio del pezzo di legno in direzione della
postazione di lavoro del collega, distante oltre dieci metri” non era
sufficiente per parlare di “azione oggettivamente idonea a colpire con
intensità apprezzabile” la persona presa di mira. Inoltre, sempre secondo i
giudici, si poteva piuttosto parlare plausibilmente di “mero gesto dimostrativo
di protesta”.
La società soccombente proponeva ricorso per cassazione fondato su cinque
motivi di doglianza. Con il primo motivo, la ricorrente censurava la sentenza
impugnata per non avere adeguatamente considerato che l’episodio oggetto della
contestazione disciplinare e del successivo licenziamento, pur non essendo
stato produttivo di danno, rivestiva comunque il carattere della illiceità, la
quale ben poteva essere connessa ad un fatto di natura colposa e a qualsiasi
condotta contraria alla vita e all’organizzazione aziendale, e per non avere
considerato – una volta accertata la illegittimità del comportamento posto in
essere dal lavoratore e al fine di escluderne la punibilità con l’adozione
della sanzione espulsiva – se esso potesse rientrare nell’ambito di
applicazione delle misure conservative previste dal C.C.N.L. di settore,
nessuna delle quali peraltro aveva ad oggetto comportamenti contro la persona.
Con il secondo motivo, la società censurava la sentenza per avere ritenuto che
il datore di lavoro dovesse dimostrare che il lancio del pezzo di legno era
diretto a colpire il collega e come tale dimostrazione non fosse stata
conseguita, senza, tuttavia, valutare l’impossibilità di una prova attinente
alla sfera puramente interna del soggetto agente e la sussistenza di
sufficienti indizi per la qualificazione della condotta come ostile. Con il
terzo e con il quarto motivo, la società ricorrente si doleva che la Corte d’Appello
non si fosse pronunciata sulla possibilità di riqualificare il licenziamento
per giusta causa in licenziamento per giustificato motivo soggettivo. Con il
quinto motivo, la ricorrente si doleva dell’applicazione della tutela
reintegratoria in luogo del pagamento di una indennità risarcitoria compresa tra
un minimo di dodici e un massimo di ventiquattro mensilità dell’ultima
retribuzione globale di fatto. Gli Ermellini ritenevano che la lettura data
alla vicenda in questione dai giudici di merito era corretta e, pertanto, la
confermavano. Inutile risultava il ricorso proposto dalla società e finalizzato
a porre in evidenza la gravità del comportamento tenuto nello stabilimento
aziendale dal lavoratore. Sostanzialmente, secondo il Supremo Collegio, doveva
applicarsi il principio secondo cui il fatto era sì sussistente ma “privo del
carattere di illiceità”, e pertanto non così grave da legittimare il
provvedimento sanzionatorio più drastico, cioè il licenziamento. Altresì,
respingeva la tesi secondo cui ci si trovava di fronte ad “una condotta
contraria alla vita e all’organizzazione aziendale” e, pertanto, al lavoratore,
veniva riconosciuto il proprio diritto a tornare di nuovo ad essere operativo
nello stabilimento.
Avv. Anna Maria Cupolillo Staff Giuridico Avvocato Express
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VIl condomino opponente non può far valere questioni relative alla validità della delibera condominiale di approvazione dello stato di ripartizione delle spese, ma solo questioni attinenti all’efficacia di quest’ultima. Questo è quanto stabilito dalla Corte di Cassazione, sez. II Civile, sentenza n. 11482/2019, depositata il 30 aprile.
Il caso. Un Condominio otteneva dal
Giudice di Pace competente un decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo nei
confronti di una condomina per spese condominiali giusto riparto approvato
nell’assemblea condominiale. L’opposizione della condomina veniva respinta dal
Giudice di primo grado.
Avverso tale sentenza la condomina
soccombente interponeva appello. L’adito Tribunale accoglieva parzialmente
l’appello, revocava il decreto e riduceva l’importo originario di Euro 2.465,47
ad Euro 2.143,39.
Avverso tale sentenza la condomina
soccombente proponeva ricorso per cassazione sulla base di quattro motivi. Col
primo motivo, la ricorrente denunziava la violazione dell’art. 1136 c.c., e
art. 69 disp. att. c.c. (ex art. 360 c.p.c., n. 3) per erronea applicazione del
principio dell’apparenza del diritto in materia condominiale con particolare
riferimento all’erronea convocazione del soggetto diverso dall’effettivo
condomino. Col secondo motivo denunziava la violazione dell’art. 2697 c.c. non
avendo il creditore opposto, attore in senso sostanziale, dato prova del
credito monitoriamente azionato. Col terzo motivo lamentava la violazione dell’art. 115 c.p.c.,
per erronea valutazione delle prove documentali. Col quarto ed ultimo motivo la
ricorrente deduceva la violazione dell’art. 91 c.p.c. censurando la pronuncia
sulle spese.
Per costante giurisprudenza della Corte di legittimità, “nel procedimento di
opposizione a decreto ingiuntivo emesso per la riscossione di contributi
condominiali, il giudice deve limitarsi a verificare la perdurante esistenza ed
efficacia delle relative delibere assembleari, senza poter sindacare, in via
incidentale, la loro validità, essendo tale sindacato riservato al giudice
davanti al quale dette delibere sono state impugnate. In altri termini, il
condomino opponente non può far valere questioni attinenti alla validità della
delibera condominiale di approvazione dello stato di ripartizione, ma solo
questioni riguardanti l’efficacia di quest’ultima. La delibera costituisce,
infatti, titolo sufficiente del credito del condominio e legittima non soltanto
la concessione del decreto ingiuntivo, ma anche la condanna del condominio a
pagare le somme nel processo oppositorio a cognizione piena, il cui ambito è,
dunque, ristretto alla verifica della (perdurante) esistenza della
deliberazione assembleare di approvazione della spesa e di ripartizione del
relativo onere. (Cass. Sez. U., 18 dicembre 2009, n. 26629 cit.; Cass. Sez. 2,
23/02/2017, n. 4672 cit.). Il giudice deve quindi accogliere l’opposizione solo
qualora la delibera condominiale abbia perduto la sua efficacia, per esserne
stata l’esecuzione sospesa dal giudice dell’impugnazione, ex art. 1137 c.c.,
comma 2, o per avere questi, con sentenza sopravvenuta alla decisione di merito
nel giudizio di opposizione ancorché non passata in giudicato, annullato la
deliberazione”. Ebbene, nel
caso de quo, la delibera era stata annullata dalla Corte d’Appello con apposita
sentenza, la cui produzione in allegato alla memoria della ricorrente doveva
ritenersi consentita.
Per tali motivi la Corte di Cassazione accoglieva il ricorso, cassava la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, accoglieva l’opposizione revocando il decreto ingiuntivo opposto e compensava tra le parti le spese dell’intero giudizio.
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