Ai due terzi della spesa ex art. 1126 c.c. deve
partecipare il proprietario di ciascun appartamento sito nella colonna
sottostante al lastrico in proporzione del valore millesimale dell’unità.
Questo è quanto stabilito dalla Cassazione Civile, sez. II, sentenza 5 novembre
2021, n. 32103.
Il caso. La Corte
d’Appello distrettuale, accogliendo il gravame avanzato dal Condominio contro
la sentenza resa dal giudice di prime cure, respingeva l’impugnazione ex
art. 1137 c.c. della deliberazione assembleare, avente ad oggetto il
rifacimento del lastrico solare in uso da un condomino, costituente copertura
di due appartamenti sottostanti. Tale delibera era stata ritenuta nulla per
mancanza della maggioranza.
Avverso tale sentenza
il Condomino proponeva ricorso per cassazione deducendo la violazione e la
falsa applicazione degli artt. 1116 c.c. e 62 disp. att. c.c., e degli artt.
1123, comma e 1136, commi 2, 4, e 6 c.c.. Secondo il Supremo Collegio «In
ipotesi di lastrico solare (o terrazza a livello) di uso esclusivo (che è
quello di cui si discute nel presente giudizio, stando a quanto appare
accertato in sede di merito) trova applicazione il regime sulle spese stabilito
dall’art. 1126 cc.c.. Questa norma, obbligando a partecipare alla spesa
relativa alle riparazioni del lastrico solare o terrazzo di uso esclusivo,
nella misura di due terzi, “tutti i condomini dell’edificio o della parte
di questa a cui il lastrico solare serve”, si riferisce a coloro ai quali
appartengono unità immobiliari di proprietà individuale comprese nella
proiezione verticale del manufatto da riparare o ricostruire, alle quali,
pertanto, esso funge da copertura, con esclusione dei condomini ai cui
appartamenti il lastrico stesso non sia sovrapposto» (cfr. Cass. Sez. 2,
28/08/2020, n. 18045; Cass. Sez. 6-2, 07/10/2019, n. 24927; Cass. Sez. 6 – 2,
10/05/2017, n. 11484; Cass. Sez. 2, 04/06/2001, n. 7472; Cass. Sez. 2,
15/04/1994, n. 3542; Cass. Sez. 2, 16/07/1976, n. 2821 del Cass. Sez. 2,
29/01/1974, n. 244). Altresì, «l’obbligo di partecipare alla ripartizione dei
cennati due terzi della spesa non deriva, quindi, dalla sola, generica, qualità
di partecipante del Condominio, ma dell’essere proprietario di un’unità
immobiliare compresa nella colonna d’aria sottostante alla terrazza o al
lastrico oggetto della riparazione. I proprietari di una delle unità
immobiliari sottostanti coperte dal lastrico o dal terrazzo sono così obbligati
in proporzione al valore della medesima, mentre il proprietario o titolare
dell’uso esclusivo del lastrico o della terrazza non ricorre nella frazione dei
due terzi della spesa, salvo che non sia altresì proprietario di un immobile
sottostante» (Cass. n. 11449/1992, n. 5125/1993 e n. 3542/1994). La regola era
che «ai due terzi della spesa ex art. 1126 c.c. partecipava il
proprietario di ciascun appartamento sito nella colonna sottostante al lastrico
in proporzione del valore millesimale dell’unità» (Cass. n. 1451/2014). Ancora,
«ove un lastrico solare o una terrazza a livello svolga funzione di copertura
di vani sottostanti, se anche l’utilità sia comune a due soli partecipanti,
operano tutte le norme condominiali in tema di organizzazione e specialmente
quelle procedimentali sul funzionamento dell’assemblea, restando unicamente
sotto il profilo dell’elemento personale» (Cass. n. 2046/2006). Nel caso de
quo, i giudici di seconde cure avrebbero dovuto valutare la validità della
delibera assembleare.
Per tali motivi la Corte di Cassazione accoglieva il ricorso e rinviava la
causa alla Corte di merito in diversa composizione.
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Il consuntivo per successivi periodi di gestione che,
nel prospetto dei conti individuali per singolo condomino, riporti tutte le
somme dovute al condominio, comprensive delle morosità relative alle annualità
precedenti, una volta approvato dall’assemblea, può essere impugnato ai sensi
dell’art. 1137 c.c., costituendo altrimenti esso stesso idoneo titolo del
credito complessivo nei confronti di quel singolo partecipante, pur non
costituendo un nuovo fatto costitutivo del credito stesso. Questo è ciò che è
stato stabilito dalla Cassazione civile, sez. VI – 2, ordinanza, 12 ottobre 2021,
n. 27849.
Il caso. Il Giudice di pace
ingiungeva ad un condomino il pagamento il pagamento di Euro 4.406,11 in favore
del Condominio in base alla delibera assembleare di approvazione del consuntivo
2017 e del bilancio preventivo 2018. L’ingiunto condomino proponeva opposizione
sostenendo di aver già versato, ad estinzione dei debiti di cui al consuntivo
2017, l’importo di Euro 3683,43. Il giudice di pace confermava il decreto
ingiuntivo.
Avverso tale sentenza
il condomino interponeva appello. Il giudice di seconde cure respingeva l’appello,
rilevando che la delibera di approvazione delle spese relative a gestioni
precedenti al 2017, posta a fondamento della domanda monitoria, non era stata
impugnata benché l’appellante avesse partecipato alle assemblee. Secondo la
sentenza, nessuna contestazione poteva esser più mossa alla deliberazione
condominiale neppure da un punto di vista formale, poiché il consuntivo
conteneva l’indicazione delle causali delle spese anche con riferimento alle
gestioni pregresse, spese cui doveva concorrere anche il ricorrente.
Avverso tale sentenza
il condomino proponeva ricorso per cassazione lamentandosi in particolare del
fatto che il giudice di secondo grado avesse ritenuto definitiva la delibera di
approvazione dei consuntivi per mancanza di impugnazione. I giudici di
legittimità affermavano che “il consuntivo per successivi periodi di gestione
che, nel prospetto dei conti individuali per singolo condomino, riporti tutte
le somme dovute al condominio, comprensive delle morosità relative alle
annualità precedenti, una volta approvato dall’assemblea, può essere impugnato
ai sensi dell’art. 1137c.c., costituendo altrimenti esso stesso idoneo titolo
del credito complessivo nei confronti di quel singolo partecipante, pur non
costituendo un ‘nuovo fatto costitutivo’ del credito stesso” (cfr. Cassazione
Civile n. 4489/2014; Cassazione Civile n. 20006/2020). In tal caso vigeva il principio che “ nel
giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo concernente il pagamento di
contributi per spese, il condominio soddisfa l’onere probatorio su di esso
gravante con la produzione del verbale dell’assemblea condominiale con cui
siano state approvate le spese, nonché dei relativi documenti” (Cassazione
Civile n. 7569/1994). Altresì, sostenevano che “La delibera condominiale di
approvazione costituisce, così, titolo sufficiente del credito del condominio e
legittima non solo la concessione del decreto ingiuntivo, ma anche la condanna
del condomino a pagare le somme: l’ambito dell’opposizione è ristretto alla
verifica della (perdurante) esistenza e validità della deliberazione
assembleare di approvazione della spesa e di ripartizione del relativo onere
(Cassazione S.U. n. 26629/2009; Cassazione Civile n. 5254/2011; Cassazione
Civile n. 4672/2017). In sostanza,
dall’approvazione del rendiconto annuale dell’amministratore, che è munito
della forza vincolante propria degli atti collegiali, ai sensi dell’art. 1137
c.c., comma 1 (Cass. n. 4306/2018), discende l’insorgenza, e quindi anche la
prova, dell’obbligazione in base alla quale ciascuno dei condomini è tenuto a
contribuire alle spese ordinarie per la conservazione e la manutenzione delle
parti comuni dell’edificio” (Cassazione Civile n. 11981/1992). Nel caso de quo,
il giudice di secondo grado aveva rilevato che la delibera di approvazione del
consuntivo 2017 non era stata impugnata, benché il condomino fosse presente
all’assemblea, deducendone correttamente che nessuna contestazione poteva esser
sollevata nel giudizio di opposizione, essendosi la delibera ormai consolidata.
Per tali motivi, la
Corte di Cassazione dichiarava inammissibile il ricorso e condannava il
ricorrente al pagamento delle spese processuali.
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L’uso esclusivo della
facciata condominiale dell’edificio ad uno soltanto dei condomini, sia pure al
fine specifico di installarvi pannelli pubblicitari, comporta di per sé la
sottrazione agli altri partecipanti al Condominio del diritto di godimento
della cosa comune loro spettante ed il correlativo svuotamento della relativa
proprietà nel suo nucleo essenziale. Questo è ciò che ha deciso la Corte
d’Appello di Milano, sez. III, sentenza 09 luglio 2021 n. 2190.
Il caso. Il Condominio
aveva chiesto al giudice adito la rimozione delle strutture per i pannelli
pubblicitari apposti dalla convenuta condomina sui frontespizi dell’edificio
condominiale. Il giudice respinge la domanda considerando che “al momento di
costituzione del condominio, coincidente con la prima vendita di una singola
unità immobiliare da parte dell’originario proprietario in virtù di clausole
contenute nel relativo atto, anche mediante eventuale richiamo di un previo
regolamento di condominio, è lasciata all’autonomia delle parti la possibilità
di sottrarre alla presunzione di comunione almeno alcune delle parti altrimenti
comuni”.
Avverso tale sentenza il
Condominio interponeva appello eccependo l’errata conclusione del giudice di
prime cure e, in particolare, l’inconferenza ai fini della decisione della
sentenza n. 24301/2017 della Cassazione. La Corte d’Appello distrettuale
osservava che il giudice di primo grado si era basato su un orientamento in
base al quale l’uso esclusivo su parti comuni dell’edificio riconosciuto, al
momento della costituzione di un Condominio, in favore delle unità immobiliari
in proprietà esclusiva, al fine di garantirne il migliore godimento, incideva
non sull’appartenenza delle dette parti comuni alla collettività, ma sul
riparto delle correlate facoltà di godimento fra i condomini, che avveniva secondo
modalità non paritarie determinate dal titolo, in deroga a quello altrimenti
presunto ex artt. 1102 e 1117 c.c.. Questo diritto non era riconducibile al
diritto reale d’uso previsto dall’art. 1021 c.c. e, pertanto, oltre a non mutuarne
le modalità di estinzione, era tendenzialmente perpetuo e trasferibile ai
successivi aventi causa dell’unità immobiliare cui accedeva (Cassazione Civile,
sez. II, 16 ottobre 2017, n. 24301). Tale provvedimento aveva ad oggetto il
diverso caso in cui l’unico proprietario dell’intero edificio aveva concesso
l’uso esclusivo di una porzione del cortile al primo acquirente di una delle
unità immobiliari dello stabile, fino ad allora interamente di sua proprietà).
Sotto questo specifico profilo emergeva l’assenza di una “frizione” con uno dei
principi cardini in materia di diritti reali ovvero il numerus clausus quale
espressione della tassatività legislativa delle diverse figure di ius in re.
Non si discorreva della “creazione” negoziale di una peculiare forma di diritto
reale autonomo ma soltanto, della conformazione del diritto di partecipazione
all’uso della cosa comune secondo un criterio non paritario. Criterio pattuito
in via negoziale e non oggetto di mera esecuzione fattuale dal condomino. Il
citato uso non veniva scorporato dalla proprietà solitaria ed esclusiva del
cespite facente parte del Condominio essendo a questa indissolubilmente legato
e non alla “persona fisica” che ne era titolare. La convenuta non avrebbe
potuto certo disporre dello stesso senza disporre dell’unità solitaria che ne
fondava il diritto di esercizio maggiore in luogo degli altri condomini. Ne
conseguiva che il titolo negoziale che siffatta attribuzione avesse contemplato
implicava di verificare, nel rispetto dei criteri di ermeneutica applicabili,
se, al momento di costituzione del Condominio, le parti non avessero voluto
trasferire la proprietà ovvero, sussistendone i presupposti normativi previsti
e, se del caso, attraverso l’applicazione dell’art. 1419 c.c., costituire un
diritto reale d’uso ex art. 1021 c.c. ovvero, ancora se sussistessero i
presupposti, ex art. 1424 c.c.,
per la conversione del contratto volto alla creazione del diritto reale di uso
esclusivo in contratto avente ad oggetto la concessione di un uso esclusivo e
perpetuo (ovviamente inter partes) di natura obbligatoria (Cassazione
Civile, S.U. 17 dicembre 2020, n. 28972). Pertanto, secondo il nuovo
orientamento “i condomini non possono costituire un diritto reale di uso
esclusivo, perpetuo e trasmissibile, a carico di una parte comune dell’edificio
condominiale e a favore di un condomino, ostandovi i principi del numerus
clausus e della tipicità dei diritti reali”. Detto ciò, i Giudici di
seconde cure osservavano che in sede di costituzione del Condominio gli
originari e unici proprietari dell’edificio non avevano inteso riservare a sé
la proprietà delle facciate ma soltanto il diritto di uso esclusivo. Anche ove
si potesse ricondurre alla figura del diritto reale d’uso di cui all’art. 1021
c.c., come in astratto ipotizzabile secondo la stessa Cassazione Civile, S.U.
17 dicembre 2020, n. 28972 (ma escluso in concreto dal giudice di prime cure),
il diritto d’uso esclusivo delle facciate attribuito a sé dagli originari
comproprietari dell’intero stabile al momento della costituzione del Condominio
(coincidente con il primo atto di vendita), dovrebbe comunque escludersi la
cedibilità a terzi del diritto medesimo, atteso l’espresso divieto sancito in
proposito dall’art. 1024 c.c. (e ciò
contrariamente a quanto affermato, prima dell’intervento delle Sezioni Unite da
Cass. Civ., sez, II, n. 24301/2017). Da
ciò sarebbe conseguito, comunque, la insussistenza in capo alla condomina di un
diritto d’uso esclusivo delle facciate dello stabile opponibile alla
collettività dei condomini. Pertanto, richiamando
i principi delle Sezioni Unite, i condomini non potevano costituire un diritto
reale di uso esclusivo perpetuo e trasmissibili, a carico di una parte comune
dell’edificio condominiale e a favore di un condomino.
Per tali motivi la
Corte d’Appello accoglieva l’interposto appello e condannavano la condomina alla rimozione dei pannelli pubblicitari.
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Qualora la violazione non possa essere immediatamente
contestata, il verbale, con gli estremi precisi e dettagliati della violazione
e con la indicazione dei motivi che hanno reso impossibile la contestazione
immediata, deve, entro novanta giorni dall’accertamento, essere notificato
all’effettivo trasgressore o, quando questi non sia stato identificato e si
tratti di violazione commessa dal conducente di un veicolo a motore, munito di
targa, ad uno dei soggetti indicati nell’art. 196, quale risulta dai pubblici
registri alla data dell’accertamento. Questo è
quanto stabilito dalla Cassazione Civile, sez. II, ordinanza del 30 settembre
2021, n. 26560.
Il caso. Un’automobilista
veniva sanzionata dalla Polizia stradale sia per avere circolato contromano sia
per eccesso di velocità. La
donna impugnava il verbale elevato dalla Polizia stradale. Il Giudice di prime
cure accoglieva parzialmente l’opposizione e annullava il verbale de quo solo
relativamente alla violazione dell’art. 141 C.d.S. (mancato rispetto del limite
di velocità).
Avverso tale sentenza la donna interponeva appello e
otteneva in secondo grado l’annullamento anche in merito alla contestata violazione dell’art. 143 C.d.S.,
comma 12, (per aver circolato contromano). Secondo il Giudice di seconde cure
“il verbale doveva reputarsi nullo a causa della genericità della descrizione
della condotta, posto che la fede privilegiata di cui beneficia il verbale in
questione non comporta il venir meno dell’onere della prova, in capo all’organo
accertante, dei fatti costitutivi del comportamento illecito”; in particolare il Giudice addebitava al verbale,
il quale affermava la circolazione contromano, di “non avere descritto il
fatto in maniera sufficientemente specifica”, quanto a provenienza
dell’autovettura, quanto al punto della rotatoria nella quale sarebbe stata
commessa la violazione, in cosa fosse consistita la limitata visibilità; si
trattava, in definitiva, di “un grave difetto di motivazione”, che
aveva procurato “vulnus”
difensivo e non consentiva al giudice una compiuta valutazione dei fatti.
Avverso tale sentenza il Ministero dell’Interno e la
Prefettura proponevano ricorso per cassazione contestando duramente le valutazioni
compiute dal Giudice di secondo grado. Secondo i ricorrenti “il verbale redatto
per circolazione del Codice della Strada fa fede fino a querela di falso, anche
in ordine alla contestata assenza di una particolareggiata descrizione” e che,
“il verbale era comunque pienamente descrittivo, stante che in esso era riportata
la rotatoria interessata…alla luce di quanto disposto dal combinato disposto
dell’art. 200 C.d.S., comma 2, e art. 383 reg. att., comma 1, nel mentre solo
laddove la contestazione non avvenga nell’immediatezza l’art. 201 C.d.S., comma
1, impone che il verbale notificato al trasgressore debba riportare “gli
estremi precisi e dettagliati della violazione”, per contro nel caso in
esame la contestazione si era avuta nell’immediatezza”, così facendo venire
meno “l’ipotizzato difetto di contraddittorio”. Inoltre, i ricorrenti
affermavano che “gli elementi che il Tribunale ipotizza avrebbero dovuto essere
annotati, oltre che congetturali e astratti, imporrebbero una descrizione di
circostanze esorbitanti, in contrasto con l’art. 143 C.d.S., comma 12”. Queste
osservazioni avevano, per il Supremo Collegio, un solido fondamento. Precisava,
infatti, che <<nel giudizio di opposizione ad ordinanza-ingiunzione relativa
a violazioni del C.d.S. la fede privilegiata di cui all’art. 2700 c.c., assiste
tutte le circostanze inerenti alla violazione, giacché il pubblico ufficiale è
tenuto non solo a dare conto della sua presenza ai fatti attestati, ma anche
delle ragioni per le quali tale presenza ne ha consentito l’attestazione; ne
consegue che le contestazioni delle parti, ivi comprese quelle relative alla
mancata particolareggiata esposizione delle circostanze dell’accertamento,
devono essere svolte con il procedimento della querela di falso, in mancanza
del quale il verbale assume valore di prova della violazione anche nel giudizio
di opposizione (Sez. 2, n. 339, 12/1/2012; ma già S.U. n. 17355/2009); l’art.
200 C.d.S., comma 2. prescrive: “Dell’avvenuta contestazione deve essere
redatto verbale contenente anche le dichiarazioni che gli interessati chiedono
vi siano inserite. Il verbale, che può essere redatto anche con l’ausilio di
sistemi informatici, contiene la sommaria descrizione del fatto accertato, gli
elementi essenziali per l’identificazione del trasgressore e la targa del
veicolo con cui è stata commessa la violazione. Nel regolamento sono
determinati i contenuti del verbale” e dell’art. 383, comma 1 del
regolamento dispone: “Il verbale deve contenere l’indicazione del giorno,
dell’ora e della località nei quali la violazione è avvenuta, delle generalità
e della residenza del trasgressore e, ove del caso, l’indicazione del
proprietario del veicolo, o del soggetto solidale, degli estremi della patente
di guida, del tipo del veicolo e della targa di riconoscimento, la sommaria
esposizione del fatto, nonché la citazione della norma violata e le eventuali
dichiarazioni delle quali il trasgressore chiede l’inserzione”; l’art. 201
C.d.S., per contro, dispone che: “qualora la violazione non possa essere
immediatamente contestata, il verbale, con gli estremi precisi e dettagliati
della violazione e con la indicazione dei motivi che hanno reso impossibile la
contestazione immediata, deve, entro novanta giorni dall’accertamento, essere
notificato all’effettivo trasgressore o, quando questi non sia stato
identificato e si tratti di violazione commessa dal conducente di un veicolo a
motore, munito di targa, ad uno dei soggetti indicati nell’art. 196, quale
risulta dai pubblici registri alla data dell’accertamento>>. Nel caso in
esame non è controverso che “la contestazione si ebbe nell’immediatezza, con
raccolta delle dichiarazioni della conducente”. Di conseguenza, secondo gli
Ermellini, “resiste il verbale di contestazione fino a querela di falso, anche
in relazione alla mancanza o inesatta indicazione di particolari del fatto che
si reputino decisivi”. Altresì, “è da escludere il paventato vulnus
difensivo”. Ciò per la basilare ragione che “non si è in presenza di contestazioni
a sorpresa, ma di fatti ben noti alla conducente, proprio perché contestati
nell’immediatezza e ben compresi dalla medesima, tanto da rilasciare
dichiarazione a verbale”. Evidente, infine, “il ben diverso onere descrittivo
nel caso in cui non si versi in presenza di contestazione immediata, diversità
che non avrebbe ragion d’esistere ove anche fosse richiesta al verbalizzante la
indicazione degli estremi precisi e dettagliati della violazione”. Infine, la
Corte di Cassazione censurava anche
l’osservazione del giudice di secondo grado, osservazione secondo cui “una
maggiore analiticità nella descrizione del fatto sarebbe stata necessaria onde
consentirgli di valutare compiutamente l’eventuale consumazione del contestato
illecito, avendo costui ipotizzato che la sommaria descrizione dell’accaduto
impedisse il suo sindacato”. Su tale fronte, invece, valeva una diversa regola iuris, ovvero “fino a querela di falso,
il fatto deve reputarsi quello contestato e in relazione a esso il giudice è
chiamato ad accertare la conformità a diritto della contestazione”.
Per tali motivi la Corte di Cassazione, cassava la
sentenza impugnata e rinviava al Tribunale competente.
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In tema di possesso dei condomini sulle parti comuni,
l’uso della cosa comune e i lavori per il miglior godimento della stessa ex
art. 1102 c.c. non possono mai concretizzarsi nell’appropriazione sostanziale
del bene mediante uno spoglio degli altri condomini, sicché l’effettuazione di
lavori che incorporino nella proprietà individuale parti condominiali quali le
scale e il pianerottolo si concretizzano in una turbativa del possesso che
legittima il Condominio o uno dei singoli condomini alla relativa azione di
manutenzione, a nulla rilevando che tali parti comuni siano poste a servizio
esclusivo di una porzione dello stabile di proprietà esclusiva. Questo è quanto
stabilito dal Tribunale di Genova, sez. III, ordinanza 23 giugno 2021.
Il caso. Due condomine proponevano azione in via principale ex art. 1168
c.c., ed in subordine ex art. 1170 c.c., nonché ex art. 703
c.p.c., nei confronti della proprietaria di due appartamenti, per la
reintegrazione nel possesso (o in subordine la manutenzione del possesso) a
seguito di spoglio, violento e clandestino commesso dalla condomina resistente accusata
di aver inglobato parti comuni condominiali (pianerottoli e scale) all’interno
dei propri appartamenti, in tal modo unendoli e collegandoli. Il giudice di
primo grado emetteva ordinanza di rigetto del ricorso, ritenendo che le
ricorrenti non godessero di un legittimo possesso dei beni, pur dando per
assodato che oggetto dello spoglio fossero delle parti comuni condominiali e
che le ricorrenti ne fossero comproprietarie. In particolare, il giudice di prime cure evidenziava che, in
relazione alla categoria dei beni condominiali arrecanti un’utilità soggettiva
ai condomini, era necessario che il ricorrente provasse uno specifico utilizzo
del bene da parte del condomino-comproprietario, pena il rigetto della domanda
possessoria.
Avverso tale ordinanza le ricorrenti proponevano
reclamo al Collegio, lamentando la violazione e falsa applicazione degli artt.
1168 e 1170 c.c., con riferimento agli artt. 1102 e 1117 c.c.. Il Collegio,
infatti, affermava che la porzione di pianerottolo e la scala oggetto del
procedimento possessorio costituivano parti comuni dell’edificio in base a
quanto disposto dall’art. 1117, n.1, c.c..
Era pacifico dal confronto tra la situazione preesistente e quella
attuale – fotografie prodotte da entrambe le parti – che la parte
resistente/reclamata con la condotta ed i lavori denunciati dalle
ricorrenti/reclamanti aveva “incorporato/inglobato” nell’unità immobiliare di
sua esclusiva proprietà una porzione del pianerottolo che si trovava subito
dopo il portone di ingresso dell’edificio su via e le scale che consentivano in
precedenza l’accesso al piano seminterrato o terzo sottostrada e, di fatto,
aveva in questo modo “unito” l’appartamento al livello della strada con il
sottostante appartamento, sempre di sua esclusiva proprietà, “utilizzando” le
scale condominiali. Secondo la giurisprudenza
della Suprema Corte – almeno a livello di massime ufficiali (tra le tante:
Cassazione n. 8119/2004; Cassazione n. 16496/2005; Cassazione n.24471/2017) “in
tema di possesso dei condomini sulle parti comuni distingue astrattamente il
c.d. compossesso oggettivo relativo a cose, impianti, servizi che siano
“oggettivamente” utili alle singole unità immobiliari, a cui sono collegati
materialmente o per destinazione – ad esempio il suolo, le fondazioni, il
tetto, la facciata – dal compossesso c.d. soggettivo relativo a cose, impianti
e servizi utili “soggettivamente” tanto che la loro unione materiale o la
destinazione funzionale ai piani o porzioni di piano dipende dall’attività dei
rispettivi proprietari – ad esempio scale, portoni, portici – ma nelle singole
fattispecie esaminate dalla giurisprudenza si possono rinvenire precedenti
favorevoli alla tesi delle reclamanti.” Sul punto, il Supremo Collegio aveva
già avuto modo di affermare che, in tema di possesso dei condomini sulle parti
comuni, “l’uso della cosa comune e i lavori per il miglior godimento della
stessa ex art. 1102 c.c. non possono mai concretizzarsi
nell’appropriazione sostanziale del bene mediante uno spoglio degli altri
condomini, sicché l’effettuazione di lavori che incorporino nella proprietà
individuale parti condominiali quali le scale e il pianerottolo si
concretizzano in una turbativa del
possesso che legittima il condominio o uno dei singoli condomini alla relativa
azione di manutenzione, a nulla rilevando che tali parti comuni siano poste a
servizio esclusivo di una porzione dello stabile di proprietà esclusiva” (Cassazione
Civile, ordinanza 11 settembre 2020, n. 18929).
Nel caso de quo, pertanto, nonostante l’uso sporadico delle scale e del
pianerottolo da parte delle ricorrenti, l’appropriazione avvenuta mediante
“fisica incorporazione/inglobamento” dei beni condominiali nella proprietà
esclusiva della condomina, con alterazione e sottrazione definitiva alla
possibilità di godimento collettivo, non può considerarsi ammissibile e configura
uno spoglio del compossesso: nello specifico, il Collegio evidenziava che
l’incorporazione della porzione di pianerottolo e delle scale nella sua proprietà
esclusiva, con conseguente “fisica impossibilità” di raggiungere il livello
dell’edificio posto al piano seminterrato, ledeva anche il c.d. “compossesso
oggettivo” di beni ex art. 1117, n. 1, c.c., che erano
“oggettivamente utili” alle singole unità immobiliari, per destinazione
materiale e funzionale.
Per tali motivi, il Collegio accoglieva il reclamo e
revocava l’ordinanza impugnata.
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È legittimo il licenziamento per giusta causa qualora la
condotta della ricorrente letta come preordinata a rappresentare un adempimento
in realtà inesistente e volta, pertanto, dolosamente ad eludere il controllo
datoriale, connoti quella gravità tale da pregiudicare l’affidabilità del
datore sull’esatto adempimento delle prestazioni future. Questo è quanto
stabilito dalla Cassazione Civile, sez. lav., ordinanza n. 22370/2021,
depositata il 5 agosto.
Il caso. Una dipendente di una struttura di
vendita veniva licenziata dall’azienda per cui lavorava per i ‘report’ relativi
ai “presunti” contatti con i clienti, contatti che si rivelavano solo virtuali
in molti casi, infatti, numerosi clienti non avevano ricevuto la visita della
lavoratrice. La lavoratrice impugnava il licenziamento per giusta causa. La Corte
d’Appello distrettuale confermava la decisione del Tribunale e rigettava la
domanda proposta dalla lavoratrice nei confronti della Società datrice di
lavoro avente ad oggetto la declaratoria di illegittimità del licenziamento
disciplinare intimatole per giusta causa motivata dall’infedele compilazione
dei report per sette giornate e dallo svolgimento nelle medesime giornate di
attività private estranee alle mansioni. I giudici di seconde cure ritenevano “provato,
almeno in parte, l’addebito relativo alla mancata effettuazione delle visite
indicate nei ‘report’ predisposti (ventiquattro clienti su quaranta)” e
sussistente, “la giusta causa, connotandosi gravemente l’infedele
rappresentazione di attività esterne alla sede aziendale, in realtà non
svoltesi, per l’intento di precostituirsi l’apparenza di un adempimento di
fatto inesistente, al fine di eludere il controllo datoriale sulla regolarità
dell’adempimento medesimo, così da integrare la violazione degli obblighi di
fedeltà e diligenza idonea a ledere il vincolo fiduciario”.
Avverso tale sentenza la lavoratrice proponeva ricorso
per cassazione. In sostanza la lavoratrice sosteneva “l’inconfigurabilità di un
inadempimento” da parte sua “degli obblighi contrattuali in rapporto al mancato
accertamento di attività estranea alle mansioni affidate, al difetto di una
programmazione di dell’attività di visita alla clientela che consentisse di
individuare eventuali carenze nell’esecuzione di quell’attività, carenze
peraltro smentite dai risultati commerciali conseguiti nell’espletata opera di “promotrice”,
l’assenza di un intento doloso nell’irregolare predisposizione dei report e,
pertanto, la non riconducibilità di tale condotta alle fattispecie di cui al
‘codice disciplinare’ date dalla dolosa scritturazione delle presenze o
dall’abuso di fiducia”. Secondo gli Ermellini le doglianze della lavoratrice
andavano rigettate sulla base dell’ammissione, da parte della stessa, della
mancata effettuazione delle visite a ventiquattro clienti nominativamente
individuati dei quaranta indicati nei ‘report’ ” relativi a ben sette giornate.
Di conseguenza, avevano ritenuto di poter attribuire rilevanza ai fini del
giudizio all’ “inadempimento così accertato, dato dalla sola mancata
effettuazione delle visite viceversa indicate come eseguite nei report,
considerando, dunque, questi idonei ad integrare una falsa attestazione
dell’attività eseguita”. Da ciò i giudici facevano discendere del tutto
plausibilmente la lettura della condotta della ricorrente come preordinata a
rappresentare un adempimento in realtà inesistente, volta, pertanto,
dolosamente ad eludere il controllo datoriale e così connotata da quella
gravità tale da pregiudicare l’affidabilità del datore sull’esatto adempimento
delle prestazioni future ed idonea a sostenere l’invocata giusta causa.
Per tali motivi la Corte di Cassazione rigettava il
ricorso e condannava parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di
legittimità.
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