Quali sono le regole di partecipazione alle spese per il rifacimento del lastrico solare?

Quali sono le regole di partecipazione alle spese per il rifacimento del lastrico solare?

Ai due terzi della spesa ex art. 1126 c.c. deve partecipare il proprietario di ciascun appartamento sito nella colonna sottostante al lastrico in proporzione del valore millesimale dell’unità. Questo è quanto stabilito dalla Cassazione Civile, sez. II, sentenza 5 novembre 2021, n. 32103.

Il caso. La Corte d’Appello distrettuale, accogliendo il gravame avanzato dal Condominio contro la sentenza resa dal giudice di prime cure, respingeva l’impugnazione ex art. 1137 c.c. della deliberazione assembleare, avente ad oggetto il rifacimento del lastrico solare in uso da un condomino, costituente copertura di due appartamenti sottostanti. Tale delibera era stata ritenuta nulla per mancanza della maggioranza.

Avverso tale sentenza il Condomino proponeva ricorso per cassazione deducendo la violazione e la falsa applicazione degli artt. 1116 c.c. e 62 disp. att. c.c., e degli artt. 1123, comma e 1136, commi 2, 4, e 6 c.c.. Secondo il Supremo Collegio «In ipotesi di lastrico solare (o terrazza a livello) di uso esclusivo (che è quello di cui si discute nel presente giudizio, stando a quanto appare accertato in sede di merito) trova applicazione il regime sulle spese stabilito dall’art. 1126 cc.c.. Questa norma, obbligando a partecipare alla spesa relativa alle riparazioni del lastrico solare o terrazzo di uso esclusivo, nella misura di due terzi, “tutti i condomini dell’edificio o della parte di questa a cui il lastrico solare serve”, si riferisce a coloro ai quali appartengono unità immobiliari di proprietà individuale comprese nella proiezione verticale del manufatto da riparare o ricostruire, alle quali, pertanto, esso funge da copertura, con esclusione dei condomini ai cui appartamenti il lastrico stesso non sia sovrapposto» (cfr. Cass. Sez. 2, 28/08/2020, n. 18045; Cass. Sez. 6-2, 07/10/2019, n. 24927; Cass. Sez. 6 – 2, 10/05/2017, n. 11484; Cass. Sez. 2, 04/06/2001, n. 7472; Cass. Sez. 2, 15/04/1994, n. 3542; Cass. Sez. 2, 16/07/1976, n. 2821 del Cass. Sez. 2, 29/01/1974, n. 244). Altresì, «l’obbligo di partecipare alla ripartizione dei cennati due terzi della spesa non deriva, quindi, dalla sola, generica, qualità di partecipante del Condominio, ma dell’essere proprietario di un’unità immobiliare compresa nella colonna d’aria sottostante alla terrazza o al lastrico oggetto della riparazione. I proprietari di una delle unità immobiliari sottostanti coperte dal lastrico o dal terrazzo sono così obbligati in proporzione al valore della medesima, mentre il proprietario o titolare dell’uso esclusivo del lastrico o della terrazza non ricorre nella frazione dei due terzi della spesa, salvo che non sia altresì proprietario di un immobile sottostante» (Cass. n. 11449/1992, n. 5125/1993 e n. 3542/1994). La regola era che «ai due terzi della spesa ex art. 1126 c.c. partecipava il proprietario di ciascun appartamento sito nella colonna sottostante al lastrico in proporzione del valore millesimale dell’unità» (Cass. n. 1451/2014). Ancora, «ove un lastrico solare o una terrazza a livello svolga funzione di copertura di vani sottostanti, se anche l’utilità sia comune a due soli partecipanti, operano tutte le norme condominiali in tema di organizzazione e specialmente quelle procedimentali sul funzionamento dell’assemblea, restando unicamente sotto il profilo dell’elemento personale» (Cass. n. 2046/2006). Nel caso de quo, i giudici di seconde cure avrebbero dovuto valutare la validità della delibera assembleare.

Per tali motivi la Corte di Cassazione accoglieva il ricorso e rinviava la causa alla Corte di merito in diversa composizione.

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Il rendiconto consuntivo è prova delle morosità relative alle annualità precedenti

Il rendiconto consuntivo è prova delle morosità relative alle annualità precedenti

Il consuntivo per successivi periodi di gestione che, nel prospetto dei conti individuali per singolo condomino, riporti tutte le somme dovute al condominio, comprensive delle morosità relative alle annualità precedenti, una volta approvato dall’assemblea, può essere impugnato ai sensi dell’art. 1137 c.c., costituendo altrimenti esso stesso idoneo titolo del credito complessivo nei confronti di quel singolo partecipante, pur non costituendo un nuovo fatto costitutivo del credito stesso. Questo è ciò che è stato stabilito dalla Cassazione civile, sez. VI – 2, ordinanza, 12 ottobre 2021, n. 27849.

Il caso. Il Giudice di pace ingiungeva ad un condomino il pagamento il pagamento di Euro 4.406,11 in favore del Condominio in base alla delibera assembleare di approvazione del consuntivo 2017 e del bilancio preventivo 2018. L’ingiunto condomino proponeva opposizione sostenendo di aver già versato, ad estinzione dei debiti di cui al consuntivo 2017, l’importo di Euro 3683,43. Il giudice di pace confermava il decreto ingiuntivo.

Avverso tale sentenza il condomino interponeva appello. Il giudice di seconde cure respingeva l’appello, rilevando che la delibera di approvazione delle spese relative a gestioni precedenti al 2017, posta a fondamento della domanda monitoria, non era stata impugnata benché l’appellante avesse partecipato alle assemblee. Secondo la sentenza, nessuna contestazione poteva esser più mossa alla deliberazione condominiale neppure da un punto di vista formale, poiché il consuntivo conteneva l’indicazione delle causali delle spese anche con riferimento alle gestioni pregresse, spese cui doveva concorrere anche il ricorrente.

Avverso tale sentenza il condomino proponeva ricorso per cassazione lamentandosi in particolare del fatto che il giudice di secondo grado avesse ritenuto definitiva la delibera di approvazione dei consuntivi per mancanza di impugnazione. I giudici di legittimità affermavano che “il consuntivo per successivi periodi di gestione che, nel prospetto dei conti individuali per singolo condomino, riporti tutte le somme dovute al condominio, comprensive delle morosità relative alle annualità precedenti, una volta approvato dall’assemblea, può essere impugnato ai sensi dell’art. 1137c.c., costituendo altrimenti esso stesso idoneo titolo del credito complessivo nei confronti di quel singolo partecipante, pur non costituendo un ‘nuovo fatto costitutivo’ del credito stesso” (cfr. Cassazione Civile n. 4489/2014; Cassazione Civile n. 20006/2020).  In tal caso vigeva il principio che “ nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo concernente il pagamento di contributi per spese, il condominio soddisfa l’onere probatorio su di esso gravante con la produzione del verbale dell’assemblea condominiale con cui siano state approvate le spese, nonché dei relativi documenti” (Cassazione Civile n. 7569/1994). Altresì, sostenevano che “La delibera condominiale di approvazione costituisce, così, titolo sufficiente del credito del condominio e legittima non solo la concessione del decreto ingiuntivo, ma anche la condanna del condomino a pagare le somme: l’ambito dell’opposizione è ristretto alla verifica della (perdurante) esistenza e validità della deliberazione assembleare di approvazione della spesa e di ripartizione del relativo onere (Cassazione S.U. n. 26629/2009; Cassazione Civile n. 5254/2011; Cassazione Civile  n. 4672/2017). In sostanza, dall’approvazione del rendiconto annuale dell’amministratore, che è munito della forza vincolante propria degli atti collegiali, ai sensi dell’art. 1137 c.c., comma 1 (Cass. n. 4306/2018), discende l’insorgenza, e quindi anche la prova, dell’obbligazione in base alla quale ciascuno dei condomini è tenuto a contribuire alle spese ordinarie per la conservazione e la manutenzione delle parti comuni dell’edificio” (Cassazione Civile n. 11981/1992). Nel caso de quo, il giudice di secondo grado aveva rilevato che la delibera di approvazione del consuntivo 2017 non era stata impugnata, benché il condomino fosse presente all’assemblea, deducendone correttamente che nessuna contestazione poteva esser sollevata nel giudizio di opposizione, essendosi la delibera ormai consolidata.

Per tali motivi, la Corte di Cassazione dichiarava inammissibile il ricorso e condannava il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

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È ammesso l’uso esclusivo della facciata condominiale per la posa di pannelli pubblicitari?

È ammesso l’uso esclusivo della facciata condominiale per la posa di pannelli pubblicitari?

L’uso esclusivo della facciata condominiale dell’edificio ad uno soltanto dei condomini, sia pure al fine specifico di installarvi pannelli pubblicitari, comporta di per sé la sottrazione agli altri partecipanti al Condominio del diritto di godimento della cosa comune loro spettante ed il correlativo svuotamento della relativa proprietà nel suo nucleo essenziale. Questo è ciò che ha deciso la Corte d’Appello di Milano, sez. III, sentenza 09 luglio 2021 n. 2190.

Il caso. Il Condominio aveva chiesto al giudice adito la rimozione delle strutture per i pannelli pubblicitari apposti dalla convenuta condomina sui frontespizi dell’edificio condominiale. Il giudice respinge la domanda considerando che “al momento di costituzione del condominio, coincidente con la prima vendita di una singola unità immobiliare da parte dell’originario proprietario in virtù di clausole contenute nel relativo atto, anche mediante eventuale richiamo di un previo regolamento di condominio, è lasciata all’autonomia delle parti la possibilità di sottrarre alla presunzione di comunione almeno alcune delle parti altrimenti comuni”.

Avverso tale sentenza il Condominio interponeva appello eccependo l’errata conclusione del giudice di prime cure e, in particolare, l’inconferenza ai fini della decisione della sentenza n. 24301/2017 della Cassazione. La Corte d’Appello distrettuale osservava che il giudice di primo grado si era basato su un orientamento in base al quale l’uso esclusivo su parti comuni dell’edificio riconosciuto, al momento della costituzione di un Condominio, in favore delle unità immobiliari in proprietà esclusiva, al fine di garantirne il migliore godimento, incideva non sull’appartenenza delle dette parti comuni alla collettività, ma sul riparto delle correlate facoltà di godimento fra i condomini, che avveniva secondo modalità non paritarie determinate dal titolo, in deroga a quello altrimenti presunto ex artt. 1102 e 1117 c.c.. Questo diritto non era riconducibile al diritto reale d’uso previsto dall’art. 1021 c.c. e, pertanto, oltre a non mutuarne le modalità di estinzione, era tendenzialmente perpetuo e trasferibile ai successivi aventi causa dell’unità immobiliare cui accedeva (Cassazione Civile, sez. II, 16 ottobre 2017, n. 24301). Tale provvedimento aveva ad oggetto il diverso caso in cui l’unico proprietario dell’intero edificio aveva concesso l’uso esclusivo di una porzione del cortile al primo acquirente di una delle unità immobiliari dello stabile, fino ad allora interamente di sua proprietà). Sotto questo specifico profilo emergeva l’assenza di una “frizione” con uno dei principi cardini in materia di diritti reali ovvero il numerus clausus quale espressione della tassatività legislativa delle diverse figure di ius in re. Non si discorreva della “creazione” negoziale di una peculiare forma di diritto reale autonomo ma soltanto, della conformazione del diritto di partecipazione all’uso della cosa comune secondo un criterio non paritario. Criterio pattuito in via negoziale e non oggetto di mera esecuzione fattuale dal condomino. Il citato uso non veniva scorporato dalla proprietà solitaria ed esclusiva del cespite facente parte del Condominio essendo a questa indissolubilmente legato e non alla “persona fisica” che ne era titolare. La convenuta non avrebbe potuto certo disporre dello stesso senza disporre dell’unità solitaria che ne fondava il diritto di esercizio maggiore in luogo degli altri condomini. Ne conseguiva che il titolo negoziale che siffatta attribuzione avesse contemplato implicava di verificare, nel rispetto dei criteri di ermeneutica applicabili, se, al momento di costituzione del Condominio, le parti non avessero voluto trasferire la proprietà ovvero, sussistendone i presupposti normativi previsti e, se del caso, attraverso l’applicazione dell’art. 1419 c.c., costituire un diritto reale d’uso ex art. 1021 c.c. ovvero, ancora se sussistessero i presupposti, ex art. 1424 c.c., per la conversione del contratto volto alla creazione del diritto reale di uso esclusivo in contratto avente ad oggetto la concessione di un uso esclusivo e perpetuo (ovviamente inter partes) di natura obbligatoria (Cassazione Civile, S.U. 17 dicembre 2020, n. 28972). Pertanto, secondo il nuovo orientamento “i condomini non possono costituire un diritto reale di uso esclusivo, perpetuo e trasmissibile, a carico di una parte comune dell’edificio condominiale e a favore di un condomino, ostandovi i principi del numerus clausus e della tipicità dei diritti reali”. Detto ciò, i Giudici di seconde cure osservavano che in sede di costituzione del Condominio gli originari e unici proprietari dell’edificio non avevano inteso riservare a sé la proprietà delle facciate ma soltanto il diritto di uso esclusivo. Anche ove si potesse ricondurre alla figura del diritto reale d’uso di cui all’art. 1021 c.c., come in astratto ipotizzabile secondo la stessa Cassazione Civile, S.U. 17 dicembre 2020, n. 28972 (ma escluso in concreto dal giudice di prime cure), il diritto d’uso esclusivo delle facciate attribuito a sé dagli originari comproprietari dell’intero stabile al momento della costituzione del Condominio (coincidente con il primo atto di vendita), dovrebbe comunque escludersi la cedibilità a terzi del diritto medesimo, atteso l’espresso divieto sancito in proposito dall’art. 1024 c.c.  (e ciò contrariamente a quanto affermato, prima dell’intervento delle Sezioni Unite da Cass. Civ., sez, II, n. 24301/2017).  Da ciò sarebbe conseguito, comunque, la insussistenza in capo alla condomina di un diritto d’uso esclusivo delle facciate dello stabile opponibile alla collettività dei condomini.  Pertanto, richiamando i principi delle Sezioni Unite, i condomini non potevano costituire un diritto reale di uso esclusivo perpetuo e trasmissibili, a carico di una parte comune dell’edificio condominiale e a favore di un condomino.

Per tali motivi la Corte d’Appello accoglieva l’interposto appello e  condannavano la condomina  alla rimozione dei pannelli pubblicitari.

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È sufficiente il verbale generico se l’automobilista contesta sul posto la violazione?

È sufficiente il verbale generico se l’automobilista contesta sul posto la violazione?

Qualora la violazione non possa essere immediatamente contestata, il verbale, con gli estremi precisi e dettagliati della violazione e con la indicazione dei motivi che hanno reso impossibile la contestazione immediata, deve, entro novanta giorni dall’accertamento, essere notificato all’effettivo trasgressore o, quando questi non sia stato identificato e si tratti di violazione commessa dal conducente di un veicolo a motore, munito di targa, ad uno dei soggetti indicati nell’art. 196, quale risulta dai pubblici registri alla data dell’accertamento. Questo è quanto stabilito dalla Cassazione Civile, sez. II, ordinanza del 30 settembre 2021, n. 26560.

Il caso. Un’automobilista veniva sanzionata dalla Polizia stradale sia per avere circolato contromano sia per eccesso di velocità. La donna impugnava il verbale elevato dalla Polizia stradale. Il Giudice di prime cure accoglieva parzialmente l’opposizione e annullava il verbale de quo solo relativamente alla violazione dell’art. 141 C.d.S. (mancato rispetto del limite di velocità).

Avverso tale sentenza la donna interponeva appello e otteneva in secondo grado l’annullamento anche in merito alla  contestata violazione dell’art. 143 C.d.S., comma 12, (per aver circolato contromano). Secondo il Giudice di seconde cure “il verbale doveva reputarsi nullo a causa della genericità della descrizione della condotta, posto che la fede privilegiata di cui beneficia il verbale in questione non comporta il venir meno dell’onere della prova, in capo all’organo accertante, dei fatti costitutivi del comportamento illecito”;  in particolare il Giudice addebitava al verbale, il quale affermava la circolazione contromano, di “non avere descritto il fatto in maniera sufficientemente specifica”, quanto a provenienza dell’autovettura, quanto al punto della rotatoria nella quale sarebbe stata commessa la violazione, in cosa fosse consistita la limitata visibilità; si trattava, in definitiva, di “un grave difetto di motivazione”, che aveva procurato “vulnus” difensivo e non consentiva al giudice una compiuta valutazione dei fatti.

Avverso tale sentenza il Ministero dell’Interno e la Prefettura proponevano ricorso per cassazione contestando duramente le valutazioni compiute dal Giudice di secondo grado. Secondo i ricorrenti “il verbale redatto per circolazione del Codice della Strada fa fede fino a querela di falso, anche in ordine alla contestata assenza di una particolareggiata descrizione” e che, “il verbale era comunque pienamente descrittivo, stante che in esso era riportata la rotatoria interessata…alla luce di quanto disposto dal combinato disposto dell’art. 200 C.d.S., comma 2, e art. 383 reg. att., comma 1, nel mentre solo laddove la contestazione non avvenga nell’immediatezza l’art. 201 C.d.S., comma 1, impone che il verbale notificato al trasgressore debba riportare “gli estremi precisi e dettagliati della violazione”, per contro nel caso in esame la contestazione si era avuta nell’immediatezza”, così facendo venire meno “l’ipotizzato difetto di contraddittorio”. Inoltre, i ricorrenti affermavano che “gli elementi che il Tribunale ipotizza avrebbero dovuto essere annotati, oltre che congetturali e astratti, imporrebbero una descrizione di circostanze esorbitanti, in contrasto con l’art. 143 C.d.S., comma 12”. Queste osservazioni avevano, per il Supremo Collegio, un solido fondamento. Precisava, infatti, che <<nel giudizio di opposizione ad ordinanza-ingiunzione relativa a violazioni del C.d.S. la fede privilegiata di cui all’art. 2700 c.c., assiste tutte le circostanze inerenti alla violazione, giacché il pubblico ufficiale è tenuto non solo a dare conto della sua presenza ai fatti attestati, ma anche delle ragioni per le quali tale presenza ne ha consentito l’attestazione; ne consegue che le contestazioni delle parti, ivi comprese quelle relative alla mancata particolareggiata esposizione delle circostanze dell’accertamento, devono essere svolte con il procedimento della querela di falso, in mancanza del quale il verbale assume valore di prova della violazione anche nel giudizio di opposizione (Sez. 2, n. 339, 12/1/2012; ma già S.U. n. 17355/2009); l’art. 200 C.d.S., comma 2. prescrive: “Dell’avvenuta contestazione deve essere redatto verbale contenente anche le dichiarazioni che gli interessati chiedono vi siano inserite. Il verbale, che può essere redatto anche con l’ausilio di sistemi informatici, contiene la sommaria descrizione del fatto accertato, gli elementi essenziali per l’identificazione del trasgressore e la targa del veicolo con cui è stata commessa la violazione. Nel regolamento sono determinati i contenuti del verbale” e dell’art. 383, comma 1 del regolamento dispone: “Il verbale deve contenere l’indicazione del giorno, dell’ora e della località nei quali la violazione è avvenuta, delle generalità e della residenza del trasgressore e, ove del caso, l’indicazione del proprietario del veicolo, o del soggetto solidale, degli estremi della patente di guida, del tipo del veicolo e della targa di riconoscimento, la sommaria esposizione del fatto, nonché la citazione della norma violata e le eventuali dichiarazioni delle quali il trasgressore chiede l’inserzione”; l’art. 201 C.d.S., per contro, dispone che: “qualora la violazione non possa essere immediatamente contestata, il verbale, con gli estremi precisi e dettagliati della violazione e con la indicazione dei motivi che hanno reso impossibile la contestazione immediata, deve, entro novanta giorni dall’accertamento, essere notificato all’effettivo trasgressore o, quando questi non sia stato identificato e si tratti di violazione commessa dal conducente di un veicolo a motore, munito di targa, ad uno dei soggetti indicati nell’art. 196, quale risulta dai pubblici registri alla data dell’accertamento>>. Nel caso in esame non è controverso che “la contestazione si ebbe nell’immediatezza, con raccolta delle dichiarazioni della conducente”. Di conseguenza, secondo gli Ermellini, “resiste il verbale di contestazione fino a querela di falso, anche in relazione alla mancanza o inesatta indicazione di particolari del fatto che si reputino decisivi”. Altresì, “è da escludere il paventato vulnus difensivo”. Ciò per la basilare ragione che “non si è in presenza di contestazioni a sorpresa, ma di fatti ben noti alla conducente, proprio perché contestati nell’immediatezza e ben compresi dalla medesima, tanto da rilasciare dichiarazione a verbale”. Evidente, infine, “il ben diverso onere descrittivo nel caso in cui non si versi in presenza di contestazione immediata, diversità che non avrebbe ragion d’esistere ove anche fosse richiesta al verbalizzante la indicazione degli estremi precisi e dettagliati della violazione”. Infine, la Corte di  Cassazione censurava anche l’osservazione del giudice di secondo grado, osservazione secondo cui “una maggiore analiticità nella descrizione del fatto sarebbe stata necessaria onde consentirgli di valutare compiutamente l’eventuale consumazione del contestato illecito, avendo costui ipotizzato che la sommaria descrizione dell’accaduto impedisse il suo sindacato”. Su tale fronte, invece, valeva una diversa regola iuris, ovvero “fino a querela di falso, il fatto deve reputarsi quello contestato e in relazione a esso il giudice è chiamato ad accertare la conformità a diritto della contestazione”.

Per tali motivi la Corte di Cassazione, cassava la sentenza impugnata e rinviava al Tribunale competente.

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È legittima l’incorporazione di parti comuni nell’unità immobiliare di proprietà esclusiva?

È legittima l’incorporazione di parti comuni nell’unità immobiliare di proprietà esclusiva?

In tema di possesso dei condomini sulle parti comuni, l’uso della cosa comune e i lavori per il miglior godimento della stessa ex art. 1102 c.c. non possono mai concretizzarsi nell’appropriazione sostanziale del bene mediante uno spoglio degli altri condomini, sicché l’effettuazione di lavori che incorporino nella proprietà individuale parti condominiali quali le scale e il pianerottolo si concretizzano in una turbativa del possesso che legittima il Condominio o uno dei singoli condomini alla relativa azione di manutenzione, a nulla rilevando che tali parti comuni siano poste a servizio esclusivo di una porzione dello stabile di proprietà esclusiva. Questo è quanto stabilito dal Tribunale di Genova, sez. III, ordinanza 23 giugno 2021.

Il caso. Due condomine proponevano azione in via principale ex art. 1168 c.c., ed in subordine ex art. 1170 c.c., nonché ex art. 703 c.p.c., nei confronti della proprietaria di due appartamenti, per la reintegrazione nel possesso (o in subordine la manutenzione del possesso) a seguito di spoglio, violento e clandestino commesso dalla condomina resistente accusata di aver inglobato parti comuni condominiali (pianerottoli e scale) all’interno dei propri appartamenti, in tal modo unendoli e collegandoli. Il giudice di primo grado emetteva ordinanza di rigetto del ricorso, ritenendo che le ricorrenti non godessero di un legittimo possesso dei beni, pur dando per assodato che oggetto dello spoglio fossero delle parti comuni condominiali e che le ricorrenti ne fossero comproprietarie. In particolare, il giudice di prime cure evidenziava che, in relazione alla categoria dei beni condominiali arrecanti un’utilità soggettiva ai condomini, era necessario che il ricorrente provasse uno specifico utilizzo del bene da parte del condomino-comproprietario, pena il rigetto della domanda possessoria.

Avverso tale ordinanza le ricorrenti proponevano reclamo al Collegio, lamentando la violazione e falsa applicazione degli artt. 1168 e 1170 c.c., con riferimento agli artt. 1102 e 1117 c.c.. Il Collegio, infatti, affermava che la porzione di pianerottolo e la scala oggetto del procedimento possessorio costituivano parti comuni dell’edificio in base a quanto disposto dall’art. 1117, n.1, c.c..  Era pacifico dal confronto tra la situazione preesistente e quella attuale – fotografie prodotte da entrambe le parti – che la parte resistente/reclamata con la condotta ed i lavori denunciati dalle ricorrenti/reclamanti aveva “incorporato/inglobato” nell’unità immobiliare di sua esclusiva proprietà una porzione del pianerottolo che si trovava subito dopo il portone di ingresso dell’edificio su via e le scale che consentivano in precedenza l’accesso al piano seminterrato o terzo sottostrada e, di fatto, aveva in questo modo “unito” l’appartamento al livello della strada con il sottostante appartamento, sempre di sua esclusiva proprietà, “utilizzando” le scale condominiali.  Secondo la giurisprudenza della Suprema Corte – almeno a livello di massime ufficiali (tra le tante: Cassazione n. 8119/2004; Cassazione n. 16496/2005; Cassazione n.24471/2017) “in tema di possesso dei condomini sulle parti comuni distingue astrattamente il c.d. compossesso oggettivo relativo a cose, impianti, servizi che siano “oggettivamente” utili alle singole unità immobiliari, a cui sono collegati materialmente o per destinazione – ad esempio il suolo, le fondazioni, il tetto, la facciata – dal compossesso c.d. soggettivo relativo a cose, impianti e servizi utili “soggettivamente” tanto che la loro unione materiale o la destinazione funzionale ai piani o porzioni di piano dipende dall’attività dei rispettivi proprietari – ad esempio scale, portoni, portici – ma nelle singole fattispecie esaminate dalla giurisprudenza si possono rinvenire precedenti favorevoli alla tesi delle reclamanti.” Sul punto, il Supremo Collegio aveva già avuto modo di affermare che, in tema di possesso dei condomini sulle parti comuni, “l’uso della cosa comune e i lavori per il miglior godimento della stessa ex art. 1102 c.c. non possono mai concretizzarsi nell’appropriazione sostanziale del bene mediante uno spoglio degli altri condomini, sicché l’effettuazione di lavori che incorporino nella proprietà individuale parti condominiali quali le scale e il pianerottolo si concretizzano in una  turbativa del possesso che legittima il condominio o uno dei singoli condomini alla relativa azione di manutenzione, a nulla rilevando che tali parti comuni siano poste a servizio esclusivo di una porzione dello stabile di proprietà esclusiva” (Cassazione Civile, ordinanza 11 settembre 2020, n. 18929).  Nel caso de quo, pertanto, nonostante l’uso sporadico delle scale e del pianerottolo da parte delle ricorrenti, l’appropriazione avvenuta mediante “fisica incorporazione/inglobamento” dei beni condominiali nella proprietà esclusiva della condomina, con alterazione e sottrazione definitiva alla possibilità di godimento collettivo, non può considerarsi ammissibile e configura uno spoglio del compossesso: nello specifico, il Collegio evidenziava che l’incorporazione della porzione di pianerottolo e delle scale nella sua proprietà esclusiva, con conseguente “fisica impossibilità” di raggiungere il livello dell’edificio posto al piano seminterrato, ledeva anche il c.d. “compossesso oggettivo” di beni ex art. 1117, n. 1, c.c.,  che erano “oggettivamente utili” alle singole unità immobiliari, per destinazione materiale e funzionale.

Per tali motivi, il Collegio accoglieva il reclamo e revocava l’ordinanza impugnata.

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È legittimo il licenziamento della promoter che bluffa sulle visite ai clienti?

È legittimo il licenziamento della promoter che bluffa sulle visite ai clienti?

È legittimo il licenziamento per giusta causa qualora la condotta della ricorrente letta come preordinata a rappresentare un adempimento in realtà inesistente e volta, pertanto, dolosamente ad eludere il controllo datoriale, connoti quella gravità tale da pregiudicare l’affidabilità del datore sull’esatto adempimento delle prestazioni future. Questo è quanto stabilito dalla Cassazione Civile, sez. lav., ordinanza n. 22370/2021, depositata il 5 agosto.

Il caso. Una dipendente di una struttura di vendita veniva licenziata dall’azienda per cui lavorava per i ‘report’ relativi ai “presunti” contatti con i clienti, contatti che si rivelavano solo virtuali in molti casi, infatti, numerosi clienti non avevano ricevuto la visita della lavoratrice. La lavoratrice impugnava il licenziamento per giusta causa. La Corte d’Appello distrettuale confermava la decisione del Tribunale e rigettava la domanda proposta dalla lavoratrice nei confronti della Società datrice di lavoro avente ad oggetto la declaratoria di illegittimità del licenziamento disciplinare intimatole per giusta causa motivata dall’infedele compilazione dei report per sette giornate e dallo svolgimento nelle medesime giornate di attività private estranee alle mansioni. I giudici di seconde cure ritenevano “provato, almeno in parte, l’addebito relativo alla mancata effettuazione delle visite indicate nei ‘report’ predisposti (ventiquattro clienti su quaranta)” e sussistente, “la giusta causa, connotandosi gravemente l’infedele rappresentazione di attività esterne alla sede aziendale, in realtà non svoltesi, per l’intento di precostituirsi l’apparenza di un adempimento di fatto inesistente, al fine di eludere il controllo datoriale sulla regolarità dell’adempimento medesimo, così da integrare la violazione degli obblighi di fedeltà e diligenza idonea a ledere il vincolo fiduciario”.

Avverso tale sentenza la lavoratrice proponeva ricorso per cassazione. In sostanza la lavoratrice sosteneva “l’inconfigurabilità di un inadempimento” da parte sua “degli obblighi contrattuali in rapporto al mancato accertamento di attività estranea alle mansioni affidate, al difetto di una programmazione di dell’attività di visita alla clientela che consentisse di individuare eventuali carenze nell’esecuzione di quell’attività, carenze peraltro smentite dai risultati commerciali conseguiti nell’espletata opera di “promotrice”, l’assenza di un intento doloso nell’irregolare predisposizione dei report e, pertanto, la non riconducibilità di tale condotta alle fattispecie di cui al ‘codice disciplinare’ date dalla dolosa scritturazione delle presenze o dall’abuso di fiducia”. Secondo gli Ermellini le doglianze della lavoratrice andavano rigettate sulla base dell’ammissione, da parte della stessa, della mancata effettuazione delle visite a ventiquattro clienti nominativamente individuati dei quaranta indicati nei ‘report’ ” relativi a ben sette giornate. Di conseguenza, avevano ritenuto di poter attribuire rilevanza ai fini del giudizio all’ “inadempimento così accertato, dato dalla sola mancata effettuazione delle visite viceversa indicate come eseguite nei report, considerando, dunque, questi idonei ad integrare una falsa attestazione dell’attività eseguita”. Da ciò i giudici facevano discendere del tutto plausibilmente la lettura della condotta della ricorrente come preordinata a rappresentare un adempimento in realtà inesistente, volta, pertanto, dolosamente ad eludere il controllo datoriale e così connotata da quella gravità tale da pregiudicare l’affidabilità del datore sull’esatto adempimento delle prestazioni future ed idonea a sostenere l’invocata giusta causa.

Per tali motivi la Corte di Cassazione rigettava il ricorso e condannava parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità.

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