Secondo la Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza n. 8328/2016, depositata il 1° marzo, chiunque insulti sulla bacheca di Facebook potrebbe incorrere nel reato di diffamazione aggravata. Gli Ermellini, con tale sentenza, confermano la linea dura nei confronti di chi usa i social network come valvola di sfogo per scaricare rabbia, frustrazioni o sete di vendetta nei confronti di personaggi pubblici, semplici colleghi o capi. Ad integrare tale reato non bastano solo insulti espliciti come le convenzionali “parolacce” ma anche parole come “parassita” o “cialtrone” perché, secondo la Cassazione, sono vere e proprie offese al decoro personale e vanno oltre al limite del diritto di critica. Il caso: l’ex commissario straordinario della CRI e ora suo Presidente, nel 2010, era stato attaccato da un componente in congedo della stessa associazione, che, dissentendo da alcune scelte e iniziative adottate, aveva diffuso su di lui diversi post offensivi, dal contenuto inequivocabile, come “parassita”, “cialtrone”, “mercenario”, etc., diffondendoli ad ampio raggio tramite la bacheca e allegando anche una foto che identificava la persona offesa. La Suprema Corte di Cassazione ha, con la citata sentenza, confermato il reato di diffamazione aggravata poiché tale reato “può essere commesso a mezzo di internet, sussistendo, in tal caso, l’ipotesi aggravata di cui al terzo comma della norma incriminatrice, dovendosi presumere la ricorrenza del requisito della comunicazione con più persone, essendo per sua natura destinato ad essere normalmente visitato in tempi assai ravvicinati da un numero indeterminato di soggetti”. In particolare, “anche la diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l’uso di una bacheca ‘facebook’ integra un’ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell’art. 595, comma terzo, c.p., poiché ha potenzialmente la capacità di raggiungere un numero indeterminato di persone, sia perché, per comune esperienza, bacheche di tal natura racchiudono un numero apprezzabile di persone (senza le quali la bacheca Facebook non avrebbe senso), sia perché l’utilizzo di Facebook integra una delle modalità attraverso le quali gruppi di soggetti socializzano le rispettive esperienze di vita, valorizzando in primo luogo il rapporto interpersonale, che, proprio per il mezzo utilizzato, assume il profilo del rapporto interpersonale allargato ad un gruppo indeterminato di aderenti al fine di una costante socializzazione”. Pertanto, la condotta di postare un commento su facebook realizza “la pubblicizzazione e la diffusione di esso, per la idoneità del mezzo utilizzato a determinare la circolazione del commento tra un gruppo di persone, comunque, apprezzabile per composizione numerica, di guisa che, se offensivo tale commento, la relativa condotta rientra nella tipizzazione codicistica descritta dall’art. 595 c.p.p.”. Legittima, dunque, la condanna del componente in congedo a pagare una multa di € 1.500,00 euro, oltre le spese processuali. Per cui, Legittima dunque la condanna dell’uomo alla pena di 1.500 euro di multa oltre al pagamento delle spese processuali.

Avv. Anna Maria Cupolillo,  Staff Giuridico Avvocato Express

 

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