Le prestazioni sessuali eseguite in videoconferenza sono atti di prostituzione?

Le prestazioni sessuali eseguite in videoconferenza, in modo da consentire al fruitore delle stesse di interagire in via diretta ed immediata con chi esegue la prestazione, con la possibilità di richiedere il compimento di atti sessuali determinati, assume valore di atto di prostituzione e configura il reato di sfruttamento della prostituzione a carico di coloro che abbiano reclutato gli esecutori delle prestazioni o ne abbiano consentito lo svolgimento, creando i necessari collegamenti via internet e ne abbiano tratto guadagno, in quanto il collegamento in videoconferenza consente all’utente di interagire con chi si prostituisce, in modo tale da potere richiedere a questi il compimento di atti sessuali determinati, che vengono immediatamente percepiti da chi ordina la prestazione sessuale a pagamento. Ciò è quanto stabilito dalla Corte di Cassazione nella sentenza n. 17394/2015, depositata il 27 aprile.

Il caso. Il Tribunale adito dichiarava l’imputato responsabile di tentativo di induzione alla prostituzione di diverse donne, di induzione e favoreggiamento della prostituzione di diverse donne, del reato di cui all’art. 609-octies c.p. (violenza sessuale di gruppo) in danno di una di queste, del delitto di cui agli artt. 81 e 609-bis c.p. (violenza sessuale) commesso in danno di altre donne e del delitto di cui agli artt. 56, 629 c.p. (tentativo di estorsione) commesso in danno di altre ancora.

La Corte d’Appello territoriale confermava la decisione di primo grado.

Contro tale decisione, l’imputato proponeva ricorso per cassazione.

Con un primo motivo, il ricorrente lamentava vizio di motivazione in relazione alla ritenuta sussistenza del reato ex art. 609-octies c.p. nei confronti di una donna con riguardo al diniego di rinnovazione della istruttoria dibattimentale, al fine di procedere a nuovo esame della persona offesa e di disporre perizia psichiatrica sulla stessa. Tale motivo veniva ritenuto infondato da parte del Collegio poiché il giudizio di attendibilità e di credibilità della persona offesa formulato dal Giudice di merito era sorretto da una argomentazione del tutto condivisibile. Secondo gli Ermellini, era esente da vizi, altresì, l’argomentazione del Giudice di merito con riguardo al rigetto della invocata riapertura della istruttoria dibattimentale, al fine di disporre perizia psichiatrica sulla persona offesa. Il Collegio ricordava che “la rinnovazione della istruttoria in appello, posta la presunzione di completezza della già svolta indagine probatoria dibattimentale, soltasi in primo grado, è istituto di carattere eccezionale al quale può farsi ricorso esclusivamente quando il giudice ritenga, nella sua discrezionalità, di non poter decidere allo stato degli atti. Nel caso di specie, il rigetto della istanza da parte della Corte territoriale risulta sorretto da ampia ed esaustiva giustificazione”.

In relazione al motivo con il quale il ricorrente contestava la sussistenza del reato di induzione e favoreggiamento della prostituzione, la Suprema Corte osservava che “nella nozione di prostituzione deve farsi rientrare qualsivoglia attività sessuale, posta in essere dietro corrispettivo di denaro, anche se priva di contatto fisico tra prostituta e cliente, i quali possono trovarsi addirittura in luogo diverso. Unica condizione è la possibilità per il secondo di interagire con la prima”. Infatti, ricordava il Collegio che, secondo la giurisprudenza di legittimità, “le prestazioni sessuali eseguite in videoconferenza, in modo da consentire al fruitore delle stesse di interagire in via diretta ed immediata con chi esegue la prestazione, con la possibilità di richiedere il compimento di atti sessuali determinati, assume valore di atto di prostituzione e configura il reato di sfruttamento della prostituzione a carico di coloro che abbiano reclutato gli esecutori delle prestazioni o ne abbiano consentito lo svolgimento, creando i necessari collegamenti via internet e ne abbiano tratto guadagno, in quanto il collegamento in videoconferenza consente all’utente di interagire con chi si prostituisce, in modo tale da potere richiedere a questi il compimento di atti sessuali determinati, che vengono immediatamente percepiti da chi ordina la prestazione sessuale a pagamento”. Sul punto, a parere del Collegio, la Corte d’Appello aveva svolto un’argomentazione esente da vizi, mettendo in risalto come gli elementi costituenti il quadro probatorio avessero consentito di dimostrare, oltre ogni ragionevole dubbio, l’attività di reclutamento, induzione e sfruttamento della prostituzione posta in essere dall’imputato.

Per le ragioni appena esposte, la Suprema Corte dichiarava inammissibile il ricorso e condannava il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Avv. Anna Maria Cupolillo Staff Giuridico Avvocato Express

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