Infermità fisica della dipendente: a chi spetta dimostrare l’assenza di mansioni compatibili?

La sopravvenuta infermità permanente e la conseguente impossibilità della prestazione lavorativa possono giustificare oggettivamente il recesso del datore di lavoro subordinato, ai sensi della L. n. 604/1966, a condizione che risulti ineseguibile l’attività svolta in concreto dal prestatore e che non sia possibile assegnare il lavoratore a mansioni equivalenti, ai sensi dell’art. 2103 c.c., ed eventualmente inferiori, in difetto di altre soluzioni. Ciò è quanto disposto dalla Corte di Cassazione, sezione Lavoro, sentenza n. 18594/2016, depositata il 22 settembre.

Il caso. La Corte d’appello competente accoglieva il ricorso proposto dalla ricorrente nei confronti di una Cooperativa Sociale e dichiarava l’illegittimità del licenziamento intimato dalla stessa società condannandola a reintegrare la ricorrente nel posto di lavoro occupato in precedenza, con attribuzioni di mansioni compatibili con il suo stato di salute, nonché a corrisponderle le retribuzioni maturate dalla data del recesso fino a quella dell’effettiva reintegra. La Corte territoriale aveva premesso che il licenziamento era stato intimato per giustificato motivo oggettivo a causa della sopravvenuta inidoneità fisica della dipendente che svolgeva le mansioni di assistente nel servizio di prescuola e doposcuola. Tuttavia, la ricorrente aveva, nell’atto introduttivo, specificatamente dedotto di poter essere adibita ad alcuni centri anziani. La società, pur avendo contestato le allegazioni dell’atto introduttivo, non aveva però avanzato alcuna richiesta istruttoria, essendosi limitata ad affermare che i posti richiesti erano occupati da altro personale. Pertanto,  la Corte d’Appello adita aveva escluso che la società avesse assolto all’onere della prova sulla stessa gravante.

Avverso tale sentenza, la società proponeva ricorso per cassazione.

La ricorrente sosteneva che la domanda di reintegrazione non poteva essere accolta in quanto “pretestuosa ed impossibile” dal momento che tanto la dipendente tanto la Corte d’Appello territoriale non avevano saputo indicare quali fossero i posti disponibili, compatibili con lo stato di salute della dipendente.

La Suprema Corte, invece, riteneva il motivo infondato. Infatti, le Sezioni Unite della Suprema Corte, con la sentenza n. 7755/1998, avevano già affermato che “la sopravvenuta infermità permanente e la conseguente impossibilità della prestazione lavorativa possono giustificare oggettivamente il recesso del datore di lavoro subordinato, ai sensi della L. n. 604/1966, a condizione che risulti ineseguibile l’attività svolta in concreto dal prestatore e che non sia possibile assegnare il lavoratore a mansioni equivalenti, ai sensi dell’art. 2103 c.c., ed eventualmente inferiori, in difetto di altre soluzioni”. Al riguardo, era stato, inoltre, sottolineato che nell’ipotesi di licenziamento per sopravvenuta inidoneità fisica del lavoratore, il giustificato motivo oggettivo consiste non solo nella fisica inidoneità del lavoratore all’attività attuale, ma anche nell’inesistenza in azienda di altre attività compatibili con lo stato di salute del lavoratore ed a quest’ultimo attribuibili senza alterare l’organizzazione produttiva, “onde spetta al datore di lavoro convenuto in giudizio dal lavoratore, in sede di impugnativa del licenziamento, fornire la prova delle attività svolte in azienda e dell’impossibilità di adibire il lavoratore ad altre mansioni”.

Alla luce di quanto sopra, gli Ermellini ritenendo che la Corte d’Appello territoriale si era correttamente attenuta a tali principi, ragion per cui spettava alla società dimostrare l’indisponibilità delle posizioni lavorative indicate dalla ricorrente, rigettava il ricorso.

Avvocato Anna Maria Cupolillo Staff Giuridico Avvocato Express

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