Stalking: il cambiamento delle abitudini di vita non è un’operazione matematica

In tema di stalking, l’apprezzamento del “cambiamento delle abitudini di vita” della persona offesa richiede la valutazione del significato e della portata delle conseguenze emotive, oltre che delle costrizioni subite, nella propria quotidianità non da un punto di vista meramente quantitativo. Questo è ciò che ha stabilito la Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza n. 22194/2017, depositata l’8 maggio.

La vicenda. La Corte d’appello territoriale confermava la pronunzia di primo grado emessa dal Tribunale competente, con la quale l’imputato era stato condannato per i reati di atti persecutori e di furto aggravato di un furgone, commesso – secondo l’ipotesi accusatoria – al fine di realizzare il reato di cui all’art. 612 bis cod. pen. causando un perdurante e grave stato di ansia e timore per l’incolumità della persona offesa e per quella dei suoi prossimi congiunti con lei conviventi, inviandole numerosi SMS ingiuriosi, aggredendola sia fisicamente che verbalmente, presentandosi presso la sua abitazione nottetempo e suonando insistentemente al citofono.

Avverso tale sentenza, l’imputato ricorreva in Cassazione, con cinque motivi, lamentandosi, sostanzialmente, per la ritenuta sussistenza degli elementi costitutivi del reato.

Gli Ermellini avevano premesso, in via generale, che “con l’introduzione della fattispecie di cui all’art. 612 bis cod. pen. il legislatore ha voluto, prendendo spunto dalla disciplina di altri ordinamenti, colmare un vuoto di tutela ritenuto inaccettabile rispetto a condotte che, ancorché non violente, recano un apprezzabile turbamento nella vittima. Il legislatore ha preso atto però che la violenza (declinata nelle diverse forme delle percosse, della violenza privata, delle lesioni personali, della violenza sessuale) spesso è l’esito di una pregressa condotta persecutoria; pertanto, mediante l’incriminazione degli atti persecutori si è inteso in qualche modo anticipare la tutela della libertà personale e dell’incolumità fisio-psichica attraverso l’incriminazione di condotte che, precedentemente, parevano sostanzialmente inoffensive e, dunque, non sussumibili in alcuna fattispecie penalmente rilevante o in fattispecie per così dire minori, quali la minaccia o la molestia alle persone”.

Da tale presupposto conseguiva che il delitto di atti persecutori era  integrato anche da due sole condotte tra quelle descritte dall’art. 612-bis c.p., come tali idonee, dunque, ad integrare il requisito delle reiterazione.

Inoltre, l’arco temporale in cui si sviluppavano le condotte era invece irrilevante potendo anche essere reiterate in un breve lasso di tempo, trattandosi di un reato abituale, posto che, come affermava testualmente la Corte, “è dunque l’atteggiamento persecutorio ad assumere specifica autonoma offensività ed è per l’appunto alla condotta persecutoria nel suo complesso che deve guardarsi per valutarne la tipicità”.

La condotta complessivamente considerata doveva, pertanto, portare all’evento del “cambiamento delle abitudini di vita” della persona offesa anche a seguito dell’ennesimo atto persecutorio che avesse procurato un progressivo accumulo di disagio.

Altresì, i giudici di legittimità specificavano che nell’apprezzamento del “cambiamento delle abitudini di vita” dovevano essere considerate le conseguenze emotive ed il significato delle costrizioni subite dalla persona offesa nella propria quotidianità e non le sole variazioni subite da un punto di vista meramente quantitativo. Infine, il Supremo Collegio precisava che avendo il reato natura abituale d’evento, l’elemento soggettivo era integrato dal dolo generico individuato nella volontà di porre in essere condotte di minacce e molestie nella consapevolezza della loro idoneità a produrre le alterazioni previste dalla norma incriminatrice.

Per tali motivi la Corte di Cassazione rigettava il ricorso e condannava il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Avvocato Anna Maria Cupolillo Staff Giuridico Avvocato Express

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