Il datore di lavoro può controllare il lavoratore: fino a che punto?

Il datore di lavoro ha il diritto di effettuare controlli mirati sui lavoratori (direttamente o attraverso la propria struttura), al fine di verificare il corretto utilizzo degli strumenti di lavoro – tra cui i p.c. aziendali – nel rispetto, tuttavia, della loro libertà e dignità nonché della specifica disciplina di cui al D. Lgs. n. 196/2003. Ciò è quanto stabilito dalla Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza n. 22313/2016, depositata il 3 novembre.

Il caso. Il Tribunale competente accoglieva la domanda avanzata da un dipendente di un istituto di credito in merito all’illegittimità del suo licenziamento per giusta causa ma respingeva quella relativa al reintegro dello stesso nel proprio posto di lavoro.

La Corte d’Appello territoriale confermava l’illegittimità del licenziamento per giusta causa da parte dell’istituto di credito al proprio dipendente, colpevole di alcuni comportamenti quali: 1. avere ostacolato l’attività ispettiva del servizio revisione dal momento che durante un’ispezione volta a verificare il rispetto delle disposizioni interne in materia di uso e sicurezza del materiale informatico assegnato ai dipendenti, il lavoratore alla richiesta di chiarimenti riguardo alcuni file con estensione video sul disco fisso, cancellava l’intero contenuto e all’esito di una successiva verifica dell’archivio informatico era stato rinvenuto materiale con contenuto pornografico; 2. aver violato l’obbligo di tenere una condotta informata ai principi di dignità e moralità; 3. aver violato l’obbligo di dedicare il suo tempo lavorativo all’attività aziendale; 4. aver violato il codice di comportamento che prescriveva ai dipendenti dell’istituto de quo di utilizzare le apparecchiature esclusivamente per finalità di ufficio.

I Giudici di seconde cure ritenevano che vi fosse una «insussistenza del fatto contestato» dal momento che il datore di lavoro non aveva dimostrato l’esistenza di documenti di pertinenza aziendale all’interno della parte del disco fisso formattato dal lavoratore. Altresì, secondo la Corte, il comportamento del lavoratore doveva ritenersi senz’altro scusabile dal momento che gli ispettori avevano superato i propri poteri imponendo allo stesso l’immediata visione dei file con richiesta abusiva perché sproporzionata e tale da lederne la privacy.

Conseguentemente, a differenza del Giudice di primo grado, la Corte di Appello riteneva applicabile l’art. 18, comma 4, Statuto dei Lavoratori con conseguente condanna dell’istituto in parola alla reintegrazione in servizio del lavoratore.

Avverso tale sentenza, l’istituto di credito proponeva ricorso per Cassazione.

In particolare, ad avviso dell’istituto di credito la Corte d’Appello aveva errato nel rilevare un eccesso di potere da parte del proprio personale ispettivo, il quale, come provato dall’istruttoria, si era limitato a chiedere informazioni circa i file presenti sul disco fisso e, dopo che il dipendente ne aveva cancellati alcuni, ad invitarlo a non cancellarne ulteriori. Tale motivo venne condiviso dalla Suprema Corte che affermava: “il datore di lavoro ha il diritto di effettuare controlli mirati sui lavoratori (direttamente o attraverso la propria struttura), al fine di verificare il corretto utilizzo degli strumenti di lavoro – tra cui i p.c. aziendali – nel rispetto, tuttavia, della loro libertà e dignità nonché della specifica disciplina di cui al D. Lgs. n. 196/2003”. Ed infatti, pur condividendo la premessa in diritto che aveva mosso la Corte territoriale, i Giudici di legittimità hanno ritenuto che ad una tale premessa dovesse necessariamente seguire il controllo fattuale in merito alle concrete modalità con cui l’ispezione era stata condotta al fine di verificare la conformità o meno delle richieste degli ispettori ad eventuali policy aziendali. Un tale controllo, invece, era stato completamente omesso dai Giudici di Appello, i quali avevano semplicemente “date per pacifiche” modalità di ispezione lesive della privacy del lavoratore. Tutto ciò senza richiamare le fonti del proprio convincimento e nonostante lo specifico motivo di appello formulato dall’istituto di credito e le “dissonanti deduzioni e capitolazioni istruttorie”.

Conseguentemente, la Cassazione, accogliendo il ricorso dell’istituto di credito, cassava con rinvio la sentenza impugnata.

Avvocato Anna Maria Cupolillo Staff Giuridico Avvocato Express

 

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