E’ legittimo il licenziamento della dipendente scorretta ma invalida?

La dipendente che violi reiteratamente gli obblighi di diligenza e correttezza nell’esecuzione della prestazione lavorativa, anche se affetta da una invalidità parziale, può essere legittimamente licenziata. Questo è quanto stabilito dalla Corte di Cassazione, sezione Lavoro, sentenza n. 4315/2017, depositata il 20 febbraio.

Il caso. Una dipendente impugnava l’intimato licenziamento disciplinare da parte della società per cui lavorava (nella fattispecie società avente la gestione di una struttura alberghiera di prima categoria) a causa delle gravi condotte da lei poste in essere, quali il rifiuto di adempiere a disposizioni di servizio e i continui litigi con i colleghi. La lavoratrice nel tenere tale comportamento si faceva forte del suo stato di invalidità parziale e dell’appartenenza ad una associazione sindacale. L’adito tribunale accoglieva la sua domanda.

La società impugnava la sentenza di primo grado. La Corte d’Appello territoriale riformava l’impugnata sentenza dichiarando legittimo il licenziamento e per l’effetto il difetto di interesse della lavoratrice alla pronunzia di impugnazione dell’ordine di servizio.

Avverso tale decisione la lavoratrice proponeva ricorso per cassazione sostenendo come unico motivo la circostanza che i giudici di seconde cure non avevano esaminato la sua condizione di invalidità psico-fisica, costituente causa della propria condotta. La ricorrente faceva presente di avere riportato postumi di trauma cranico encefalico con deterioramento globale della personalità all’esito di un investimento stradale di cui era stata vittima all’età di dodici anni, allegando perizia medica.

La Suprema Corte evidenziando la sua impossibilità ad entrare in questioni che non erano già state sollevate nei gradi di merito si atteneva, pertanto, ad evidenziare che nel lamentare il mancato esame delle sue condizioni di salute quale circostanza escludente la giusta causa di licenziamento, la ricorrente non aveva adempiuto l’onere di specificare gli elementi di prova acquisiti al processo circa le condizioni dedotte. Conseguentemente, la censura sollevata dalla ricorrente risultava infondata dal omento che il fatto non esaminato era privo della “decisività” richiesta dall’art. 360, n. 5, c.p.c.. Altresì, i giudici di legittimità aggiungevano che “lo stato di invalidità della ricorrente non sarebbe potuto incidere sulla valutazione compiuta dal Giudice di merito circa la gravità della violazione degli obblighi di obbedienza, correttezza e conformità della condotta lavorativa alle regole di professionalità e decoro imposte dal servizio svolto”.

Alla luce di quanto sopra, la Suprema Corte dichiarava inammissibile il ricorso della lavoratrice e la condannava al pagamento delle spese processuali.

Avvocato Anna Maria Cupolillo Staff Giuridico Avvocato Express

 

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