Strattona una collega: è legittimo il licenziamento?

Il comportamento violento posto in essere nei confronti di un collega di lavoro, di rilevanza anche penale, costituisce indubbiamente una grave violazione degli obblighi discendenti dal contratto di lavoro. Tuttavia considerando l’occasionante del comportamento, il contesto in cui andava ad  inserirsi la condotta e l’assenza di conseguenze sul piano lavorativo, va esclusa la giusta causa del recesso ma il rapporto di lavoro va dichiarato risolto e riconosciuta al lavoratore un’indennità risarcitoria. Questo è quanto stabilito dalla Corte di Cassazione, sez. lavoro, sentenza n. 33027/2018, depositata il 20 dicembre.

Il caso. Un lavoratore aggrediva una collega, spingendola, strattonandola e cercando di convincerla a uscire dall’ufficio. Tale condotta veniva sanzionata dall’azienda con il licenziamento. Il lavoratore, pertanto, impugnava il licenziamento innanzi al Tribunale competente che ne dichiarava l’illegittimità e, in applicazione della tutela ex art. 18, comma 4, della legge nr. 300 del 1970, ratione temporis applicabile, condannava il datore di lavoro a reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro ed al pagamento dell’indennità risarcitoria, pari alla retribuzione globale di fatto maturata dal licenziamento alla reintegra e comunque in misura non superiore a 12 mensilità, oltre accessori e versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali.

La Corte di Appello territoriale, pronunciando sul reclamo, proposto dal datore di lavoro, ai sensi dell’art. 1 comma 58 della legge nr. 92 del 2012, applicava, invece, la tutela ex art. 18, comma 5, della legge nr. 300 del 1970, ponendo le spese del doppio grado di giudizio in danno della parte reclamata. Altresì, osservava come i fatti contestati, sussistenti nella loro materialità, rivestissero rilievo disciplinare apprezzabile; rispetto agli stessi, tuttavia, la sanzione del licenziamento era sproporzionata. Nel caso di specie, il lavoratore aveva violato il codice etico della società e, sostanzialmente, le regole del vivere civile: aveva spinto una collega, fino a strattonarle la maglia, per convincerla ad uscire dall’ufficio; il gesto assumeva il carattere odioso dell’intimidazione psicologica, anche in ragione dei difficili rapporti sussistenti da tempo tra i due. La sanzione, però, non era proporzionata alla gravità, in concreto, del fatto: si trattava di un episodio occasionale, generato anche dall’atteggiamento della vittima che prima aveva chiesto un aiuto e poi lo aveva rifiutato; la vicenda era rimasta priva di conseguenze sul piano lavorativo.

Avverso  la sentenza di secondo grado il lavoratore propone ricorso per cassazione. Gli Ermellini ritenevano che, sempre secondo costante giurisprudenza, “il giudice deve tener conto di tutti i connotati oggetti e soggettivi del fatto, vale a dire del danno arrecato, dell’intensità del dolo o del grado della colpa, dei precedenti disciplinari nonché di ogni altra circostanza tale da incidere in concreto sulla valutazione del livello di lesione del rapporto fiduciario tra le parti”. A tali insegnamenti si era attenuta la Corte di merito. La sentenza impugnata aveva, in primo luogo, accertato la sussistenza del fatto contestato ovvero che il lavoratore, al diniego di una collega di consegnargli alcune pratiche, tentava di prendere con forza i documenti, alzava il tono di voce, afferrava per un braccio la collega «tirandole il maglione», allo scopo di portarla fuori dall’ufficio. I giudici di merito avevano correttamente ritenuto che detta condotta rappresentasse fatto di rilievo disciplinare, astrattamente inquadrabile nella nozione di giusta causa: il comportamento violento posto in essere nei confronti di un collega di lavoro, di rilevanza anche penale, costituisce indubbiamente una grave violazione degli obblighi discendenti dal contratto di lavoro. La Suprema Corte continuava affermando che “il successivo giudizio, ovvero quello avente ad oggetto la verifica, in concreto, della gravità della condotta, si è concluso, invece, con esito negativo: la Corte di merito, avuto riguardo all’occasionante del comportamento (il lavoratore non aveva precedenti disciplinari), al contesto in cui andava ad inserirsi la condotta (la collega dapprima aveva chiesto il suo aiuto e poi lo aveva rifiutato solo perché non era stato da subito disponibile), all’assenza di conseguenze sul piano lavorativo, ha escluso la giusta casa del recesso”. La doglianza del ricorrente riguardava, nello specifico, l’omessa attività valutativa e sussuntiva del giudice con riferimento alle previsioni contenute nel codice disciplinare del contratto collettivo che avrebbero stabilito, secondo la sua tesi, per la condotta come accertata, la sanzione conservativa. Il profilo della sussunzione della condotta tra le ipotesi punite, in sede di codice disciplinare, con sanzione conservativa non era stato specificamente affrontato nella sentenza impugnata che si era limitata a rilevare come, per il licenziamento (dai giudici, infatti, ritenuto spropositato), le parti collettive richiedevano un «grave diverbio litigioso e/o oltraggioso»; nulla si era detto in relazione alla previsione, nel codice disciplinare, di una condotta esattamente corrispondente a quella in concreto accertata. Dunque, secondo i Giudici del Palazzaccio il lavoratore in ufficio, che si era reso autore di «un comportamento violento posto in essere nei confronti di una collega», comportamento che, seppur «occasionale», era «di rilevanza anche penale» e «costituisce indubbiamente una grave violazione degli obblighi discendenti dal contratto di lavoro».

Per tali motivi la Corte di Cassazione riteneva esclusi i presupposti per il licenziamento ma dichiarava risolto il rapporto di lavoro riconoscendo al lavoratore un’indennità risarcitoria.

Avvocato Anna Maria Cupolillo Staff Giuridico Avvocato Express

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