In tema di competenza per territorio, ove un avvocato abbia presentato
ricorso per ingiunzione per ottenere il pagamento delle competenze
professionali da un proprio cliente, avvalendosi del foro speciale di cui agli
artt. 637, comma 3, c.p.c., e 14, comma 2, D.Lgs. n. 150/2011, il rapporto tra
quest’ultimo foro ed il foro speciale della residenza o del domicilio del
consumatore, previsto dall’art. 33, comma 2, lett. u), D.Lgs. n. 206/2005, va
risolto a favore del secondo, in quanto di competenza esclusiva, che prevale su
ogni altra, in virtù delle esigenze di tutela, anche sul terreno processuale,
che sono alla base dello statuto del consumatore. Questo è quanto stabilito
dalla Corte di Cassazione, sez. VI – 2, ordinanza del 28.07.2021, n. 21647.
Il caso. Un avvocato conveniva la propria assistita per
vedersi riconoscere il compenso di Euro 28.229,56 per l’attività svolta a suo
favore in un giudizio di divisione ereditaria. Il Tribunale dichiarava la
propria incompetenza in quanto la convenuta, in qualità di “consumatore”, aveva rinunciato al foro
di cui al D.Lgs. n. 206/2005 ed alla tutela ad ella accordata dalla disciplina
di cui al menzionato decreto legislativo.
Avverso tale ordinanza l’avvocato proponeva ricorso per regolamento di
competenza evidenziando che il consumatore non poteva eccepire l’incompetenza
del foro di cui al D.Lgs. n. 206/2005, né il giudice poteva rilevarla
d’ufficio, essendo tale foro prefigurato a protezione del consumatore e da lui
non derogabile. Secondo la Corte di Cassazione andava premesso che la qualifica
di consumatore di cui al D.Lgs. n. 206/2005, art. 3 – rilevante ai fini della
identificazione del soggetto legittimato ad avvalersi della tutela di cui al
citato D.Lgs., art. 33 – spettava alle sole persone fisiche, allorché
concludessero un contratto per la soddisfazione di esigenze della vita
quotidiana estranee all’attività imprenditoriale o professionale eventualmente;
su tale scorta era innegabile che la resistente era consumatore. La Corte di
Cassazione, infatti, affermava che “in tema di competenza per territorio, ove
un avvocato abbia presentato ricorso per ingiunzione per ottenere il pagamento
delle competenze professionali da un proprio cliente, avvalendosi del foro
speciale di cui agli artt. 637, comma 3, c.p.c. e 14, comma 2, D.Lgs. n.
150/2011, il rapporto tra quest’ultimo foro ed il foro speciale della residenza
o del domicilio del consumatore, previsto dall’art. 33, comma 2, lett. u), D.Lgs.
n. 206/2005, va risolto a favore del secondo, in quanto di competenza esclusiva,
che prevale su ogni altra, in virtù delle esigenze di tutela, anche sul terreno
processuale, che sono alla base dello statuto del consumatore” (Cass. Civ.,
sez. VI, ord. 12.03.2014, n. 5703). Pertanto, il foro del consumatore prevaleva
su altri fori, anche “speciali”, con la conseguenza che qualora il consumatore fosse
citato dinanzi al “suo” foro, non poteva eccepirne l’incompetenza e la
competenza di altri fori, in virtù del principio per cui era l’attore che
sceglieva il giudice competente; viceversa, qualora il D.Lgs. n. 206/2005, la
competenza del foro del consumatore poteva essere derogata a favore di un altro
foro. Altresì, la giurisprudenza di merito aveva puntualizzato che “qualora le
parti abbiano pattuito una clausola convenzionale in deroga al foro del
consumatore, come tale da presumersi vessatoria, qualora il professionista citi
in giudizio il consumatore davanti al foro a lui riferibile, sul presupposto
della vessatorietà di tale clausola, compete al consumatore che invece la
ritenga valida e ne eccepisca l’esistenza dare la dimostrazione che essa non è
vessatoria e, quindi, provare che vi è stata la trattativa, dovendo altrimenti
ritenersi la causa correttamente instaurata davanti al foro del consumatore
convenuto” (Cass,. Civ., sez. 25.01.2018, n. 1951). Nel caso de quo, i Giudici
osservavano che non era stata pattuita alcuna clausola convenzionale in deroga
al foro di cui al D.Lgs. n. 206/2005, con la conseguenza che il foro del
consumatore doveva individuarsi nel luogo di residenza della convenuta.
Per tali motivi, la Corte di Cassazione accoglieva il ricorso per
regolamento di competenza, cassava l’ordinanza del Tribunale incompetente e
dichiarava la competenza del Tribunale.
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E’ compito dell’assemblea, e per essa
del suo presidente, controllare la regolarità degli avvisi di convocazione e
darne conto tramite verbalizzazione, sulla base dell’elenco degli aventi
diritto a partecipare alla riunione eventualmente compilato dall’amministratore
(elenco che può essere a sua volta allegato al verbale o inserito tra i
documenti conservati nell’apposito registro), trattandosi di una delle
prescrizioni di forma richieste dal procedimento collegiale (avviso di
convocazione, ordine del giorno, costituzione, discussione, votazione, ecc.),
la cui inosservanza importa l’annullabilità della delibera, in quanto non presa
in conformità alla legge. Questo è quanto
stabilito dal Tribunale di Modena, sentenza n. 732/2021, depositata il 5
maggio.
Il caso. Un Condominio conveniva in giudizio l’ex amministratore condominiale
chiedendo l’accertamento della responsabilità professionale di questi per
irregolare convocazione dell’assemblea (la cui delibera era stata impugnata da
due condomini) e di conseguenza la sua condanna al risarcimento dei danni
subiti al termine del giudizio di impugnazione. In merito all’impugnazione da
parte dei due condomini, l’adito Tribunale dichiarava la cessazione
della materia del contendere a seguito dell’adozione, medio tempore, di una
nuova delibera sostitutiva di quella assoggettata ad impugnazione, era stata
riconosciuta la sussistenza di un vizio inerente la irregolare comunicazione ai
condomini ricorrenti della convocazione assembleare. Per tali ragioni il
Tribunale condannava il Condominio a rifondere ai condomini impugnanti
l’importo complessivo pari ad € 6.280,19. L’ex amministratore condominiale, chiedeva preliminarmente di essere
autorizzato a chiamare in causa la propria compagnia assicurativa ed eccepiva,
nel merito, l’infondatezza dell’avversa pretesa, atteso che: a) non sussisteva
interesse ad agire, non risultando l’avvenuto pagamento dell’importo da parte
del Condominio; b) l’annullamento di una delibera assembleare a seguito di
ricorso non presupponeva necessariamente un errore dell’amministratore
condominiale, il quale aveva peraltro provveduto correttamente alla convocazione dell’assemblea tramite consegna
dell’avviso presso l’ufficio del marito di uno dei due condomini seguendo le
istruzioni ricevute. Il giudice di prime cure stabiliva che “E’ perciò
compito dell’assemblea, e per essa del suo presidente, controllare la
regolarità degli avvisi di convocazione e darne conto tramite verbalizzazione,
sulla base dell’elenco degli aventi diritto a partecipare alla riunione
eventualmente compilato dall’amministratore (elenco che può essere a sua volta
allegato al verbale o inserito tra i documenti conservati nell’apposito
registro), trattandosi di una delle prescrizioni di forma richieste dal
procedimento collegiale (avviso di convocazione, ordine del giorno,
costituzione, discussione, votazione, ecc.), la cui inosservanza importa
l’annullabilità della delibera, in quanto non presa in conformità alla legge .”
Tale principio era stato di recente ripreso dalla Suprema Corte secondo cui
“L’amministratore non è tenuto al risarcimento dei danni, individuati nelle
spese processuali liquidate in favore del condomino che ha vittoriosamente
impugnato, in quanto non convocato, le deliberazioni assunte dall’assemblea,
essendo compito dell’assemblea il controllo della regolarità della sua
convocazione” (Cass. civ. Sez. II, 18/11/2019, n. 29878). Alla luce di tale
orientamento doveva essere esclusa la sussistenza di un nesso causale tra la
condotta dell’ex amministratore ed il danno subito dal Condominio attore. Ne
conseguiva che il Condominio attore, soccombente veniva condannato dunque al
pagamento delle spese di lite, comprese quelle sostenute dai chiamati in
garanzia; ed invero queste ultime, secondo il principio costantemente affermato
dalla giurisprudenza, erano legittimamente poste a carico della parte che,
rimasta soccombente, avesse provocato e giustificato la chiamata, e non
potevano gravare sul chiamante, quando questi non fosse a sua volta rimasto
soccombente, salva in ogni caso la compensazione per giusti motivi (Cass., n.
11743/2003; n. 6754/2001; n. 12689/1998; n. 3956/1994).
Per tali motivi, il Tribunale rigettava la domanda del Condominio.
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In tema di Condominio negli edifici, dei danni da
infiltrazioni cagionati dal lastrico solare o dalla terrazza a livello di uso
esclusivo, imputabili non alla omissione di riparazioni del bene, quanto a
difetti di progettazione o di esecuzione dell’opera, indebitamente tollerati
dal singolo proprietario, risponde soltanto quest’ultimo, ai sensi dell’art.
2051 c.c., e non anche il Condominio, il quale è obbligato ad eseguire le
attività di conservazione e di manutenzione straordinaria del bene, e non ad
eliminarne i vizi costruttivi originari. Questo è quanto stabilito dalla Corte
di Cassazione, sez. VI Civile – 2, ordinanza 19556/2021, depositata l’8 luglio.
Il caso. La Corte d’Appello distrettuale aveva parzialmente riformato la sentenza
resa dal Tribunale, con cui veniva accolta la domanda avanzata dal proprietario
ad uso esclusivo del lastrico solare e condannato il Condominio al risarcimento
dei danni subiti dall’unità immobiliare dell’attore, sita al secondo piano
dell’edificio, a causa delle infiltrazioni provenienti dal lastrico solare di
proprietà esclusiva dell’attore. Il Tribunale, inquadrando la fattispecie
nell’ipotesi di cui all’art. 1126 c.c., aveva ripartito le spese di ripristino
e riparazione tra il proprietario dell’unità immobiliare danneggiata e del lastrico
solare e il Condominio convenuto, nelle proporzioni indicate dalla norma
stessa. La Corte d’Appello, ritenendo che il primo giudice non avesse tenuto
conto del fatto che, come emerso dalle risultanze probatorie, le cause delle
infiltrazioni fossero da imputare non già a usura e a carenze manutentive, ma a
difetti originari di costruzione della copertura, aveva applicato il criterio
di imputazione di responsabilità indicato dall’art. 2051 c.c., così onerando
delle spese in oggetto il solo proprietario del lastrico solare, senza alcuna
partecipazione del Condominio.
Avverso tale sentenza il Condomino proponeva ricorso
per cassazione lamentandosi del fatto che la Corte d’Appello si fosse basata su
un orientamento non più attuale, in quanto superato dalla giurisprudenza delle
Sezioni Unite della Corte di Cassazione. Gli Ermellini, uniformandosi al
principio di diritto enunciato da Cass. Sez. U, 10/05/2016, n. 9449, ribadivano
che “in tema di condominio negli edifici, qualora l’uso del lastrico solare (o della
terrazza a livello) non sia comune a tutti i condomini, dei danni da
infiltrazioni nell’appartamento sottostante rispondono sia il proprietario, o
l’usuario esclusivo, quale custode del bene ai sensi dell’art. 2051 c.c., sia
il condominio in forza degli obblighi inerenti l’adozione dei controlli
necessari alla conservazione delle parti comuni incombenti sull’amministratore
ex art. 1130 c.c., comma 1, n. 4, nonché sull’assemblea dei condomini ex art.
1135 c.c., comma 1, n. 4, tenuta a provvedere alle opere di manutenzione
straordinaria, regolandosi il concorso di tali responsabilità, secondo i
criteri di cui all’art. 1126 c.c., a meno che non risulti la prova della
riconducibilità del danno a fatto esclusivo del titolare del diritto di uso
esclusivo del lastrico solare.” Nel caso de quo, era stato accertato dai
giudici del merito – in base ad apprezzamento sottratto al sindacato di
legittimità dell’efficacia eziologica delle rispettive condotte asseritamente
lesive – che la causa dei danni fosse imputabile non alla omissione di
riparazioni del lastrico dovute a vetustà, ipotesi cui tornava applicabile
l’art. 1126 c.c., quanto riconducibile a difetti originari di progettazione o
di esecuzione dell’opera, indebitamente tollerati dal singolo proprietario, con
conseguente responsabilità del solo medesimo proprietario del lastrico solare,
ex art. 2051 c.c., e non anche – sia pure in via concorrenziale – del Condominio,
il quale era obbligato ad eseguire le attività di conservazione e di
manutenzione straordinaria del bene, ma non ad eliminarne i vizi costruttivi
originari (Cass. Sez. 2, 21/11/2016, n. 23680; Cass. Sez. 3, 19/06/2013, n.
15300; Cass. Sez. 2, 15/04/2010, n. 9084; Cass. Sez. 3, 18/06/1998, n. 6060).
Quindi, “In tema di condominio negli edifici, dei danni da infiltrazioni
cagionati dal lastrico solare o dalla terrazza a livello di uso esclusivo,
imputabili non alla omissione di riparazioni del bene, quanto a difetti di
progettazione o di esecuzione dell’opera, indebitamente tollerati dal singolo
proprietario, risponde soltanto quest’ultimo, agli effetti dell’art. 2051 c.c.,
e non anche – sia pure in via concorrenziale – il condominio, il quale è
obbligato ad eseguire le attività di conservazione e di manutenzione
straordinaria del bene, e non ad eliminarne i vizi costruttivi originari.”
Per tali motivi la Corte di Cassazione dichiarava
inammissibile il ricorso e condannava il ricorrente a rimborsare al
controricorrente le spese sostenute nel giudizio di legittimità.
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Il condomino, che subisca nella propria unità immobiliare un danno
derivante dall’omessa manutenzione delle parti comuni dell’edificio assume,
quale danneggiato, la posizione di terzo avente diritto al risarcimento nei
confronti del Condominio, senza tuttavia essere esonerato dall’obbligo, che
trova la sua fonte nella comproprietà o nella utilità di quelle e non nella
specifica condotta illecita ad esso attribuibile, di contribuire a sua volta, in misura proporzionale al valore della rispettiva
porzione, alle spese necessarie per la riparazione delle parti comuni
dell’edificio e alla rifusione dei danni cagionati. Questo è quanto stabilito
dalla Corte di Cassazione, sez. VI Civile – 2, ordinanza n. 18187/2021,
depositata il 24 giugno.
Il caso. Una s.r.l., proprietaria del piano terra
dell’edificio condominiale, adiva in giudizio chiedendo la condanna del
Condominio al rimborso delle spese da essa anticipate ed al risarcimento dei
danni in relazione al lastrico comune di copertura, costituente la corte
interna del fabbricato. Il Tribunale competente condannava il Condominio al
pagamento in favore della s.r.l. delle somme anticipate da questa per
l’esecuzione dei lavori necessari alle parti comuni (Euro 29.040,00 e Euro
36.274,31) nonché ai danni pari ad Euro 18.872,86. La Corte d’Appello territoriale annullava la delibera
assembleare, impugnata ex art. 1137 c.c. dalla società. Tale delibera aveva
ripartito la spesa occorrente per risarcire i danni subiti dalla porzione di
proprietà esclusiva della società attrice a causa dell’omessa manutenzione di
una corte comune, danni accertati con sentenza resa dal Tribunale competente.
La decisione impugnata affermava
la sussistenza dell’obbligo dell’appellante di contribuire anch’essa, quale
condomina, alla spesa occorrente per risarcire il danno subito dall’unità immobiliare
di proprietà della s.r.l..
Avverso tale sentenza la società proponeva ricorso per cassazione con un
unico motivo deducendo la violazione dell’art. 2909 c.c. e sostenendo
che la sentenza di primo grado aveva condannato al risarcimento l’intera
compagine condominiale con l’esclusione, però, della attrice danneggiata.
Secondo gli Ermellini, “l’accertamento
della responsabilità risarcitoria della compagine condominiale per i danni
cagionati dall’omessa manutenzione delle parti comuni alla porzione di
proprietà esclusiva di uno dei condomini, risultante da sentenza definitiva di
condanna del condominio, in persona dell’amministratore, non esclude affatto
che lo stesso condomino danneggiato rimanga a sua volta gravato pro quota nei
confronti del condominio dell’obbligo di contribuzione alla correlata spesa,
che trova la sua fonte nella comproprietà delle parti comuni dell’edificio e
non nella specifica condotta illecita ad esso attribuibile (cfr. Cass. Sez. 2,
14/02/1987, n. 1618; Cass. Sez. 3, 02/04/2001, n. 4797; Cass. Sez. 2,
18/05/2001, n. 6849; Cass. Sez. 3, 08/11/2007, n. 23308).” Pertanto, la delibera assembleare in oggetto non
contrastava con la condanna risarcitoria statuita dal Tribunale. Sulla base di
ciò, la Suprema Corte affermava che “Il condomino, che subisca nella
propria unità immobiliare un danno derivante dall’omessa manutenzione delle
parti comuni dell’edificio ai sensi degli artt. 1123, 1124, 1125 e 1126 c.c.,
assume, quale danneggiato, la posizione di terzo avente diritto al risarcimento
nei confronti del condominio, senza tuttavia essere esonerato dall’obbligo, che
trova la sua fonte nella comproprietà o nella utilità di quelle e non nella
specifica condotta illecita ad esso attribuibile, di contribuire a sua volta,
in misura proporzionale al valore della rispettiva porzione, alle spese
necessarie per la riparazione delle parti comuni dell’edificio e alla rifusione
dei danni cagionati.”
Per tali motivi la Corte di Cassazione
rigettava il ricorso e condannava la ricorrente a rimborsare al
controricorrente le spese sostenute nel giudizio di legittimità.
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Ove un condomino abbia chiesto la revisione delle tabelle millesimali
deducendo la divergenza tra i valori effettivi e quelli accertati in tabella,
spetta al Giudice verificare i valori di ciascuna delle unità immobiliari,
tenendo conto di tutti gli elementi oggettivi, quali la superficie, l’altezza
del piano, la luminosità, l’esposizione, incidenti sul valore effettivo di esse
e quindi di adeguarvi le tabelle, eliminando le difformità riscontrate. Questo
è quanto sancito dalla Corte di Cassazione, sez. II Civile, ordinanza n.
10372/2021, depositata il 20 aprile.
Il caso. La Corte d’Appello
distrettuale confermava la sentenza di primo grado che, accogliendo la domanda di
una condomina, proseguita dalle sue eredi dopo la sua morte, aveva disposto,
nel contraddittorio di tutti i condomini del Condominio, la revisione delle
vigenti tabelle millesimali. La Corte d’Appello affermava che le tabelle
esistenti, redatte nel 1960, si discostassero in misura rilevante dai valori
proporzionali delle singole unità immobiliari, non considerando come parte
abitativa l’interno numero 1 e come autonoma porzione l’appartamento attico
numero 4.
Avverso tale sentenza altre due condomine proponevano ricorso per
cassazione. Le ricorrenti deducevano, sostanzialmente, la
nullità della sentenza impugnata per mancanza assoluta di motivazione e la
violazione e falsa applicazione degli artt. 69 n. 2 disp. att. c.c., 2702 e
2735 c.c., 115 c.p.c. nella parte in cui era stata accolta la domanda diretta
alla revisione in assenza dei presupposti legali. Secondo
gli Ermellini “Il diritto spettante anche al singolo condomino di chiedere la
revisione delle tabelle millesimali, in base all’art. 69 disp. att. c.c. (nella
formulazione, applicabile “ratione temporis”, anteriore alla L. n.
220 del 2012) è, invero, subordinato all’esistenza di un errore genetico o di
un’alterazione sopravvenuta del rapporto originario tra i valori delle singole
unità immobiliari imputabile alle mutate condizioni dell’edificio. In
particolare, per consolidata elaborazione giurisprudenziale (cfr. Cass. Sez. 2,
13/09/1991, n. 9579; Cass. Sez. U., 09/07/1997, n. 6222; Cass. Sez. 2,
22/11/2000, n. 15094; Cass. Sez. 2, 26/03/2010, n. 7300), le tabelle
millesimali, ex art. 69 disp. att. e trans c.c., n. 2, possono essere rivedute
e modificate (anche nell’interesse di un solo condomino) se è notevolmente
alterato il rapporto originario dei valori dei singoli piani o porzioni di
piano. Tale notevole alterazione del rapporto tra i valori proporzionali non è
necessariamente correlata ad una modificazione materiale dello stabile,
potendosi anche avere la creazione di un nuovo piano con mantenimento degli
originari valori proporzionali. Compete perciò al giudice del merito stabilire,
di volta in volta, se il mutamento delle condizioni dei luoghi o le opere
realizzate siano tali da implicare la revisione di detti valori e il suo
giudizio, sul punto, che si concreta in un accertamento di puro fatto,
sottratto al controllo di legittimità se, come nel caso esame, risulta sorretto
da adeguata motivazione.” Ove pertanto, come nel caso de quo, un condomino
avesse chiesto la revisione delle tabelle millesimali, deducendo la divergenza
tra i valori effettivi e quelli accertati in tabella, spettava al giudice di
verificare i valori di ciascuna delle unità immobiliari, tenendo conto di tutti
gli elementi oggettivi, quali la superficie, l’altezza di piano, la luminosità,
l’esposizione, incidenti sul valore effettivo di esse e, quindi, di adeguarvi
le tabelle, eliminando le difformità riscontrate (Cass. Sez. 2 10/05/2018, n.
11290; Cass. Sez. 2, 25/09/2013, n. 21950; Cass. Sez. 2, 14/12/2016, n. 25790).
Nel caso in esame i Giudici di
merito avevano, quindi, verificato, in base alle risultanze della CTU ed alla
dichiarazione resa in assemblea da un altro condomino, un sopravvenuto
mutamento delle condizioni di parti dell’edificio rispetto alle tabelle del
1960, apprezzamento insindacabile in sede di legittimità. Ne conseguiva che, ai
sensi dell’art. 69 disp. att. n. 1 c.c., l’errore che giustificava la revisione
delle tabelle millesimali non coincideva con l’errore vizio del consenso, ma
nell’obiettiva divergenza tra il valore effettivo delle singole unità
immobiliari ed il valore proporzionale ad esse attribuito nelle tabelle (Cass.
n. 6222/1997).
Per tali motivi la Corte di Cassazione rigettava il ricorso e
condannava in solido le ricorrenti a rimborsare le spese sostenute nel giudizio
di cassazione dalle controricorrenti.
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Nel rapporto di lavoro subordinato il tempo necessario a indossare
l’abbigliamento di servizio (‘tempo tuta’) costituisce tempo di lavoro soltanto
ove qualificato da eterodirezione, in difetto della quale l’attività di
vestizione rientra nella diligenza preparatoria inclusa nell’obbligazione principale
del lavoratore e non dà titolo ad autonomo corrispettivo. Questo è quanto
stabilito dalla Corte di Cassazione, sez. VI Civile – L, ordinanza n. 15763/2021,
depositata il 7 giugno.
Il caso. Alcuni dipendenti di una
società proponevano ricorso per cassazione avverso la sentenza della Corte d’Appello
territoriale che, in riforma della sentenza del Tribunale, aveva dichiarato
infondata la domanda con cui i lavoratori avevano chiesto il riconoscimento
della retribuzione per il tempo impiegato nell’indossare e nel dismettere gli
abiti di lavoro e gli altri dispositivi di protezione individuale (cd. tempo
tuta). La Corte d’Appello territoriale aveva accertato che la società non
imponeva ai lavoratori modalità di vestizione e svestizione, e che, pertanto,
avendo la datrice rinunciato a esercitare il proprio potere di eterodirezione
in relazione a tale attività, nessun obbligo retributivo derivante da
corrispettività gravava su di essa riguardo al cd. tempo tuta. Secondo gli
Ermellini, “nel rapporto di lavoro subordinato, il tempo necessario a indossare
l’abbigliamento di servizio (“tempo-tuta”) costituisce tempo di
lavoro soltanto ove qualificato da eterodirezione, in difetto della quale
l’attività di vestizione rientra nella diligenza preparatoria inclusa nell’obbligazione
principale del lavoratore e non dà titolo ad autonomo corrispettivo” (Cass. n.
9215 del 2016, Direttiva comunitaria n. 2003/88/CE, cfr. Cass. n. 1352 del 2016).
La Corte d’Appello aveva valorizzato l’esito della verifica svolta in fatto
circa l’assenza, nel caso de quo, dell’elemento costitutivo dell’obbligazione
rivendicata dai lavoratori nei confronti della società, consistente
nell’esercizio del potere di eterodirezione datoriale riguardo al tempo, al
modo e al luogo della vestizione/svestizione. Aveva, pertanto accertato che –
anche a prescindere dalla testimonianza resa in altro giudizio da uno dei
lavoratori, documento non disconosciuto e della cui erronea valutazione ai fini
della prova gli odierni ricorrenti si dolevano nei primi due motivi non era
stata raggiunta la prova dell’imposizione in capo ai lavoratori dell’obbligo di
indossare gli abiti da lavoro negli appositi spogliatoi aziendali, ben potendo
gli stessi recarsi al lavoro e far ritorno a casa indossandoli; né ai predetti
fini la Corte d’Appello aveva ritenuto rilevante che la società avesse offerto
servizi quali spogliatoio, doccia e lavanderia, in merito all’utilizzo dei
quali ai lavoratori era lasciata totale libertà di scelta. In sostanza, non era stata raggiunta la prova
dell’imposizione in capo ai lavoratori dell’obbligo di indossare gli abiti da
lavoro negli appositi spogliatoi aziendali, ben potendo essi recarsi al lavoro
e far ritorno a casa indossandoli, e in questa ottica era irrilevante che la
società avesse offerto servizi quali spogliatoio, doccia e lavanderia, in
merito all’utilizzo dei quali ai lavoratori era lasciata totale libertà di
scelta. Dunque fondamentale era stata la mancanza di prova sul fatto che “i
dipendenti dovessero indossare i dispositivi di protezione individuale prima di
iniziare l’attività lavorativa”. In conclusione all’esito
dell’accertamento circa la concreta gestione del cd. tempo tuta presso la
società, la Corte territoriale aveva escluso l’elemento dell’eterodirezione
quale potere direttivo e organizzativo equiparabile al tempo di lavoro in cui
si traduceva la messa a disposizione atta a generare il corrispettivo obbligo
di remunerazione.
Per tali motivi la Corte di Cassazione
rigettava il ricorso e condannava i ricorrenti al rimborso delle spese del
giudizio di legittimità in favore della controricorrente.
Avvocato Anna Maria Cupolillo Staff Giuridico Avvocato Express
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