Danni da infiltrazioni provenienti dal lastrico solare ad uso esclusivo:chi risponde?

Danni da infiltrazioni provenienti dal lastrico solare ad uso esclusivo:chi risponde?

In tema di Condominio negli edifici, dei danni da infiltrazioni cagionati dal lastrico solare o dalla terrazza a livello di uso esclusivo, imputabili non alla omissione di riparazioni del bene, quanto a difetti di progettazione o di esecuzione dell’opera, indebitamente tollerati dal singolo proprietario, risponde soltanto quest’ultimo, ai sensi dell’art. 2051 c.c., e non anche il Condominio, il quale è obbligato ad eseguire le attività di conservazione e di manutenzione straordinaria del bene, e non ad eliminarne i vizi costruttivi originari. Questo è quanto stabilito dalla Corte di Cassazione, sez. VI Civile – 2, ordinanza 19556/2021, depositata l’8 luglio.

Il caso. La Corte d’Appello distrettuale aveva parzialmente riformato la sentenza resa dal Tribunale, con cui veniva accolta la domanda avanzata dal proprietario ad uso esclusivo del lastrico solare e condannato il Condominio al risarcimento dei danni subiti dall’unità immobiliare dell’attore, sita al secondo piano dell’edificio, a causa delle infiltrazioni provenienti dal lastrico solare di proprietà esclusiva dell’attore. Il Tribunale, inquadrando la fattispecie nell’ipotesi di cui all’art. 1126 c.c., aveva ripartito le spese di ripristino e riparazione tra il proprietario dell’unità immobiliare danneggiata e del lastrico solare e il Condominio convenuto, nelle proporzioni indicate dalla norma stessa. La Corte d’Appello, ritenendo che il primo giudice non avesse tenuto conto del fatto che, come emerso dalle risultanze probatorie, le cause delle infiltrazioni fossero da imputare non già a usura e a carenze manutentive, ma a difetti originari di costruzione della copertura, aveva applicato il criterio di imputazione di responsabilità indicato dall’art. 2051 c.c., così onerando delle spese in oggetto il solo proprietario del lastrico solare, senza alcuna partecipazione del Condominio.

Avverso tale sentenza il Condomino proponeva ricorso per cassazione lamentandosi del fatto che la Corte d’Appello si fosse basata su un orientamento non più attuale, in quanto superato dalla giurisprudenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione. Gli Ermellini, uniformandosi al principio di diritto enunciato da Cass. Sez. U, 10/05/2016, n. 9449, ribadivano che “in tema di condominio negli edifici, qualora l’uso del lastrico solare (o della terrazza a livello) non sia comune a tutti i condomini, dei danni da infiltrazioni nell’appartamento sottostante rispondono sia il proprietario, o l’usuario esclusivo, quale custode del bene ai sensi dell’art. 2051 c.c., sia il condominio in forza degli obblighi inerenti l’adozione dei controlli necessari alla conservazione delle parti comuni incombenti sull’amministratore ex art. 1130 c.c., comma 1, n. 4, nonché sull’assemblea dei condomini ex art. 1135 c.c., comma 1, n. 4, tenuta a provvedere alle opere di manutenzione straordinaria, regolandosi il concorso di tali responsabilità, secondo i criteri di cui all’art. 1126 c.c., a meno che non risulti la prova della riconducibilità del danno a fatto esclusivo del titolare del diritto di uso esclusivo del lastrico solare.” Nel caso de quo, era stato accertato dai giudici del merito – in base ad apprezzamento sottratto al sindacato di legittimità dell’efficacia eziologica delle rispettive condotte asseritamente lesive – che la causa dei danni fosse imputabile non alla omissione di riparazioni del lastrico dovute a vetustà, ipotesi cui tornava applicabile l’art. 1126 c.c., quanto riconducibile a difetti originari di progettazione o di esecuzione dell’opera, indebitamente tollerati dal singolo proprietario, con conseguente responsabilità del solo medesimo proprietario del lastrico solare, ex art. 2051 c.c., e non anche – sia pure in via concorrenziale – del Condominio, il quale era obbligato ad eseguire le attività di conservazione e di manutenzione straordinaria del bene, ma non ad eliminarne i vizi costruttivi originari (Cass. Sez. 2, 21/11/2016, n. 23680; Cass. Sez. 3, 19/06/2013, n. 15300; Cass. Sez. 2, 15/04/2010, n. 9084; Cass. Sez. 3, 18/06/1998, n. 6060). Quindi, “In tema di condominio negli edifici, dei danni da infiltrazioni cagionati dal lastrico solare o dalla terrazza a livello di uso esclusivo, imputabili non alla omissione di riparazioni del bene, quanto a difetti di progettazione o di esecuzione dell’opera, indebitamente tollerati dal singolo proprietario, risponde soltanto quest’ultimo, agli effetti dell’art. 2051 c.c., e non anche – sia pure in via concorrenziale – il condominio, il quale è obbligato ad eseguire le attività di conservazione e di manutenzione straordinaria del bene, e non ad eliminarne i vizi costruttivi originari.”

Per tali motivi la Corte di Cassazione dichiarava inammissibile il ricorso e condannava il ricorrente a rimborsare al controricorrente le spese sostenute nel giudizio di legittimità.

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Omessa manutenzione delle parti comuni:il condomino danneggiato partecipa alle spese riparatorie

Omessa manutenzione delle parti comuni:il condomino danneggiato partecipa alle spese riparatorie

Il condomino, che subisca nella propria unità immobiliare un danno derivante dall’omessa manutenzione delle parti comuni dell’edificio assume, quale danneggiato, la posizione di terzo avente diritto al risarcimento nei confronti del Condominio, senza tuttavia essere esonerato dall’obbligo, che trova la sua fonte nella comproprietà o nella utilità di quelle e non nella specifica condotta illecita ad esso attribuibile,  di contribuire a sua volta, in misura proporzionale al valore della rispettiva porzione, alle spese necessarie per la riparazione delle parti comuni dell’edificio e alla rifusione dei danni cagionati. Questo è quanto stabilito dalla Corte di Cassazione, sez. VI Civile – 2, ordinanza n. 18187/2021, depositata il 24 giugno.   

Il caso. Una  s.r.l., proprietaria del piano terra dell’edificio condominiale, adiva in giudizio chiedendo la condanna del Condominio al rimborso delle spese da essa anticipate ed al risarcimento dei danni in relazione al lastrico comune di copertura, costituente la corte interna del fabbricato. Il Tribunale competente condannava il Condominio al pagamento in favore della s.r.l. delle somme anticipate da questa per l’esecuzione dei lavori necessari alle parti comuni (Euro 29.040,00 e Euro 36.274,31) nonché ai danni pari ad Euro 18.872,86. La Corte d’Appello territoriale annullava la delibera assembleare, impugnata ex art. 1137 c.c. dalla società. Tale delibera aveva ripartito la spesa occorrente per risarcire i danni subiti dalla porzione di proprietà esclusiva della società attrice a causa dell’omessa manutenzione di una corte comune, danni accertati con sentenza resa dal Tribunale competente. La decisione impugnata affermava la sussistenza dell’obbligo dell’appellante di contribuire anch’essa, quale condomina, alla spesa occorrente per risarcire il danno subito dall’unità immobiliare di proprietà della s.r.l..

Avverso tale sentenza la società proponeva ricorso per cassazione con un unico motivo deducendo la violazione dell’art. 2909 c.c. e sostenendo che la sentenza di primo grado aveva condannato al risarcimento l’intera compagine condominiale con l’esclusione, però, della attrice danneggiata. Secondo gli Ermellini,  “l’accertamento della responsabilità risarcitoria della compagine condominiale per i danni cagionati dall’omessa manutenzione delle parti comuni alla porzione di proprietà esclusiva di uno dei condomini, risultante da sentenza definitiva di condanna del condominio, in persona dell’amministratore, non esclude affatto che lo stesso condomino danneggiato rimanga a sua volta gravato pro quota nei confronti del condominio dell’obbligo di contribuzione alla correlata spesa, che trova la sua fonte nella comproprietà delle parti comuni dell’edificio e non nella specifica condotta illecita ad esso attribuibile (cfr. Cass. Sez. 2, 14/02/1987, n. 1618; Cass. Sez. 3, 02/04/2001, n. 4797; Cass. Sez. 2, 18/05/2001, n. 6849; Cass. Sez. 3, 08/11/2007, n. 23308).” Pertanto, la delibera assembleare in oggetto non contrastava con la condanna risarcitoria statuita dal Tribunale. Sulla base di ciò, la Suprema Corte affermava che “Il condomino, che subisca nella propria unità immobiliare un danno derivante dall’omessa manutenzione delle parti comuni dell’edificio ai sensi degli artt. 1123, 1124, 1125 e 1126 c.c., assume, quale danneggiato, la posizione di terzo avente diritto al risarcimento nei confronti del condominio, senza tuttavia essere esonerato dall’obbligo, che trova la sua fonte nella comproprietà o nella utilità di quelle e non nella specifica condotta illecita ad esso attribuibile, di contribuire a sua volta, in misura proporzionale al valore della rispettiva porzione, alle spese necessarie per la riparazione delle parti comuni dell’edificio e alla rifusione dei danni cagionati.”

Per tali motivi la Corte di Cassazione rigettava il ricorso e condannava la ricorrente a rimborsare al controricorrente le spese sostenute nel giudizio di legittimità.

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Revisione delle tabelle millesimali: a chi spetta eliminare le difformità riscontrate?

Revisione delle tabelle millesimali: a chi spetta eliminare le difformità riscontrate?

Ove un condomino abbia chiesto la revisione delle tabelle millesimali deducendo la divergenza tra i valori effettivi e quelli accertati in tabella, spetta al Giudice verificare i valori di ciascuna delle unità immobiliari, tenendo conto di tutti gli elementi oggettivi, quali la superficie, l’altezza del piano, la luminosità, l’esposizione, incidenti sul valore effettivo di esse e quindi di adeguarvi le tabelle, eliminando le difformità riscontrate.  Questo è quanto sancito dalla Corte di Cassazione, sez. II Civile, ordinanza n. 10372/2021, depositata il 20 aprile.

Il caso. La Corte d’Appello distrettuale confermava la sentenza di primo grado che, accogliendo la domanda di una condomina, proseguita dalle sue eredi dopo la sua morte, aveva disposto, nel contraddittorio di tutti i condomini del Condominio, la revisione delle vigenti tabelle millesimali. La Corte d’Appello affermava che le tabelle esistenti, redatte nel 1960, si discostassero in misura rilevante dai valori proporzionali delle singole unità immobiliari, non considerando come parte abitativa l’interno numero 1 e come autonoma porzione l’appartamento attico numero 4. 

Avverso tale sentenza altre due condomine proponevano ricorso per cassazione. Le ricorrenti deducevano, sostanzialmente, la nullità della sentenza impugnata per mancanza assoluta di motivazione e la violazione e falsa applicazione degli artt. 69 n. 2 disp. att. c.c., 2702 e 2735 c.c., 115 c.p.c. nella parte in cui era stata accolta la domanda diretta alla revisione in assenza dei presupposti legali. Secondo gli Ermellini “Il diritto spettante anche al singolo condomino di chiedere la revisione delle tabelle millesimali, in base all’art. 69 disp. att. c.c. (nella formulazione, applicabile “ratione temporis”, anteriore alla L. n. 220 del 2012) è, invero, subordinato all’esistenza di un errore genetico o di un’alterazione sopravvenuta del rapporto originario tra i valori delle singole unità immobiliari imputabile alle mutate condizioni dell’edificio. In particolare, per consolidata elaborazione giurisprudenziale (cfr. Cass. Sez. 2, 13/09/1991, n. 9579; Cass. Sez. U., 09/07/1997, n. 6222; Cass. Sez. 2, 22/11/2000, n. 15094; Cass. Sez. 2, 26/03/2010, n. 7300), le tabelle millesimali, ex art. 69 disp. att. e trans c.c., n. 2, possono essere rivedute e modificate (anche nell’interesse di un solo condomino) se è notevolmente alterato il rapporto originario dei valori dei singoli piani o porzioni di piano. Tale notevole alterazione del rapporto tra i valori proporzionali non è necessariamente correlata ad una modificazione materiale dello stabile, potendosi anche avere la creazione di un nuovo piano con mantenimento degli originari valori proporzionali. Compete perciò al giudice del merito stabilire, di volta in volta, se il mutamento delle condizioni dei luoghi o le opere realizzate siano tali da implicare la revisione di detti valori e il suo giudizio, sul punto, che si concreta in un accertamento di puro fatto, sottratto al controllo di legittimità se, come nel caso esame, risulta sorretto da adeguata motivazione.” Ove pertanto, come nel caso de quo, un condomino avesse chiesto la revisione delle tabelle millesimali, deducendo la divergenza tra i valori effettivi e quelli accertati in tabella, spettava al giudice di verificare i valori di ciascuna delle unità immobiliari, tenendo conto di tutti gli elementi oggettivi, quali la superficie, l’altezza di piano, la luminosità, l’esposizione, incidenti sul valore effettivo di esse e, quindi, di adeguarvi le tabelle, eliminando le difformità riscontrate (Cass. Sez. 2 10/05/2018, n. 11290; Cass. Sez. 2, 25/09/2013, n. 21950; Cass. Sez. 2, 14/12/2016, n. 25790). Nel caso in esame i Giudici di merito avevano, quindi, verificato, in base alle risultanze della CTU ed alla dichiarazione resa in assemblea da un altro condomino, un sopravvenuto mutamento delle condizioni di parti dell’edificio rispetto alle tabelle del 1960, apprezzamento insindacabile in sede di legittimità. Ne conseguiva che, ai sensi dell’art. 69 disp. att. n. 1 c.c., l’errore che giustificava la revisione delle tabelle millesimali non coincideva con l’errore vizio del consenso, ma nell’obiettiva divergenza tra il valore effettivo delle singole unità immobiliari ed il valore proporzionale ad esse attribuito nelle tabelle (Cass. n. 6222/1997).

Per tali motivi la Corte di Cassazione rigettava il ricorso e condannava in solido le ricorrenti a rimborsare le spese sostenute nel giudizio di cassazione dalle controricorrenti.

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Se i lavoratori non hanno l’obbligo di vestizione il “tempo tuta” non va retribuito

Se i lavoratori non hanno l’obbligo di vestizione il “tempo tuta” non va retribuito

Nel rapporto di lavoro subordinato il tempo necessario a indossare l’abbigliamento di servizio (‘tempo tuta’) costituisce tempo di lavoro soltanto ove qualificato da eterodirezione, in difetto della quale l’attività di vestizione rientra nella diligenza preparatoria inclusa nell’obbligazione principale del lavoratore e non dà titolo ad autonomo corrispettivo. Questo è quanto stabilito dalla Corte di Cassazione, sez. VI Civile – L, ordinanza n. 15763/2021, depositata il 7 giugno.

Il caso. Alcuni dipendenti di una società proponevano ricorso per cassazione avverso la sentenza della Corte d’Appello territoriale che, in riforma della sentenza del Tribunale, aveva dichiarato infondata la domanda con cui i lavoratori avevano chiesto il riconoscimento della retribuzione per il tempo impiegato nell’indossare e nel dismettere gli abiti di lavoro e gli altri dispositivi di protezione individuale (cd. tempo tuta). La Corte d’Appello territoriale aveva accertato che la società non imponeva ai lavoratori modalità di vestizione e svestizione, e che, pertanto, avendo la datrice rinunciato a esercitare il proprio potere di eterodirezione in relazione a tale attività, nessun obbligo retributivo derivante da corrispettività gravava su di essa riguardo al cd. tempo tuta. Secondo gli Ermellini, “nel rapporto di lavoro subordinato, il tempo necessario a indossare l’abbigliamento di servizio (“tempo-tuta”) costituisce tempo di lavoro soltanto ove qualificato da eterodirezione, in difetto della quale l’attività di vestizione rientra nella diligenza preparatoria inclusa nell’obbligazione principale del lavoratore e non dà titolo ad autonomo corrispettivo” (Cass. n. 9215 del 2016, Direttiva comunitaria n. 2003/88/CE, cfr. Cass. n. 1352 del 2016). La Corte d’Appello aveva valorizzato l’esito della verifica svolta in fatto circa l’assenza, nel caso de quo, dell’elemento costitutivo dell’obbligazione rivendicata dai lavoratori nei confronti della società, consistente nell’esercizio del potere di eterodirezione datoriale riguardo al tempo, al modo e al luogo della vestizione/svestizione. Aveva, pertanto accertato che – anche a prescindere dalla testimonianza resa in altro giudizio da uno dei lavoratori, documento non disconosciuto e della cui erronea valutazione ai fini della prova gli odierni ricorrenti si dolevano nei primi due motivi non era stata raggiunta la prova dell’imposizione in capo ai lavoratori dell’obbligo di indossare gli abiti da lavoro negli appositi spogliatoi aziendali, ben potendo gli stessi recarsi al lavoro e far ritorno a casa indossandoli; né ai predetti fini la Corte d’Appello aveva ritenuto rilevante che la società avesse offerto servizi quali spogliatoio, doccia e lavanderia, in merito all’utilizzo dei quali ai lavoratori era lasciata totale libertà di scelta. In sostanza, non era stata raggiunta la prova dell’imposizione in capo ai lavoratori dell’obbligo di indossare gli abiti da lavoro negli appositi spogliatoi aziendali, ben potendo essi recarsi al lavoro e far ritorno a casa indossandoli, e in questa ottica era irrilevante che la società avesse offerto servizi quali spogliatoio, doccia e lavanderia, in merito all’utilizzo dei quali ai lavoratori era lasciata totale libertà di scelta. Dunque fondamentale era stata la mancanza di prova sul fatto che “i dipendenti dovessero indossare i dispositivi di protezione individuale prima di iniziare l’attività lavorativa”. In conclusione all’esito dell’accertamento circa la concreta gestione del cd. tempo tuta presso la società, la Corte territoriale aveva escluso l’elemento dell’eterodirezione quale potere direttivo e organizzativo equiparabile al tempo di lavoro in cui si traduceva la messa a disposizione atta a generare il corrispettivo obbligo di remunerazione.

Per tali motivi la Corte di Cassazione rigettava il ricorso e condannava i ricorrenti al rimborso delle spese del giudizio di legittimità in favore della controricorrente.

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Se pericolosa e viola le distanze la nuova canna fumaria va demolita

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La ratio dell’art. 890 c.c. è quella di evitare che fumi nocivi ed intollerabili emessi dalle canne fumarie invadano le abitazioni e, trattandosi di tetti che coprono il medesimo fabbricato ad altezza diversa, tale scopo può essere raggiunto avendo come riferimento, per il calcolo delle distanze, il c.d. “colmo del tetto”, cioè la parte più alta dell’intero fabbricato e non già il tetto di copertura della porzione più bassa del medesimo fabbricato.  Questo è quanto sancito dalla Corte di Cassazione, sez. II Civile, ordinanza n. 15441/2021, depositata il 3 giugno.

Il caso. Una condomina lamentando la violazione delle distanze previste dall’art. 890 c.c., in combinato disposto con il Regolamento Edilizio del Comune de quo, art. 32, chiedeva ex art. 1170 c.c., artt. 703 e 669 bis c.p.c., la rimozione della canna fumaria realizzata nel dicembre 2003 da un altro condomino sul tetto dell’edificio di quest’ultimo e adiacente alla finestra della ricorrente. Quest’ultimo, si costituiva nel giudizio possessorio, rilevando come il manufatto era esistente fin dal 1967 e che, nel dicembre del 2003, era stato interessato da un intervento di manutenzione che non ne aveva alterato la precedente funzione; chiedeva, altresì, l’accertamento dell’acquisto per usucapione del diritto a mantenere la canna fumaria in quella posizione e a quella distanza. Il Tribunale competente rigettava la domanda.

Avverso tale sentenza la parte soccombente interponeva gravame. In particolare, secondo la Corte d’Appello territoriale, ai fini della conformità della canna fumaria alle prescrizioni del Regolamento, l’altezza della canna fumaria non era quella del tetto sul quale la stessa insisteva, bensì quella del colmo della più alta copertura del fabbricato comune. Inoltre, l’intervento edilizio realizzato non poteva essere inteso come una semplice ristrutturazione. La Corte d’Appello accoglieva il gravame proposto dalla parte appellante.

Avverso tale sentenza la parte soccombente proponeva ricorso per cassazione. Con il primo motivo di ricorso, si eccepiva che la Corte territoriale aveva errato nel ritenere che l’intervento edilizio del 2003 costituiva una “nuova costruzione” quando, di contro, tale mutamento doveva essere ricondotto alla categoria degli interventi di ristrutturazione. Inoltre, il ricorrente contestava il ragionamento della determinazione dell’altezza necessaria all’installazione di una canna fumaria. Secondo gli Ermellini, i giudici di seconde cure avevano fatto corretta applicazione dei principi di diritto in materia di “costruzione”. Come noto, difatti, “è ravvisabile una “nuova costruzione” quando l’opera di modifica si traduce non soltanto nella realizzazione “ex novo” di un fabbricato, ma anche in qualsiasi modificazione della volumetria dell’edificio preesistente che ne comporti un aumento della volumetria (Cass. civ. sez. II, n. 28612 del 15.12.2020; Cass. civ., sez. II, n. 10873 del 25.05.2016). Ai fini dell’osservanza delle norme in materia di distanze legali stabilite dall’art. 873 c.c. e seguenti, e delle norme dei regolamenti locali integrativi della disciplina codicistica, la nozione di “costruzione” è unica e non si identifica con quella di edificio, ma si estende a qualsiasi manufatto non completamente interrato avente i caratteri della solidità, stabilità e immobilizzazione al suolo anche mediante appoggio, incorporazione o collegamento fisso a un corpo di fabbrica contestualmente realizzato o preesistente e ciò indipendentemente dal livello di posa ed elevazione dell’opera stessa (Cassazione civile, sez. II, 17/10/2017, n. 24473).” Dall’orientamento menzionato si ricavava che, conformemente a quanto statuito dalla Corte di merito, era ravvisabile una “nuova costruzione” ogniqualvolta l’opera originariamente esistente subisse variazioni in termini di superficie o volume. Pertanto, l’intervento edilizio effettuato nel 2003 non poteva essere inteso come una semplice ristrutturazione di una canna fumaria preesistente ma come una nuova costruzione perché non erano rimasti invariati volume e dimensioni del manufatto. Con il secondo motivo di ricorso, si censurava la violazione dell’art. 890 c.c., in combinato disposto con il Regolamento Edilizio del Comune in questione, art. 32, nonché la carenza, mancanza ed illogicità della motivazione, per avere la Corte d’Appello erroneamente interpretato la previsione normativa dello strumento urbanistico ritenendo che, ai fini della determinazione dell’altezza necessaria all’installazione di una canna fumaria, dovesse aversi riguardo non già al tetto sul quale la canna fumaria insisteva bensì alla parte più alta del fabbricato comune. Inoltre, la Corte avrebbe, altresì, errato nel ritenere impossibile un innalzamento della canna fumaria fino al raggiungimento dell’altezza di legge, non essendo siffatta conclusione avvalorata da alcun supporto giuridico o scientifico. Al riguardo, in giurisprudenza, era stato sostenuto che in presenza di un regolamento anche locale che disciplina il profilo delle distanze, vigeva una presunzione di pericolosità assoluta la quale preclude qualsiasi accertamento concreto (Cass. n. 22389/2009,) mentre, in difetto di una disposizione regolamentare, si aveva pur sempre una presunzione di pericolosità, seppure relativa, che poteva essere superata ove la parte interessata al mantenimento del manufatto dimostrasse che mediante opportuni accorgimenti poteva ovviarsi al pericolo o al danno del fondo vicino. Detto ciò, poiché il fabbricato oggetto di giudizio risultava coperto da due tetti strutturalmente autonomi, secondo la Suprema Corte, i Giudici di merito avevano correttamente preso in considerazione, per verificare la conformità della canna fumaria alle prescrizioni del Regolamento, non il tetto sul quale la stessa insisteva ma il colmo della più alta copertura del fabbricato comune. Nel caso di specie, a seguito di CTU, la canna fumaria si trovava a mt 3,375 di distanza dalla finestra dell’attrice mentre l’art.32 del Reg. Edilizio prevedeva una distanza minima di dieci metri da ogni finestra posta a quota uguale o superiore; inoltre detta canna fumaria superava l’altezza della finestra di soli 0,87 metri e non di un metro come prescritto dallo strumento urbanistico. Pertanto, secondo la Suprema Corte, era corretta la decisione della Corte di merito di disporre la demolizione, resa peraltro necessaria dalle esigenze di stabilità della canna fumaria.

Per tali motivi la Corte di Cassazione dichiarava inammissibile il ricorso e condannava la parte ricorrente al pagamento, in favore della parte controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità.

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Diritto di proprietà: è imprescrittibile l’azione per ottenere il rispetto delle distanze legali?

Diritto di proprietà: è imprescrittibile l’azione per ottenere il rispetto delle distanze legali?

I poteri inerenti al diritto di proprietà, tra i quali rientra quello di esigere il rispetto delle distanze, non si estinguono per il decorso del tempo, salvi gli effetti dell’usucapione del diritto a mantenere la costruzione a distanza inferiore a quella legale. L’azione per ottenere il rispetto delle distanze legali è quindi imprescrittibile, trattandosi di azione reale modellata sullo schema dell’actio negatoria servitutis, rivolta non ad accertare il diritto di proprietà dell’attore, bensì a respingere l’imposizione di limitazioni a carico della proprietà suscettibili di dar luogo a servitù.  Ciò è quanto stabilito dalla Corte di Cassazione, sez. II Civile, ordinanza n. 15142/2021, depositata il 31 maggio. 

Il caso. Un Condominio, proprietario dell’edificio confinante, costruito in aderenza, adiva in giudizio per chiedere accertarsi la violazione delle distanze in relazione a tre finestre situate al piano terra e quattro finestre site al primo piano; lamentava, inoltre, che il cornicione sporgeva per cm 50 ed il canale di gronda ed i pluviali sconfinavano nella proprietà del Condominio sporgendo oltre il confine. Il Condominio esponeva, inoltre, che il precedente proprietario del suddetto fabbricato aveva autorizzato l’attuale proprietario a mantenere in quella posizione tali finestre, cornicione e gronda fino alla vendita dell’immobile stesso, deducendo quindi che la concessione non fosse più operante essendo avvenuta la suddetta vendita. Il Tribunale respingeva la domanda del Condominio e accoglieva la domanda di usucapione.

Avverso tale sentenza il Condominio interponeva appello. La Corte d’Appello distrettuale, invece, non condivideva tale pronuncia sottolineando l’avvenuta prescrizione del diritto del Condominio a pretendere il rispetto delle distanze legali.

Avverso tale sentenza il Condominio proponeva ricorso per cassazione. Con il primo motivo di ricorso, si deduceva la violazione e falsa applicazione degli artt. 948, 949 e 2946 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere la corte di merito dichiarato prescritto il diritto del Condominio di pretendere l’eliminazione delle opere realizzate in violazione delle distanze legali pur trattandosi di azione imprescrittibile connessa all’esercizio delle facoltà e dei poteri inerenti al diritto di proprietà, salvo l’acquisto per usucapione. Secondo il ricorrente, il diritto a chiedere il rispetto delle distanze legali non sarebbe derivato dall’atto di concessione precaria del 1966, con il quale il ricorrente avrebbe consentito al resistente di mantenere le vedute a distanza non legale dietro versamento di un corrispettivo in quanto l’accordo avrebbe efficacia tra le parti, sarebbe stato limitato nel tempo e soggetto a revoca in caso di trasferimento del bene da parte del concessionario. Sarebbe stata, pertanto, errata la decisione della Corte distrettuale, che aveva ritenuto prescritto il diritto di chiedere l’eliminazione delle opere per non avere il Condominio esercitato il diritto di credito come contropartita della convenzione conclusa tra i danti causa delle parti, in quanto il diritto non sarebbe derivato dall’obbligazione contrattuale. Il motivo di doglianza era fondato in quanto “I poteri inerenti al diritto di proprietà, tra i quali rientra quello di esigere il rispetto delle distanze, non si estinguono per il decorso del tempo, salvi gli effetti dell’usucapione del diritto a mantenere la costruzione a distanza inferiore a quella legale. Discende da tale principio che anche l’azione per ottenere il rispetto delle distanze legali è imprescrittibile, trattandosi di azione reale modellata sullo schema dell’”actio negatoria servitutis”, rivolta non ad accertare il diritto di proprietà dell’attore, bensì a respingere l’imposizione di limitazioni a carico della proprietà suscettibili di dar luogo a servitù (Cass. Civ., Sez. II, 23.1.2012, n. 871, Cass. Civ., Sez. II, 7.9.2009, n. 19289; Cass. Civ., Sez. II, Cass. Civ., Sez. II, 26.1.2000, n. 867).” Nel caso de quo la Corte di merito non aveva rispettato i suddetti principi, sostenendo che l’azione volta al rispetto delle distanze legali fosse prescritta per decorrenza del termine decennale previsto per l’esercizio del diritto di credito del Condominio. 

Per tali motivi la Corte di Cassazione accoglieva il ricorso, cassava la sentenza impugnata e rinviava alla Corte d’Appello distrettuale in diversa composizione.

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