La ratio dell’art. 890 c.c. è quella di evitare che fumi nocivi ed intollerabili emessi dalle canne fumarie invadano le abitazioni e, trattandosi di tetti che coprono il medesimo fabbricato ad altezza diversa, tale scopo può essere raggiunto avendo come riferimento, per il calcolo delle distanze, il c.d. “colmo del tetto”, cioè la parte più alta dell’intero fabbricato e non già il tetto di copertura della porzione più bassa del medesimo fabbricato.  Questo è quanto sancito dalla Corte di Cassazione, sez. II Civile, ordinanza n. 15441/2021, depositata il 3 giugno.

Il caso. Una condomina lamentando la violazione delle distanze previste dall’art. 890 c.c., in combinato disposto con il Regolamento Edilizio del Comune de quo, art. 32, chiedeva ex art. 1170 c.c., artt. 703 e 669 bis c.p.c., la rimozione della canna fumaria realizzata nel dicembre 2003 da un altro condomino sul tetto dell’edificio di quest’ultimo e adiacente alla finestra della ricorrente. Quest’ultimo, si costituiva nel giudizio possessorio, rilevando come il manufatto era esistente fin dal 1967 e che, nel dicembre del 2003, era stato interessato da un intervento di manutenzione che non ne aveva alterato la precedente funzione; chiedeva, altresì, l’accertamento dell’acquisto per usucapione del diritto a mantenere la canna fumaria in quella posizione e a quella distanza. Il Tribunale competente rigettava la domanda.

Avverso tale sentenza la parte soccombente interponeva gravame. In particolare, secondo la Corte d’Appello territoriale, ai fini della conformità della canna fumaria alle prescrizioni del Regolamento, l’altezza della canna fumaria non era quella del tetto sul quale la stessa insisteva, bensì quella del colmo della più alta copertura del fabbricato comune. Inoltre, l’intervento edilizio realizzato non poteva essere inteso come una semplice ristrutturazione. La Corte d’Appello accoglieva il gravame proposto dalla parte appellante.

Avverso tale sentenza la parte soccombente proponeva ricorso per cassazione. Con il primo motivo di ricorso, si eccepiva che la Corte territoriale aveva errato nel ritenere che l’intervento edilizio del 2003 costituiva una “nuova costruzione” quando, di contro, tale mutamento doveva essere ricondotto alla categoria degli interventi di ristrutturazione. Inoltre, il ricorrente contestava il ragionamento della determinazione dell’altezza necessaria all’installazione di una canna fumaria. Secondo gli Ermellini, i giudici di seconde cure avevano fatto corretta applicazione dei principi di diritto in materia di “costruzione”. Come noto, difatti, “è ravvisabile una “nuova costruzione” quando l’opera di modifica si traduce non soltanto nella realizzazione “ex novo” di un fabbricato, ma anche in qualsiasi modificazione della volumetria dell’edificio preesistente che ne comporti un aumento della volumetria (Cass. civ. sez. II, n. 28612 del 15.12.2020; Cass. civ., sez. II, n. 10873 del 25.05.2016). Ai fini dell’osservanza delle norme in materia di distanze legali stabilite dall’art. 873 c.c. e seguenti, e delle norme dei regolamenti locali integrativi della disciplina codicistica, la nozione di “costruzione” è unica e non si identifica con quella di edificio, ma si estende a qualsiasi manufatto non completamente interrato avente i caratteri della solidità, stabilità e immobilizzazione al suolo anche mediante appoggio, incorporazione o collegamento fisso a un corpo di fabbrica contestualmente realizzato o preesistente e ciò indipendentemente dal livello di posa ed elevazione dell’opera stessa (Cassazione civile, sez. II, 17/10/2017, n. 24473).” Dall’orientamento menzionato si ricavava che, conformemente a quanto statuito dalla Corte di merito, era ravvisabile una “nuova costruzione” ogniqualvolta l’opera originariamente esistente subisse variazioni in termini di superficie o volume. Pertanto, l’intervento edilizio effettuato nel 2003 non poteva essere inteso come una semplice ristrutturazione di una canna fumaria preesistente ma come una nuova costruzione perché non erano rimasti invariati volume e dimensioni del manufatto. Con il secondo motivo di ricorso, si censurava la violazione dell’art. 890 c.c., in combinato disposto con il Regolamento Edilizio del Comune in questione, art. 32, nonché la carenza, mancanza ed illogicità della motivazione, per avere la Corte d’Appello erroneamente interpretato la previsione normativa dello strumento urbanistico ritenendo che, ai fini della determinazione dell’altezza necessaria all’installazione di una canna fumaria, dovesse aversi riguardo non già al tetto sul quale la canna fumaria insisteva bensì alla parte più alta del fabbricato comune. Inoltre, la Corte avrebbe, altresì, errato nel ritenere impossibile un innalzamento della canna fumaria fino al raggiungimento dell’altezza di legge, non essendo siffatta conclusione avvalorata da alcun supporto giuridico o scientifico. Al riguardo, in giurisprudenza, era stato sostenuto che in presenza di un regolamento anche locale che disciplina il profilo delle distanze, vigeva una presunzione di pericolosità assoluta la quale preclude qualsiasi accertamento concreto (Cass. n. 22389/2009,) mentre, in difetto di una disposizione regolamentare, si aveva pur sempre una presunzione di pericolosità, seppure relativa, che poteva essere superata ove la parte interessata al mantenimento del manufatto dimostrasse che mediante opportuni accorgimenti poteva ovviarsi al pericolo o al danno del fondo vicino. Detto ciò, poiché il fabbricato oggetto di giudizio risultava coperto da due tetti strutturalmente autonomi, secondo la Suprema Corte, i Giudici di merito avevano correttamente preso in considerazione, per verificare la conformità della canna fumaria alle prescrizioni del Regolamento, non il tetto sul quale la stessa insisteva ma il colmo della più alta copertura del fabbricato comune. Nel caso di specie, a seguito di CTU, la canna fumaria si trovava a mt 3,375 di distanza dalla finestra dell’attrice mentre l’art.32 del Reg. Edilizio prevedeva una distanza minima di dieci metri da ogni finestra posta a quota uguale o superiore; inoltre detta canna fumaria superava l’altezza della finestra di soli 0,87 metri e non di un metro come prescritto dallo strumento urbanistico. Pertanto, secondo la Suprema Corte, era corretta la decisione della Corte di merito di disporre la demolizione, resa peraltro necessaria dalle esigenze di stabilità della canna fumaria.

Per tali motivi la Corte di Cassazione dichiarava inammissibile il ricorso e condannava la parte ricorrente al pagamento, in favore della parte controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità.

Avvocato Anna Maria Cupolillo Staff Giuridico Avvocato Express

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