Secondo l’art. 51, D.L. n. 79/2011, le locazioni di breve durata stipulate
da alcuni condomini sono riconducibili a quelle per finalità turistiche per
brevi periodi non superiori a 30 giorni. Ne consegue che esse non si
distinguano dunque dalle ordinarie locazioni, connotandosi solo per la loro
durata transitoria. Ciò è quanto stabilito dalla Corte d’Appello di Milano, sez. III Civile, sentenza
n. 93/2021, depositata il 13 gennaio.
Il caso. Un Condominio proponeva appello
avverso la sentenza del Tribunale competente che aveva respinto la sua domanda
nei confronti di alcuni condomini, avente ad oggetto l’accertamento della
contrarietà al regolamento condominiale dell’utilizzo dell’unità immobiliare
degli stessi, sita al terzo piano dello stabile, ad alloggio temporaneo di
breve durata, nonché l’ordine ai convenuti di cessare immediatamente tale
utilizzo. Aveva censurato la suddetta sentenza per aver erroneamente ritenuto
che non fosse opponibile ai condomini (che avevano acquistato l’appartamento in
questione nel 1981) il regolamento condominiale (approvato all’unanimità nel
1961) ed in particolare le clausole che vietavano l’esercizio all’interno
dell’appartamento dell’attività di “pensione” o l’uso dello stesso
“a camere ammobiliate affittate a terzi”, sostenendo che dette
limitazioni costituissero servitù atipiche e come tali opponibili ai terzi
acquirenti solo ove trascritte o specificamente indicate nell’atto di acquisto
(mentre in realtà si sarebbe trattato di una obbligazione propter rem,
vincolante per effetto dell’acquisto dell’immobile e della contestuale
accettazione del regolamento condominiale). Poiché gli stessi appellati avrebbero
riconosciuto di affittare il loro appartamento per periodi brevissimi (limitati
a qualche giorno), aveva chiesto l’integrale riforma della sentenza appellata,
considerato altresì – come già sostenuto in primo grado – che dette locazioni
brevi avrebbero arrecato disturbo alla tranquillità degli altri condomini e
sarebbero stati contrari al decoro dell’edificio (in violazione di altra
disposizione regolamentare) e che non sarebbero state previamente comunicate
all’amministratore del Condominio (come pure previsto dal regolamento). Gli
appellati chiedevano la conferma della sentenza impugnata, affermando che
comunque la locazione breve posta in essere non costituisse violazione di
alcuna norma regolamentare, non essendo assimilabile all’affitto di camere ammobiliate
(trattandosi di affitto dell’intera unità immobiliare, per uso abitativo e
senza servizi accessori di carattere alberghiero). Secondo la Corte d’Appello,
il Tribunale aveva affermato che nel 1961, con l’approvazione all’unanimità del
regolamento del Condominio de quo ed in particolare del suo art. 4 (il quale
prevedeva il divieto di “uso dell’appartamento a camere ammobiliate
affittate a terzi”), i condomini avessero costituito una servitù atipica
di non facere a carico di ciascuna unità immobiliare ed a favore di tutte le
altre: come tale, essa sarebbe opponibile al terzo che fosse divenuto
proprietario di una di dette unità solo a condizione che la clausola
regolamentare fosse trascritta nei registri immobiliari ex artt. 2659 e 2665
c.c., oppure che l’acquirente avesse preso atto in modo specifico della stessa
contestualmente all’atto d’acquisto, non essendo invece sufficiente che l’atto
di provenienza contenesse un mero richiamo al contenuto del regolamento. Con
ciò, dunque, il Tribunale aveva aderito all’orientamento espresso dalla Suprema
Corte a partire dalla sentenza n. 21024/16 (confermato in seguito da Cass. n.
6769/18), in contrasto con il consolidato precedente orientamento secondo il
quale “la semplice limitazione al godimento degli immobili, senza la
determinazione di un peso di prestazioni positive, non raffigura né una
servitù, né un onere reale…il divieto di svolgere una determinata attività
negli appartamenti costituisce un rapporto obbligatorio reale di non facere;
precisamente, una obbligazione propter rem con contenuto negativo, di non
conferire all’immobile una certa destinazione” (Cass. n. 11684/00). A
queste conclusioni si era giunto rilevando soprattutto l’assenza, nelle
clausole di cui si discuteva, del connotato tipico della servitù, e cioè la
soggezione di un bene, in questo caso l’immobile, a vantaggio di un altro
immobile, che non si configurava nel caso di clausole regolamentari incidenti
sulla destinazione d’uso degli immobili, che, invece, costituivano una
previsione concepita nell’interesse e a vantaggio dei condomini che ne
beneficiavano: quanto all’ammissibilità di una convenzione che ponesse
limitazioni ai diritti dei condomini, poi, questa era stata ritenuta sulla base
del principio di autonomia negoziale. Tutto ciò con la conseguenza della
idoneità della mera indicazione del regolamento condominiale nell’atto di
acquisto ai fini dell’opponibilità ai terzi acquirenti (Cass. n. 19212/16).
Detta qualificazione, peraltro, si presentava irrilevante nel caso in esame, posto
che il comportamento attribuito agli appellati non si poteva ritenere
violazione delle prescrizioni del regolamento di condominio in questione.
Inoltre, i giudici di seconde cure ritenevano che “Le locazioni stipulate dagli
appellati sono riconducibili a quelle per finalità turistiche per brevi periodo
non superiori a 30 gg ai sensi dell’art.53 del D.lgs. n.79/2011, che la Regione
Lombardia ha espressamente escluso dall’ambito delle attività ricettive (quali
proprio quelle di Bed and Breakfast ed affittacamere): esse non si distinguono
dunque dalle ordinarie locazioni (cui certamente il Condominio non può neppure
opporre un proprio gradimento, il che porta a ritenere l’onere di informazione
preventivo all’Amministratore come finalizzato al più alla facilitazione dei
contatti con i conduttori, ogni diversa interpretazione configurando la nullità
della clausola), connotandosi solo per la loro durata transitoria. In sé, del
resto, dette locazioni non sono necessariamente più moleste per gli altri
condomini rispetto a quanto potrebbe esserlo una di ordinaria durata
quadriennale, osservandosi ad esempio che il turista è di norma un adulto,
senza animali al seguito e che per la maggior parte della giornata non occupa
l’alloggio, mentre eventuali comportamenti irrispettosi possono essere propri
anche di uno stabile conduttore (che il locatore potrebbe solo richiamare
all’osservanza del regolamento)”.
Per tali motivi la Corte d’Appello distrettuale rigettava il ricorso e
condannava il Condominio al pagamento delle spese processuali.
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In tema di autovelox non risulta da alcuna normativa che la segnaletica di avvertimento del controllo debba essere anche luminescente ma incombe sulla P.A. fornire le prove relative alla “omologazione” e alla “taratura” dell’autovelox per legittimare il verbale redatto dalla Polizia municipale. Ciò è quanto stabilito dalla Corte di Cassazione, sez. II Civile, ordinanza n. 13630/2021, depositata il 19 maggio.
Il caso. Un automobilista proponeva, innanzi al
Giudice di Pace competente, opposizione avverso il verbale di accertamento di violazione
dell’art. 142, comma 8, C.d.S. elevato dal Comando della Polizia Municipale
del Comune competente. Il Giudice di prime cure accoglieva l’opposizione e annullava l’impugnato
verbale sul presupposto che “dalle emergenze processuali risultava che in
loco non era stato apposto alcun dispositivo luminoso di segnalazione e/o
comunque alcun cartello indicante la tipologia di controllo effettuato”.
Avverso tale sentenza il Comune interponeva appello. Il Tribunale, in
funzione di Giudice di appello, ritenendo privo di senso il riferimento alla
presunta necessità di una segnalazione luminosa dell’autovelox, accoglieva il gravame
e rigettava l’opposizione.
Avverso tale sentenza l’automobilista proponeva
ricorso per cassazione. Con il primo e il secondo motivo il ricorrente deduceva
sostanzialmente il vizio di violazione delle norme del C.d.S. in tema di
segnalazione delle postazioni di rilevamento della velocità. La doglianza della
parte ricorrente si risolveva nel pretendere – al fine della legittimità della sanzione
contestata – l’adempimento di un “obbligo di informazione della presenza
di postazioni di controllo” per il quale non sarebbe stata sufficiente la
sola relativa segnaletica (pacificamente esistente), ma una ulteriore e
necessaria segnaletica di tipo luminoso. Secondo gli Ermellini tale lamentela
era del tutto infondata “non risultando da alcuna normativa che la segnaletica
di avvertimento del controllo debba essere anche luminescente.” Con il terzo
motivo, parte ricorrente lamentava una errata applicazione, da parte della
sentenza impugnata, dei principi relativi all’onere probatorio. In particolare
(e per il profilo meritevole di accoglimento) veniva svolta censura in ordine
alla mancata prova – da parte della P.A. procedente – della prova e
attestazione della omologazione dell’apparato autovelox a mezzo del quale
veniva accertata la contestata violazione al C.d.S.. Il Tribunale aveva, sul
punto, ritenuto che era “onere dell’opponente dimostrare il fatto
impeditivo della pretesa sanzionatoria” e che “alcuna prova sulla
circostanza che l’autovelox potesse non essere omologato era stata data”
dall’odierna parte ricorrente. Tanto comportava un’errata applicazione del
principio dell’onere della prova con violazione della norma di cui all’art.
2697 c.c.. Infatti, come già affermato dalla Corte di Cassazione 26 maggio
1999, n. 5095, incombeva all’Amministrazione “l’onere (nel caso de quo non
risultante svolto) di dimostrare compiutamente l’esistenza dei fatti
costitutivi dell’illecito”. Al riguardo doveva raffermarsi il principio
secondo cui l’allegazione della omologazione e taratura del sistema di verifica
ed accertamento della velocità costituiva indefettibile onere a carico della
P.A.. Nel caso in esame, in violazione
anche di detto principio, si era verificata, prima ancora
dell’apprezzamento della prova, un’errata applicazione del principio dell’onere
della prova attribuito ad una parte diversa da quella che ne era gravata”
(Cass. 16 maggio 2007, n. 11216).
Per tali motivi la Corte di Cassazione rigettava il
primo ed il secondo motivo del ricorso, accoglieva il terzo, assorbiti i
rimanenti motivi, cassava – in relazione al motivo accolto – l’impugnata
sentenza e rinviava, anche per le spese, al Tribunale competente in persona di
diverso Giudice.
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In caso di spese condominiali di carattere
straordinario il Condominio è legittimato ad agire sia verso il Condomino che
era proprietario al momento della delibera assembleare che aveva deciso
l’esecuzione dei lavori, sia verso il soggetto che ha acquistato l’immobile dal
primo, ed è quindi responsabile per le somme dovute per l’anno in corso e per
l’anno precedente. Nei rapporti interni tra i due debitori, invece, salvo patto
contrario, a sostenere le spese sarà il soggetto proprietario al momento della
delibera assembleare. Questo è quanto stabilito dalla Corte di Cassazione, sez.
II Civile, sentenza n. 11199/2021, depositata il 28 aprile.
Il caso.Un Condominio depositava
ricorso per decreto ingiuntivo nei confronti dell’ex condomina e dell’attuale
proprietaria dell’appartamento al fine di ottenere il pagamento della somma di
Euro 8.436,25 dovuta per spese relative a lavori straordinari di
ristrutturazione eseguiti nell’edificio. Secondo il Condominio le due intimate
erano responsabili in solido per l’obbligazione relativa al pagamento delle
spese condominiali per i lavori straordinari. Entrambe proponevano opposizione
al decreto ingiuntivo con due azioni in seguito riunite nel medesimo
procedimento. In particolare l’ex condomina sosteneva che le spese non fossero
imputabili a lei in quanto i lavori erano stati eseguiti a seguito della
vendita del suo appartamento. L’attuale condomina, al contrario, sosteneva che
la sua dante causa fosse debitrice, in quanto i lavori erano stati deliberati
quando ella aveva la qualità di condomina. L’adito Tribunale dava ragione all’ex
condomina e, con il rigetto dell’opposizione dell’attuale condomina, decretava
la sua responsabilità per il pagamento delle spese.
Avverso tale sentenza l’attuale proprietaria
interponeva appello. La Corte d’appello distrettuale accoglieva il gravame
proposto e riteneva che, base a quanto stabilito dall’art. 63 disp. att. c.c.,
correttamente il Tribunale aveva intimato ad entrambe le ingiunte di pagare i
contributi pretesi dal Condominio, e perciò rigettato la domanda di revoca del
decreto ingiuntivo avanzata dall’appellante. Invece, quanto ai rapporti
interni, la Corte d’Appello richiamava il principio secondo cui obbligato a
contribuire alle spese di manutenzione delle parti comuni dell’edificio era
colui il quale risultava proprietario dell’unità immobiliare al momento
dell’adozione della delibera di approvazione dei lavori. La ragione,
chiaramente, era da ricercarsi nel fatto che i lavori erano stati decisi quando
il venditore poteva partecipare all’assemblea e votare, mentre il compratore
era ancora estraneo al Condominio e non aveva voce in capitolo. Applicando tale
criterio in ordine all’azione di rivalsa, i giudici di seconde cure concludevano
che l’ex proprietaria era tenuta a rifondere all’attuale proprietaria quanto la
stessa dovesse pagare al Condominio in forza del decreto ingiuntivo opposto.
Avverso tale sentenza l’ex condomina proponeva ricorso
per cassazione. Secondo la ricorrente la Corte d’Appello non aveva
correttamente valutato le risultanze istruttorie dei gradi di merito, infatti,
l’obbligo di pagare le spese sarebbe stato trasferito alla parte acquirente per
espresso accordo delle parti. Tale accordo avrebbe derogato alla disciplina
legale invece applicata dalla Corte d’Appello. Secondo gli Ermellini, i Giudici
d’Appello non avevano correttamente valutato delle testimonianze che avrebbero
provato l’esistenza di accordi in ragione dei quali la parte acquirente si era
impegnata a sostenere le spese relative ai lavori straordinari dietro ad uno
sconto nel prezzo dell’immobile. Tale patto avrebbe avuto il potenziale effetto
di derogare alla disciplina legale, introducendo quella pattizia. L’effetto,
tuttavia, non sarebbe stato verso il Condominio, ma solo volto a modificare i
rapporti debitori interni tra i due soggetti legittimati passivi. Ecco perché
la Suprema Corte sollevava l’attenzione sull’importante locuzione “salvo
diversi accordi”. Nel caso di debiti relativi alle spese straordinarie il
Condominio poteva validamente rivolgersi sia all’ex condomino, che a quello
attuale. Infatti, alla stregua dell’art. 63 disp. att. c.c., comma 2 (nella
formulazione antecedente alla modificazione operata dalla L. 11 dicembre 2012,
n. 220), “chi subentra nei diritti di un condomino è obbligato, solidalmente
con questo, al pagamento dei contributi relativi all’anno in corso e a quello
precedente. Come già ricordato, occorre a tal fine distinguere tra spese
necessarie alla manutenzione ordinaria, alla conservazione, al godimento delle
parti comuni dell’edificio o alla prestazione di servizi nell’interesse comune,
ovvero ad impedire o riparare un deterioramento, e spese attinenti a lavori che
consistano in un’innovazione o che comunque comportino, per la loro
particolarità e consistenza, un onere rilevante, superiore a quello inerente
alla manutenzione ordinaria dell’edificio e cagionate da un evento non
evitabile con quest’ultima. Nella prima ipotesi, l’obbligazione si ritiene
sorta non appena si compia l’intervento ritenuto necessario
dall’amministratore, e quindi in coincidenza con il compimento effettivo
dell’attività gestionale. Nel caso, invece, delle opere di manutenzione
straordinaria e delle innovazioni, la deliberazione dell’assemblea, chiamata a
determinare quantità, qualità e costi dell’intervento, assume valore
costitutivo della relativa obbligazione in capo a ciascun condomino. Da ciò si
fa derivare che, verificandosi l’alienazione di una porzione esclusiva posta
nel condominio in seguito all’adozione di una Delib. assembleare, antecedente
alla stipula dell’atto traslativo, volta all’esecuzione di lavori consistenti
in innovazioni, straordinaria manutenzione o ristrutturazione, ove non sia
diversamente convenuto nei rapporti interni tra venditore e compratore, i
relativi costi devono essere sopportati dal primo, anche se poi i lavori siano
stati, in tutto o in parte, effettuati in epoca successiva, con conseguente
diritto dell’acquirente a rivalersi nei confronti del proprio dante causa, per
quanto pagato al condominio in forza del principio di solidarietà passiva ex
art. 63 disp. att. c.c..” Dunque, di nessun rilievo era la data di esecuzione
effettiva dei lavori, in quanto a valere, quanto meno nei rapporti con il
Condominio, era la data della deliberazione dei lavori e la data di acquisto
dell’immobile in Condominio. Dunque, tale momento di insorgenza dell’obbligo di
contribuzione condominiale rileva anche per imputare l’obbligo di
partecipazione alla spesa nei rapporti interni tra venditore e compratore, ma
sempre che gli stessi, come nel caso di specie, non si fossero diversamente
accordati, rimanendo, peraltro, inopponibili al Condominio i patti eventualmente
intercorsi tra costoro. La Corte di Cassazione considerava pure che il dedotto accollo del debito
condominiale da parte della compratrice, in quanto semplice modalità di
adempimento dell’obbligo di pagamento del prezzo della compravendita immobiliare
comunque determinato in contratto, non potrebbe dirsi sottoposto ai limiti di
prova di cui all’art. 2725 c.c., comma 2 e art. 1350 c.c., n. 1. Il Condominio,
pertanto, era legittimato a richiedere la quota spettante sia all’ex condomina,
che alla nuova. Quanto ai rapporti interni tra i debitori, invece, la
Cassazione specificava che – salvo diversi accordi – il responsabile doveva
intendersi il soggetto che rivestiva la qualità di condomino al momento della
deliberazione, e non dell’esecuzione, dei lavori. In caso di pagamento, totale
o parziale, da parte del nuovo condomino, quindi, questi sarebbe stato
autorizzato a richiedere il risarcimento al legittimo debitore, ossia il suo
dante causa.
Per tali motivi la Corte di Cassazione cassava la
sentenza impugnata e rinviava ad altra sezione della Corte d’Appello per una
nuova valutazione nel merito.
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Il proprietario di vani terranei di un edificio in un Condominio non può
eseguire modificazioni della pavimentazione e dell’accesso al proprio locale
per consentire l’attraversamento con autovetture, ove da tale utilizzazione
della cosa comune risulti alterata la destinazione e sia impedito agli altri
condomini di farne parimenti uso secondo il loro diritto. Questo è quanto
stabilito dalla Corte di Cassazione,
sez. VI Civile – 2, ordinanza n. 11870/2021,
depositata il 6 maggio.
Il caso. Un Condominio esprimeva parere contrario alla richiesta di una società di
eseguire, a sue spese, i lavori necessari ad adeguare la quota del marciapiede
condominiale al livello stradale e all’eliminazione dei vasi posti a ornamento
e delimitazione del marciapiede stesso. La suddetta società,
proprietaria di un appartamento a uso ufficio e di un terrazzo di uso
esclusivo, posto a piano terra del Condominio e destinato a parcheggio, otteneva
dal Comune l’autorizzazione ad aprire un passo carrabile, necessario per il
transito dei veicoli, previa esecuzione delle suddette opere di adeguamento. Il
Condominio, nel motivare il suo diniego, sosteneva che i
lavori costituivano innovazioni vietate ai sensi dell’art. 1102 c.c.. La
società impugnava la delibera citando in giudizio il Condominio dinnanzi al
Tribunale e lamentando: 1. l’erronea applicazione dell’art. 1120 c.c. e la
violazione degli artt. 1102 e 1122 c.c., relativamente al diniego all’apertura
del passo carrabile, che non costituiva un’innovazione ma una
“modificazione finalizzata alla migliore utilizzazione della cosa
comune”; 2. l’inopponibilità del regolamento condominiale alla società; 3.
l’illegittimità della delibera, per aver invitato la condomina a
“ripristinare la destinazione d’uso precedente”; 4. l’assenza di
legittimazione del Condominio rispetto all’area utilizzata come marciapiede e
adiacente al terrazzo della Società. Il Tribunale respingeva la domanda da parte della società
ritenendo che i lavori da eseguire costituissero un’innovazione rispetto alla
destinazione della cosa comune e al diritto al pari di ciascun condomino e che
il regolamento condominiale fosse opponibile all’attrice in quanto trascritto.
Avverso tale sentenza la società interponeva appello. La Corte d’Appello
distrettuale confermava la sentenza del Tribunale.
Avverso tale sentenza la società proponeva ricorso per cassazione sostenendo
che la Corte d’Appello avesse erroneamente ritenuto che i lavori autorizzati
dall’Amministrazione comunale fossero illegittimi ex art. 1102 c.c., in
quanto suscettibili di mutare “l’attuale destinazione dei luoghi comuni a
marciapiede che, per sua natura, ha come funzione tipica quella di consentire
il sicuro transito pedonale dei condomini”.
In realtà, ad avviso della ricorrente, era stato dimostrato che le opere da
eseguire non avrebbero determinato né una modificazione materiale, né
un’alterazione dell’essenza o della originaria funzione della cosa comune, né
un mutamento della sua destinazione, rimanendo l’area calpestabile per i
pedoni. Pertanto, l’utilizzo della cosa comune non avrebbe subito alcuna
compromissione qualitativa o quantitativa in danno degli altri condomini. Per la Suprema Corte, però, il
ricorso era inammissibile in quanto il motivo di ricorso allegava la violazione
o falsa dell’art. 1102 c.c., ma il suo contenuto si limitava a criticare
l’apprezzamento di fatto delle risultanze probatorie che aveva portato il
Giudice di merito alla pronuncia impugnata, la cui censura sarebbe possibile
solo tramite il vizio dell’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c.. Ne risultava che la
Corte d’Appello aveva evidenziato che sarebbe risultata mutata, seppure per un
tratto limitato, l’attuale destinazione dei luoghi comuni a marciapiede. Secondo
l’art. 1102 c.c., la nozione di pari uso della cosa comune, seppure non andava
intesa nel senso di uso identico e contemporaneo, implicava, tuttavia, la
condizione che questa fosse compatibile con i diritti degli altri. Secondo un
precedente orientamento della giurisprudenza, “Il proprietario di vani terranei di un edificio in condominio non può,
perciò, eseguire modificazioni della pavimentazione e dell’arredo del
marciapiede condominiale in corrispondenza dell’accesso al proprio locale per
consentirne l’attraversamento con autovetture, ove da tale utilizzazione della
cosa comune risulti alterata la destinazione e sia impedito agli altri
condomini di farne parimenti uso secondo il loro diritto (Cass. Sez. 2,
18/02/1998, n. 1708; Cass. 14/12/1994, n. 10704; Cass. Sez. 2, 17/07/1962, n.
1899). L’accertamento del superamento dei limiti imposti dall’art. 1102 c.c.,
al condomino, che si assuma abbia alterato, nell’uso della cosa comune, la destinazione
della stessa, ricollegandosi all’entità e alla qualità dell’incidenza del nuovo
uso, è comunque riservato al giudice di merito e, come tale, non è censurabile
in sede di legittimità per violazione di norme di diritto.”
Per tali morivi la Corte di Cassazione dichiarava inammissibile il ricorso e condannava la ricorrente a rimborsare al controricorrente le spese sostenute nel giudizio di cassazione.
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In caso di lite fra due dipendenti di un supermercato, percepita dagli altri
lavoratori e dai clienti, il licenziamento è eccessivo, anche perché il
lavoratore ha reagito all’aggressione perpetrata ai suoi danni dal collega. Il
rapporto di lavoro è comunque concluso, ma l’oramai ex dipendente ha diritto ad
un adeguato risarcimento. Questo è quanto stabilito dalla Corte di Cassazione, sez. VI. Civile – L, ordinanza
n. 10621/2021, depositata il 22 aprile.
Il caso. Due lavoratori di un supermercato litigavano
all’interno del “reparto macelleria”: il primo schiaffeggiava il secondo, ma
quest’ultimo reagiva colpendolo con violenza e finiva per essere licenziato. Il
Tribunale, pronunciando sull’opposizione, ai sensi della L. n. 92 del 2012,
art. 1, commi 51 e ss., proposta dal lavoratore avverso l’ordinanza che aveva
respinto l’impugnativa del licenziamento intimato per giusta causa dal datore
di lavoro, rigettava il ricorso.
Avverso tale sentenza il lavoratore interponeva
appello. La Corte d’Appello accoglieva il reclamo del lavoratore e dichiarava
illegittimo il licenziamento; applicava la tutela di cui alla L. n. 300 del
1970, art. 18, comma 5, e, per l’effetto, dichiarando risolto il rapporto di
lavoro con decorrenza dalla data del licenziamento, riconosceva al lavoratore
un’indennità risarcitoria pari a 18 mensilità dell’ultima retribuzione di
fatto. A fondamento del decisum, la Corte d’Appello poneva le seguenti
argomentazioni: a) risultava provato il fatto posto a base del licenziamento:
il lavoratore, a seguito di una discussione con un collega nel reparto
macelleria, era passato alle vie di fatto; l’accadimento era visibile e/o
udibile da parte degli altri colleghi e dei clienti del reparto medesimo; b)
tale condotta era astrattamente riconducibile all’ipotesi sanzionata dal CCNL
di settore, con il licenziamento senza preavviso; c) tuttavia, in concreto, il
recesso datoriale non era proporzionato: il lavoratore aveva colpito il collega
dopo essere stato schiaffeggiato; dopo la prima discussione, avvenuta nel
reparto e rimasta nei limiti di un confronto verbale, il lavoratore aveva
continuato a lavorare senza dare seguito al diverbio. Era stato il collega a
seguire il resistente nella cella frigorifera con l’intenzione di continuare il
litigio e di aggredirlo; il lavoratore non aveva precedenti disciplinari.
Avverso tale sentenza il datore di lavoro proponeva
ricorso per cassazione. Per il Supremo Collegio era inutile il
richiamo a una presunta proporzionalità del licenziamento, come da contratto, a
fronte della condotta tenuta dal lavoratore nella struttura commerciale.
Difatti, era corretta, e non poteva essere messa in discussione, la valutazione
dell’episodio compiuta dai Giudici di secondo grado. I dettagli della vicenda,
come acclarati tra primo e secondo grado, erano sufficienti, in sostanza, per
ritenere evidente “l’illegittimità della sanzione espulsiva” decisa
dall’azienda. Ciò comportava che il lavoratore doveva dire addio al proprio
posto di lavoro, ma poteva comunque aveva diritto ad un adeguato risarcimento.
Per tali motivi
la Corte di Cassazione rigettava
il ricorso.
Avvocato Anna Maria Cupolillo Staff Giuridico Avvocato Express
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È
manifestamente infondato, in diritto, l’assunto secondo il quale la eventuale
circostanza che la scala non fosse dotata di alcuni dei requisiti di sicurezza
imposti dalla vigente normativa possa essere da sola sufficiente per affermare
che essa sia stata la causa della caduta della ricorrente e che, di
conseguenza, non avrebbe alcun rilievo la effettiva dinamica dell’incidente,
dal momento che il criterio di imputazione della responsabilità di cui all’art.
2051 c.c. richiede sempre la dimostrazione (quanto meno in via presuntiva), da
parte dell’attore danneggiato, che la cosa in custodia sia stata la causa
dell’evento lesivo, sulla base della effettiva dinamica dell’incidente. Questo è quanto stabilito dalla
Corte di Cassazione, sez. VI Civile, ordinanza n. 9872/2021, depositata il 15
aprile.
Il caso. Una donna agiva in giudizio nei
confronti del Comune per ottenere il risarcimento dei danni subiti cadendo su
una scala del palazzo comunale. La domanda era accolta dal Tribunale competente.
Avverso tale sentenza il Comune interponeva appello. La Corte di Appello distrettuale, in riforma della
decisione di primo grado, la rigettava. Per i Giudici di secondo grado, “la scala presentava
gradini usurati, privi di nastri antisdrucciolo” e “il corrimano di appoggio
era presente solo su un lato”. Ciò nonostante, però, “la scala non era
connotata da una situazione di oggettivo pericolo in ragione delle sue
caratteristiche, tale da rendere il danno molto probabile, se non inevitabile”.
Tutto ciò faceva escludere la responsabilità del Comune e negare il
risarcimento alla donna.
Avverso tale sentenza la donna proponeva ricorso per Cassazione. La ricorrente sosteneva che la Corte d’Appello, nel
valutare la pericolosità della scalinata dov’era avvenuto l’incidente, non
avrebbe tenuto in adeguata considerazione che la stessa aveva gradini usurati,
privi di nastri antisdrucciolo e mancanti da un lato del corrimano di appoggio.
Secondo la Suprema Corte, come era noto “l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5,
riformulato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54 convertito in L. 7 agosto
2012, n. 134, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per
cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o
secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti
processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia
carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito
diverso della controversia); ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle
previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e art. 369 c.p.c., comma 2, n.
4, il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia
stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso
risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia
stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”,
fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per
sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico,
rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice,
ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie.”
Era comunque opportuno sottolineare che era manifestamente infondato, in
diritto, “l’assunto secondo il quale la eventuale circostanza che la scala non
fosse dotata di alcuni dei requisiti di sicurezza imposti dalla vigente
normativa possa essere da sola sufficiente per affermare che essa sia stata la
causa della caduta della ricorrente e che, di conseguenza, non avrebbe alcun
rilievo la effettiva dinamica dell’incidente, dal momento che il criterio di
imputazione della responsabilità di cui all’art. 2051 c.c. richiede sempre la
dimostrazione (quanto meno in via presuntiva), da parte dell’attore
danneggiato, che la cosa in custodia sia stata la causa dell’evento lesivo,
sulla base della effettiva dinamica dell’incidente.” Nella specie la Corte d’Appello,
sulla base di una incensurabile valutazione delle prove, aveva ritenuto non
dimostrato il nesso eziologico tra la cosa e l’evento lesivo. A tal fine, dopo
avere dato atto che non era stata in alcun modo documentata dall’attrice la
effettiva dinamica dell’incidente aveva, del tutto correttamente, effettuato
anche una valutazione relativa alla pericolosità della cosa (con riguardo alle
sue effettive condizioni e, quindi, anche ai requisiti di sicurezza) al fine di
stabilire se ciò potesse fornire, almeno in via presuntiva, la prova del
suddetto nesso causale. La decisione impugnata risultava, dunque, conforme in
diritto ai principi in tema di responsabilità da cose in custodia costantemente
affermati dalla Corte di legittimità e recentemente ribaditi e precisati,
secondo i quali: “a) il criterio di imputazione della responsabilità fondato
sul rapporto di custodia di cui all’art. 2051 c.c. opera in termini
rigorosamente oggettivi; b) il danneggiato ha il solo onere di provare il nesso
di causa tra la cosa in custodia (a prescindere dalla sua pericolosità o dalle
sue caratteristiche intrinseche) ed il danno, mentre al custode spetta l’onere
della prova liberatoria del caso fortuito, inteso come fattore che, in base ai
principi della regolarità o adeguatezza causale, esclude il nesso eziologico
tra cosa e danno, ed è comprensivo del fatto del terzo e della condotta incauta
della vittima; c) la deduzione di omissioni, violazione di obblighi di legge,
di regole tecniche o di criteri di comune prudenza da parte del custode rileva
ai fini della sola fattispecie dell’art. 2043 c.c., salvo che la deduzione non
sia diretta soltanto a dimostrare lo stato della cosa e la sua capacità di
recare danno, e a sostenere allegazione e prova del rapporto causale tra quella
e l’evento dannoso.”
Per tali
motivi la Corte di Cassazione rigettava il ricorso.
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