La natura pertinenziale di un vano sottotetto

La natura pertinenziale di un vano sottotetto

Allorché il sottotetto assolva all’esclusiva funzione di isolare e proteggere dal caldo, dal freddo e dall’umidità l’appartamento dell’ultimo piano, e non abbia dimensioni e caratteristiche tali da consentire l’utilizzazione come vano autonomo, va considerato pertinenza di tale appartamento. Ciò è quanto stabilito dalla Corte di Cassazione, sez. VI Civile – 2, ordinanza n. 9060/2021, depositata il 31 marzo.

Il caso. Il Tribunale rigettava la domanda proposta da due coniugi di accertamento della natura pertinenziale del vano sottotetto di un edificio, rispetto all’appartamento sottostante, acquistato dagli stessi in sede di procedura esecutiva promossa nei confronti promossa nei confronti di un condomino, e della conseguente richiesta di liberare il vano dai suoi oggetti.

Avverso tale sentenza la parte soccombente interponeva appello. La Corte d’Appello riteneva invece sussistente il vincolo di pertinenzialità evidenziando che il sottotetto aveva esclusiva funzione di copertura del fabbricato.

Avverso tale sentenza l’ex condomino proponeva ricorso per cassazione deducendo la violazione o la falsa applicazione dell’art. 817 c.p.c., e contestando la qualificazione del vano sottotetto come pertinenza dell’appartamento sottostante. Secondo il ricorrente, il vano costituiva un ampliamento del fabbricato, quindi un nuovo locale, e non vi era prova che gli fosse stata impressa la destinazione pertinenziale, ponendolo al servizio dell’appartamento. La Corte d’appello, in esito all’esame documentale, aveva evidenziato che il vano sottotetto era la risultante della nuova copertura “a falde inclinate” del fabbricato, che aveva sostituito la precedente copertura “piana”; e che, come già accertato dal giudice di primo grado, le caratteristiche intrinseche del vano così realizzato non consentivano di qualificarlo come autonoma entità abitativa. Sulla base di tale accertamento, la Corte d’appello aveva concluso nel senso che il vano fosse destinato esclusivamente a fungere da copertura e coibentazione dell’appartamento sottostante, e che pertanto ne costituiva pertinenza. L’affermazione era conforme al principio consolidato nella giurisprudenza della Suprema Corte secondo cui “allorché il sottotetto assolva all’esclusiva funzione di isolare e proteggere dal caldo, dal freddo e dall’umidità l’appartamento dell’ultimo piano, e non abbia dimensioni e caratteristiche tali da consentirne l’utilizzazione come vano autonomo, va considerato pertinenza di tale appartamento (Cass. 21/05/2020, n. 9383; Cass. 30/03/2016, n. 6143; Cass. 12/08/2011, n. 1724).” 

Per questi motivi la Corte di Cassazione rigettava il ricorso e condannava il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

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Indipendenza tra i debitori del Condominio e i suoi appaltatori e quelli tra il condomino moroso e il Condominio

Indipendenza tra i debitori del Condominio e i suoi appaltatori e quelli tra il condomino moroso e il Condominio

L’obbligo del singolo di pagare al Condominio le spese dovute e le vicende debitorie del Condominio verso i suoi appaltatori rimangono del tutto indipendenti. Appare dunque evidente la diversità dell’azione diretta alla riscossione dei contributi condominiali nei confronti dei partecipanti, rientrante nella legittimazione dell’amministratore, rispetto all’azione per il pagamento del corrispettivo contrattuale esercitata dal terzo creditore verso il singolo condomino sul presupposto della riferibilità diretta dei debiti condominiali ai singoli membri del gruppo. Questo è quanto stabilito dalla Corte di Cassazione, sez. II Civile, ordinanza n. 7876/2021, depositata il 19 marzo.

Il caso. La Corte d’Appello territoriale rigettava il gravame presentato da un condomino contro la sentenza del Tribunale competente che aveva respinto l’opposizione al decreto ingiuntivo intimato allo stesso su istanza del Condominio, per l’importo di Euro 11.743,56, a titolo di contributo pro quota correlato al secondo ed al terzo stato di avanzamento dei lavori condominiali. Secondo i giudici di seconde cure, nel caso de quo, mancava l’eccepita ravvisabilità della litispendenza e continenza fra la causa di invalidità del provvedimento monitorio e quella di nullità del contratto di appalto; altresì, escludevano il difetto di legittimazione attiva dell’amministratore, trattandosi di azione per la riscossione di spese dovute da un condomino moroso per poter estinguere il corrispettivo dovuto all’appaltatrice.

Avverso tale sentenza la parte soccombente proponeva ricorso in cassazione eccependo la mancata riunione del presente giudizio a quello intrapreso da lui davanti allo stesso Tribunale avente ad oggetto la nullità del contratto di appalto stipulato dal Condominio con la ditta appaltatrice e la riconvenzionale proposta dall’appaltatrice per ottenere la condanna del condomino al pagamento pro quota del corrispettivo dei lavori. Secondo il ricorrente, entrambi i giudizi avevano ad oggetto il “prezzo dell’appalto richiesto nello stesso tempo dal terzo e dal Condominio”, e come l’altro processo, in particolare, riguardasse altresì la nullità dei titoli contrattuali posti a base della pretesa monitoria del Condominio. Inoltre, il ricorrente eccepiva che l’amministratore aveva azionato il diritto contrattuale rientrante nella titolarità sostanziale di terzi. A tale riguardo la Suprema Corte precisava che “L’obbligo di pagamento degli oneri condominiali da parte del singolo partecipante ha, per contro, causa immediata nella disciplina del condominio, e cioè nelle norme di cui agli artt. 1118 e 1123 c.c. e segg., che fondano il regime di contribuzione alle spese per le cose comuni.” I giudici di legittimità avevano già affermato che “l’obbligo del singolo partecipante di pagare al condominio le spese dovute e le vicende debitorie del condominio verso i suoi appaltatori o fornitori rimangono del tutto indipendenti, tant’è che il condomino non può ritardare il pagamento delle rate di spesa in attesa dell’evolvere delle relazioni contrattuali tra condominio e soggetti creditori di quest’ultimo, né può utilmente opporre all’amministratore che il pagamento sia stato da lui effettuato direttamente al terzo, in quanto, si è detto, ciò altererebbe la gestione complessiva del condominio: sicché il singolo deve sempre e comunque pagare all’amministratore, salva l’insorgenza, in sede di bilancio consuntivo, di un credito da rimborso per gli avanzi di cassa residuati (Cass. Sez. 2, 29/01/2013, n. 2049).” Altresì, affermavano che, ponendosi il Condominio, nei confronti dei terzi, come “soggetto di gestione” dei diritti e degli obblighi dei singoli condomini attinenti alle parti comuni, l’amministratore di esso assumeva la qualità di necessario rappresentante della collettività dei condomini, e ciò sia nella fase di assunzione degli obblighi verso i terzi per la conservazione delle cose comuni, sia, all’interno della medesima collettività condominiale, in quanto unico referente dei pagamenti ad essi relativi; con la conclusione che il pagamento diretto eseguito dal singolo partecipante a mani del creditore del Condominio non sarebbe comunque idoneo ad estinguere il debito “pro quota” dello stesso relativo ai contributi ex art. 1123 c.c. (Cass. Sez. 6 – 2, 17/02/2014, n. 3636). Secondo il Supremo Collegio, la domanda per il pagamento dei contributi condominiali proposta nel presente giudizio dal Condominio nei confronti del condomino era diversa per soggetti, petitum e causa petendi dalla causa avente ad oggetto il rapporto contrattuale d’appalto, e gli obblighi da questo derivanti, intercorrente tra il medesimo condomino e l’appaltatrice Beta. Difatti, secondo consolidata interpretazione giurisprudenziale (Cass. Sez. U, 08/04/2008, n. 9148), il credito che il terzo creditore, in forza di contratto concluso dall’amministratore nell’ambito delle sue attribuzioni, poteva far valere anche direttamente nei confronti del singolo condomino, in proporzione della rispettiva quota millesimale, era cosa giuridicamente diversa (seppur economicamente coincidente) rispetto al credito per la riscossione dei contributi condominiali che poteva far valere l’amministratore di Condominio. Il primo credito aveva, invero, natura di prestazione sinallagmatica e trovava causa nel rapporto contrattuale col terzo approvato dall’assemblea e concluso dall’amministratore in rappresentanza di tutti i partecipanti al Condominio. Appariva, pertanto, evidente la diversità dell’azione diretta alla riscossione dei contributi condominiali nei confronti dei partecipanti, rientrante nella legittimazione dell’amministratore (artt. 1130 n. 3 c.c. e 63, comma 1, disp. att. c.c.), rispetto all’azione per il pagamento del corrispettivo contrattuale esercitata dal terzo creditore verso il singolo condomino sul presupposto della riferibilità diretta dei debiti condominiali ai singoli membri del gruppo. Ciò escludeva ogni interferenza sul presente giudizio del distinto giudizio inerente al contratto d’appalto concluso con la ditta appaltatrice, e smentiva ogni dubbio sulla legittimazione attiva, o, meglio, sulla titolarità sostanziale dell’amministratore in ordine al credito dedotto in sede monitoria.

Per tali motivi la Corte di Cassazione rigettava il ricorso.

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Ha diritto al risarcimento del danno l’amministratore di Condominio revocato senza giusta causa

Ha diritto al risarcimento del danno l’amministratore di Condominio revocato senza giusta causa

In caso di revoca dell’amministratore di Condominio prima della scadenza del termine previsto nell’atto di nomina, egli ha diritto, oltre che al soddisfacimento dei propri eventuali crediti, altresì al risarcimento dei danni, in applicazione dell’art. 1725, comma 1, c.c., salvo che sussista una giusta causa, indicativamente ravvisabile tra quelle che giustificano la revoca giudiziale dello stesso incarico. Questo è quanto stabilito dalla Corte di Cassazione, sez. II Civile, ordinanza n. 7874/2021, depositata il 19 marzo.

Il caso. Il Tribunale competente accoglieva solo in parte l’appello di una condomina contro la sentenza del Giudice di Pace, affermando che all’appellante, ex amministratrice di un Condominio, spettasse solo il saldo del compenso fino all’esaurimento del rapporto e non anche il risarcimento del danno, ai sensi dell’art. 1725 c.c., norma inapplicabile al recesso in materia di professioni intellettuali in quanto disciplinato dall’art. 2237 c.c..

Avverso tale sentenza la condomina proponeva ricorso per cassazione deducendo la violazione e la falsa applicazione degli artt. 2237 e 1725 in relazione all’art. 1229 c.c., sostenendo che al rapporto tra Condominio e amministratore non potesse applicarsi l’art. 2237 c.c., in quanto norma attinente al contratto d’opera intellettuale e dovendosi assimilare l’amministratore condominiale ad un mandatario con rappresentanza. Secondo gli Ermellini era evidente come, a differenza di quanto ritenuto dal Tribunale, gli effetti della revoca dell’incarico di amministratore di Condominio non potessero trovare la loro disciplina nella fattispecie di cui all’art. 2237 c.c., la quale regola, invero, il recesso del cliente nel contratto di prestazione d’opera intellettuale. Il contratto tipico di amministrazione di Condominio, il cui contenuto era essenzialmente dettato negli artt. 1129, 1130 e 1131 c.c., non costituiva prestazione d’opera intellettuale, e non era perciò soggetto alle norme che il codice civile prevedeva per il relativo contratto, atteso che l’esercizio di tale attività non era subordinata – come richiesto dall’art. 2229 c.c., all’iscrizione in apposito albo o elenco, quanto (e ciò peraltro soltanto a far tempo dall’entrata in vigore dell’art. 71-bis disp. att. c.c., introdotto dalla L. n. 220 del 2012) al possesso di determinati requisiti di professionalità ed onorabilità, e rientrava, piuttosto, nell’ambito delle professioni non organizzate in ordini o collegi, di cui alla L. 14 gennaio 2013, n. 4. Inoltre, “come chiarito da Cass. Sez. Un. 29/10/2004, n. 20957, la previsione della revocabilità ad nutum da parte dell’assemblea conferma la assimilabilità al mandato del rapporto intercorrente tra condominio ed amministratore e, conseguentemente, il carattere fiduciario dell’incarico. Trattandosi, peraltro, di mandato che si presume oneroso conferito per un tempo determinato, se la revoca è fatta prima della scadenza del termine di durata previsto nell’atto di nomina, l’amministratore ha diritto, oltre che al soddisfacimento dei propri eventuali crediti, altresì al risarcimento dei danni, proprio in applicazione dell’art. 1725 c.c., comma 1, salvo che ricorra a fondamento della medesima revoca una giusta causa, indicativamente ravvisabile tra quelle che giustificano la revoca giudiziale dello stesso incarico”. Era infatti da ritenere che l’art. 1129 c.c., si preoccupava unicamente di far salvo il potere di revoca dell’assemblea, senza tuttavia regolarne gli effetti, il che non esonerava l’interprete dal far uso di quelle norme analoghe che, a proposito della revoca ante tempus, differenziavano le conseguenze avendo riguardo alla sussistenza, o meno, della giusta causa di recesso (art. 1725 c.c., comma 1, appunto, ma anche art. 2383 c.c., comma 3).  Pertanto, l’amministratore di Condominio, in ipotesi di revoca deliberata dall’assemblea prima della scadenza del termine previsto nell’atto di nomina, aveva diritto, oltre che al soddisfacimento dei propri eventuali crediti, altresì al risarcimento dei danni, in applicazione dell’art. 1725 c.c., comma 1, salvo che sussistesse una giusta causa, indicativamente ravvisabile tra quelle che giustificavano la revoca giudiziale dello stesso incarico.

Per tali motivi la Corte di Cassazione accoglieva il ricorso, cassava la sentenza impugnata e rinviava la causa al Tribunale competente, in persona di diverso magistrato, anche per le spese processuali.

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D. In appello possono essere compensate le spese processuali del primo grado di giudizio?

D. In appello possono essere compensate le spese processuali del primo grado di giudizio?

R. «Il potere del giudice d’appello di procedere d’ufficio ad un nuovo regolamento delle spese processuali, quale conseguenza della pronuncia adottata, sussiste in caso di riforma in tutto o in parte della sentenza impugnata, in quanto il relativo onere deve essere attribuito e ripartito in relazione all’esito complessivo della lite, laddove, in caso di conferma della decisione impugnata, la pronuncia sulle spese può essere modificata soltanto se il relativo capo della decisione abbia costituito oggetto di uno specifico motivo d’impugnazione».  

(Corte di Cassazione, sez. VI Civile – 2, ordinanza n. 7616/21; depositata il 18 marzo)

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Chi è responsabile per le infiltrazioni provenienti dal terrazzo di copertura del Condominio?

Chi è responsabile per le infiltrazioni provenienti dal terrazzo di copertura del Condominio?

In caso di  infiltrazioni d’acqua provenienti dal manufatto per la mancata manutenzione sono corresponsabili un Condominio ed il proprietario di un terrazzo ricoprente quest’ultimo. Questo è quanto stabilito dalla Corte di Cassazione, sez. VI Civile – 2 ordinanza n. 6816/2021, depositata l’11 marzo.

Il caso. Con atto di citazione due condomini convenivano in giudizio la proprietaria del terrazzo di copertura del Condominio nel quale entrambi risiedevano, nonché lo stesso Condominio, affinché fossero condannati in solido all’esecuzione dei lavori necessari ad eliminare le infiltrazioni verificatesi negli appartamenti di loro proprietà in conseguenza delle precipitazioni, con la condanna altresì al risarcimento dei danni. Deducevano che la causa dei danni era da addebitare sia alla proprietaria esclusiva del terrazzo di copertura del fabbricato, sia al Condominio, che aveva omesso di assicurare la necessaria manutenzione e impermeabilizzazione della terrazza. La base normativa dell’azione dei danneggiati, infatti, era l’articolo 1126 c.c., che prevedeva che “quando l’uso dei lastrici solari o di una parte di essi non è comune a tutti i condomini, quelli che ne hanno l’uso esclusivo sono tenuti a contribuire per un terzo nella spesa delle riparazioni o ricostruzioni del lastrico: gli altri due terzi sono a carico di tutti i condomini dell’edificio o della parte di questo a cui il lastrico solare serve in proporzione del valore del piano o della porzione di piano di ciascuno”, nonché l’art. 2055 c.c. dove si leggeva al primo comma che “se il fatto dannoso è imputabile a più persone, tutte sono obbligate in solido al risarcimento del danno”. L’omessa manutenzione, imputabile sia al Condominio che ai condomini, era stata la causa del danno e in ragione di ciò entrambi i convenuti dovevano secondo l’attore essere condannati. Si costituiva in giudizio il Condominio, chiedendo il rigetto della domanda o, comunque, che la condanna fosse irrogata alla sola condomina che aveva omesso l’ordinaria manutenzione della terrazza. Il Tribunale competente accoglieva la domanda attorea soltanto nei confronti del Condominio.

Avverso tale sentenza il Condominio interponeva appello chiedendo l’estensione della condanna anche alla proprietaria del terrazzo. La Corte d’Appello affermava che la condanna fosse stata erroneamente comminata al solo Condominio quando, ai sensi di legge, anche la condomina proprietaria della terrazza doveva essere considerata come responsabile in solido. I giudici di secondo grado dopo avere evidenziato che dalle indagini peritali emergeva che le cause delle infiltrazioni oggetto di causa erano da individuare in parte nella non corretta impermeabilizzazione del terrazzo di copertura di proprietà esclusiva della convenuta ed in parte nelle pessime condizioni in cui versava il cornicione con l’annesso canale di gronda, riteneva che dovesse pervenirsi alla condanna in solido del condominio e della proprietaria esclusiva del bene alla luce di quanto affermato dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 9449/2016 secondo la quale “in tema di condominio negli edifici, qualora l’uso del lastrico solare (o della terrazza a livello) non sia comune a tutti i condomini, dei danni da infiltrazioni nell’appartamento sottostante rispondono sia il proprietario, o l’usuario esclusivo, quale custode del bene ai sensi dell’art. 2051 c.c., sia il condominio in forza degli obblighi inerenti l’adozione dei controlli necessari alla conservazione delle parti comuni incombenti sull’amministratore ex art. 1130, comma 1, n. 4, c.c., nonché sull’assemblea dei condomini ex art. 1135, comma 1, n. 4, c.c., tenuta a provvedere alle opere di manutenzione straordinaria; il concorso di tali responsabilità va di norma risolto, salva la rigorosa prova contraria della specifica imputabilità soggettiva del danno, secondo i criteri di cui all’art. 1126 c.c., che pone le spese di riparazione o di ricostruzione per un terzo a carico del proprietario o dell’usuario esclusivo del lastrico (o della terrazza) e per i restanti due terzi a carico del condominio”. La Corte d’Appello riformulava parzialmente la sentenza di primo grado estendendo la responsabilità anche alla condomina.

Avverso tale sentenza la parte soccombente proponeva ricorso per cassazione lamentando la violazione e la falsa applicazione degli artt. 1126 e 2055 c.c., in quanto, proprio alla luce dei principi espressi dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 9449/2016 non sarebbe stato possibile affermare una responsabilità soldale tra il Condominio ed i singoli condomini. Secondo gli Ermellini, i Giudici di secondo grado avevano correttamente deciso sul punto estendendo la condanna anche alla condomina e applicando così i principi dettati dalle citate Sezioni Unite n. 9449/2016. Inoltre, affermavano che, in base a quanto affermato dalle Sezioni Unite, in relazione ai danni provenienti da lastrico solare di proprietà esclusiva, sussisteva una concorrente responsabilità per la mancata manutenzione del Condominio e del proprietario. Pertanto, l’omissione di atti conservativi integrava una violazione per il Condominio per mancata conservazione delle parti comuni (nel caso il lastrico solare fungesse da copertura per l’edificio) e del Condomino ai sensi dell’art. 2051 c.c., in quanto unico soggetto custode del bene e con una cognizione diretta del suo stato di conservazione.

Per tali motivi la Corte di Cassazione accoglieva il ricorso, cassava la sentenza impugnata con rinvio.

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Nonna uccisa in un sinistro:la nipote va risarcita senza dover provare un legame “speciale”

Nonna uccisa in un sinistro:la nipote va risarcita senza dover provare un legame “speciale”

Per ottenere il risarcimento iure proprio del danno non patrimoniale, il nipote deve fornire la prova di un rapporto di reciproco affetto e solidarietà con la defunta e non di un rapporto eccedente la fisiologica intensità delle relazioni con la nonna o un rapporto di convivenza con la stessa, che potranno invece rilevare in sede di quantificazione del danno. Questo è quanto stabilito dalla Corte di Cassazione, sez. III Civile, ordinanza n. 5258/2021, depositata il 25 febbraio.

Il caso. La Corte d’Appello distrettuale, confermando la pronuncia di primo grado, non riconosceva il danno non patrimoniale sofferto iure proprio dalla nipote a seguito dell’uccisione della nonna in un sinistro stradale; per i giudici di seconde cure l’esistenza di un rapporto costante di affetto e la frequentazione nei fine settimana non erano sufficienti, era necessaria la prova di un legame più forte, eccedente l’intensità fisiologica dei rapporti con l’ascendente.

Avverso tale sentenza la nipote proponeva ricorso per cassazione lamentando che il giudice di merito, pur avendo accertato che la nonna era partecipe della sua vita, che vi era frequentazione durante le riunioni familiari, nonché la cura della nipote durante i primi tre anni di vita della medesima e poi durante i fine settimana, non aveva riconosciuto il danno non patrimoniale, esigendo la prova di un legame eccedente la normale relazione affettiva fra vittima e superstite, laddove invece, in assenza di convivenza, ciò che doveva essere provata era l’esistenza di rapporti costanti di reciproco affetto e di solidarietà con il familiare defunto. Secondo gli Ermellini “In tema di domanda di risarcimento del danno non patrimoniale “da uccisione”, proposta “iure proprio” dai congiunti dell’ucciso, questi ultimi devono provare l’effettività e la consistenza della relazione parentale, rispetto alla quale il rapporto di convivenza non assurge a connotato minimo di esistenza, ma può costituire elemento probatorio utile a dimostrarne l’ampiezza e la profondità, e ciò anche ove l’azione sia proposta dal nipote per la perdita del nonno; infatti, poiché la “società naturale”, cui fa riferimento l’art. 29 Cost., non è limitata alla cd. “famiglia nucleare”, il rapporto tra nonni e nipoti, per essere ritenuto giuridicamente qualificato e rilevante, non può essere ancorato alla convivenza, escludendo automaticamente, in caso di insussistenza della stessa, la possibilità per tali congiunti di provare l’esistenza di rapporti costanti di reciproco affetto e solidarietà con il familiare defunto (Cass. n. 7743 del 2020, n. 29332 del 2017 e n. 21230 del 2016)”. La Suprema Corte censurava i Giudici di merito per avere confuso i criteri relativi al quantum con quello che presiedeva invece all’an debeatur. Il diritto al risarcimento per la lesione del rapporto parentale prevedeva infatti che fosse fornita la prova di “rapporti costanti di reciproco affetto e solidarietà con il familiare defunto”, che dalla motivazione della sentenza di merito risultavano accertati e che costituivano il presupposto di fatto del danno risarcibile. L’esistenza invece di un legame eccedente l’ordinario rapporto di affetto, di cui la Corte d’Appello non aveva ritenuto essere stata fornita la prova, avrebbe potuto incidere non sull’an bensì sul quantum e, quindi, sulla liquidazione del danno, così come l’eventuale rapporto di convivenza.

Per tali motivi la Corte di Cassazione cassava la sentenza e rinviava alla Corte di Appello competente.

Avvocato Anna Maria Cupolillo Staff Giuridico Avvocato Express

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