Ai fini dell’accertamento del tenore di vita familiare funzionale alla quantificazione dell’assegno di mantenimento in favore di moglie e figli in sede di separazione, rilevano anche i redditi sottratti al fisco e goduti dalla famiglia. Si attribuisce al giudice il potere ufficioso di disporre accertamenti patrimoniali allo scopo di fare emergere nel processo consistenze economiche non palesate dalle parti, quando, in ragione del loro occultamento, l’ordinaria ripartizione dell’onere della prova renderebbe estremamente difficoltosa, se non impossibile, la loro rivelazione. Questo è quanto stabilito dalla Cassazione civile, sez. I, ordinanza, 19 luglio 2022, n. 22616.
Il caso. Il Giudice di prime cure dichiarava la separazione personale dei coniugi addebitandola al marito, assegnava la casa coniugale alla moglie, quale genitore convivente con il figlio maggiorenne non autosufficiente economicamente, poneva a carico del marito l’obbligo di contribuire al mantenimento del figlio, mediante il versamento alla madre della somma di Euro 1.200,00 mensili, da rivalutarsi annualmente, oltre al pagamento del 100% delle spese straordinarie, stabiliva in favore della moglie un assegno di mantenimento di Euro 1.300,00 mensili, da rivalutarsi annualmente e compensava, in parte, le spese di lite.
Avverso tale sentenza la ricorrente proponeva appello innanzi alla Corte distrettuale, lamentando l’insufficienza della quantificazione degli assegni. Censurava la statuizione nella parte in cui, ai fini della determinazione del tenore di vita familiare e delle effettive condizioni economiche del marito, aveva escluso qualsivoglia rilevanza ai redditi derivanti dall’attività libero professionale del marito asseritaavg vpn crackedmente non dichiarati al fisco. Per questo insisteva sia per l’accoglimento dell’ordine di esibizione, formulata in primo grado, sia sul compimento di accertamenti di polizia tributaria. Si costituiva l’appellato chiedendo il rigetto dell’impugnazione. La Corte d’Appello rigettava l’impugnazione confermando la decisione del Tribunale.
Avverso tale sentenza veniva proposto ricorso per cassazione articolato in due motivi. Con il primo motivo di impugnazione si deduceva la violazione o falsa applicazione di legge per avere la Corte di appello ritenuto che l’eventuale disponibilità di entrate sottratte all’imposizione fiscale, di cui tutto il nucleo familiare aveva in passato beneficiato, non potesse essere presa a parametro di riferimento per determinare l’assegno spettante al coniuge separato e al figlio, mentre avrebbe dovuto considerare che ciò che rilevava era il tenore di vita matrimoniale, a prescindere dal fatto che le disponibilità di cui godeva la famiglia fossero o meno sottratte all’imposizione fiscale. Con il secondo motivo di ricorso si deduceva la violazione o falsa applicazione di legge per avere la Corte di Appello negato indagini di polizia tributaria ed ulteriori approfondimenti istruttori mediante ordini di esibizione ex art. 210 c.p.c., sull’erroneo presupposto che le eventuali entrate sottratte all’imposizione fiscale non potessero costituire parametro di riferimento del tenone di vita familiare. Il controricorrente eccepiva l’inammissibilità dell’avverso ricorso. Il Supremo Collegio esaminava congiuntamente il primo e secondo motivo essendo tra loro strettamente connessi e riteneva entrambi fondati sia pure nei limiti di seguito esposti. La giurisprudenza di legittimità consolidata riteneva che il giudice di merito per quantificare l’assegno di mantenimento spettante al coniuge al quale fosse addebitabile la separazione doveva accertare, quale indispensabile elemento di riferimento, il tenore di vita di cui la coppia avesse goduto durante la convivenza, quale situazione condizionante la qualità e la quantità delle esigenze del richiedente, accertando le disponibilità patrimoniali dell’onerato. Al riguardo, non poteva limitarsi a considerare soltanto il reddito emergente dalla documentazione fiscale prodotta, ma, doveva tenere conto anche degli altri elementi di ordine economico suscettibili di incidere sulle condizioni delle parti quali la disponibilità di un consistente patrimonio, anche mobiliare, e la conduzione di uno stile di vita particolarmente agiato e lussuoso. Anche l’assegno di mantenimento in favore dei figli minori e maggiori di età, ma non autosufficienti economicamente, doveva essere determinato considerando le esigenze del beneficiario in rapporto al tenore di vita goduto durante la convivenza dei genitori, tenendo conto di tutte le risorse a disposizione della famiglia, non potendo i figli di genitori separati essere discriminati rispetto a quelli i cui genitori continuano a vivere insieme. L’art. 5, comma 9, L. 898/1970, stabiliva, altresì, che in caso di contestazioni il Giudice di primo grado disponeva indagini sui redditi e patrimoni dei coniugi e sul loro effettivo tenore di vita, avvalendosi, se del caso, della polizia tributaria. Questa previsione applicabile per il giudizio di divorzio, in via analogica, andava applicata anche ai procedimenti di separazione personale così come prospettato dalla Cass. Civ. S.U. 11 luglio 2018, n. 18297 che aveva riconosciuto all’assegno divorzile la funzione perequativo-compensativa accanto a quella assistenziale. Nel caso in esame, il giudice del gravame aveva in un primo momento ribadito che le eventuali disponibilità di denaro derivanti da attività sottratte al fisco di cui la famiglia avesse goduto non potevano essere considerate ai fini della ricostruzione del tenore di vita familiare, per poi rilevare che comunque al fine della liquidazione degli assegni, non occorreva la precisa quantificazione dei redditi delle parti, potendo il giudice desumere argomenti di prova anche dal comportamento processuale delle parti in relazione all’ordine di esibizione non adempiuti o non completamente adempiuti. Sulla base di tali principi riteneva che il giudice di primo grado avesse operato la valutazione di tutti gli elementi di prova acquisiti al processo, ritenuti più che idonei a fondare la statuizione sulla misura dei medesimi assegni. Tuttavia, la Suprema Corte riteneva che tali principi non fossero conformi a diritto tenuto conto che anche le entrate sottratte al fisco contribuivano alla ricostruzione del tenore di vita familiare; tali entrate, ove esistenti, dovevano essere accertate anche facendo ricorso a presunzioni e argomenti di prova, il giudice quindi non aveva adottato l’ordine di esibizione richiesto e non aveva potuto valutare il contegno processuale in ordine allo stesso. Ne conseguiva che non risultava conforme a diritto la statuizione di rigetto di richiesta di indagini di polizia tributaria. Gli Ermellini precisavano che l’art. 5, comma 9, L. 898/1970, non poteva essere letto nel senso che il potere del giudice di disporre indagini di polizia tributaria dovesse essere considerato come un dovere imposto dalla mera contestazione delle parti in ordine alle rispettive condizioni economiche e la relativa istanza e la contestazione dei fatti incidenti sulla posizione reddituale del coniuge dovevano basarsi su fatti specifici e circostanziati. Il Supremo Collegio aveva più volte affermato che il diniego delle indagini non era sindacabile purché fosse correlabile, anche per implicito, ad una valutazione di superfluità dell’iniziativa e di sufficienza dei dati istruttoria acquisiti. Era tuttavia evidente che tale valutazione doveva fondarsi su corretti presupposti giuridici tra cui quelli inerenti alla individuazione degli elementi che rilevavano ai fini della decisione. Nel caso de quo, la Suprema Corte riteneva che non potevano ritenersi superflue ai fini della ricostruzione del tenore di vita familiare le eventuali entrate occultate al fisco. Il giudice dell’appello non avrebbe dovuto valutare la sufficienza o meno delle prove già acquisite, nella non corretta ottica della irrilevanza di possibili redditi nascosti al fisco, ma verificare se gli elementi addotti dalla ricorrente in ordine all’incompletezza e alla inattendibilità delle risultanze relative alle consistenze economiche del marito, fossero così specifiche e circostanziate da giustificare la ricerca di ulteriori informazioni rispetto a quelle già acquisite, facendo ricorso alla polizia tributaria. Solo una volta acquisite tali informazioni, il medesimo giudice avrebbe, poi, potuto valutare se le medesime fossero in grado di rappresentare un tenore di vita migliore di quello già acquisito al processo e, dunque, di giustificare un aumento degli assegni di mantenimento oppure no.
Per tali motivi la Corte di Cassazione accoglieva il ricorso, cassava la sentenza impugnata e rinviava la causa, anche per quanto riguardava le spese del presente grado di giudizio, alla Corte di appello competente in diversa composizione.
Avvocato Anna Maria Cupolillo Staff Giuridico Avvocato Express
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