CPer i tubi d’acqua e loro diramazioni deve osservarsi la distanza dal confine di almeno un metro, si fonda su una presunzione assoluta di dannosità per infiltrazioni o trasudamenti che non ammette prova contraria. Questo vale anche per i canali di gronda e i pluviali discendenti dal tetto. Questo è quanto stabilito dalla Corte di Cassazione, sez. II Civile, sentenza n. 14273/2019, depositata il 24 maggio.

Il caso. Due comproprietari di un fabbricato evocavano in giudizio, innanzi il Tribunale, i proprietari di un terreno confinante per sentirli condannare all’abbattimento del timpano eseguito in sopraelevazione del fabbricato confinante, all’arretramento dello sporto di gronda e al ripristino dello stato precedente del terreno, nonché al risarcimento del danno, sul presupposto che tutte le opere denunciate fossero state eseguite in violazione delle norme in tema di distanza dai confini e tra i fabbricati. Si costituivano i convenuti resistendo alla domanda e sostenendo la liceità di quanto da loro realizzato in conformità ai titoli autorizzatori ottenuti dal Comune. Il Tribunale respingeva tutte le domande condannando gli attori alle spese del grado.

Avverso tale sentenza gli attori interponevano appello.  La Corte di Appello territoriale accoglieva in parte il gravame condannando uno degli appellati a convogliare le acque meteoriche provenienti dal tetto dello stabile di sua proprietà in conformità al regolamento di igiene della Regione di appartenenza, nonché respingeva gli altri motivi di appello compensando le spese del grado.

Avverso tale sentenza le parti soccombenti proponevano ricorso per cassazione. Con la prima censura, contenuta alla lettera “B” del primo motivo, i ricorrenti lamentavano la violazione e falsa applicazione dell’art. 873 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3 perché la Corte di Appello aveva errato nel ritenere che la realizzazione del timpano sul tetto dello stabile della società resistente non costituiva nuova costruzione, posto che la C.T.U. aveva accertato che l’opera era alta cm.257 e che qualsiasi opera non completamente interrata aventi requisiti di stabilità, indipendentemente dalla sua utilizzabilità a fini abitativi e dalla sua altezza, andava ritenuta “nuova costruzione” e come tale andava assoggettata alle prescrizioni di cui all’art. 873 c.c.. Il motivo veniva ritenuto fondato. In proposito, la Suprema Corte ribadiva il principio secondo cui “La sopraelevazione, anche se di ridotte dimensioni, comporta sempre un aumento della volumetria e della superficie di ingombro e va, pertanto, considerata a tutti gli effetti, e, quindi, anche per la disciplina delle distanze, come nuova costruzione”. Pertanto, la Corte di Appello aveva erroneamente valorizzato il fatto che il nuovo volume derivante dalla sopraelevazione oggetto di causa non possedesse i requisiti di abitabilità ed accessibilità, senza considerare che “… rientra nel concetto di nuova costruzione qualsiasi modifica della volumetria di un fabbricato preesistente che comporti l’aumento della sagoma d’ingombro, in guisa da incidere direttamente sulla situazione di distanza tra edifici, indipendentemente dalla sua utilizzabilità ai fini abitativi”. Con la seconda parte del primo motivo, identificata dalla lettera “C”, i ricorrenti lamentavano un ulteriore profilo di violazione e falsa applicazione art. 873 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3 perché la Corte di Appello avrebbe dovuto applicare la norma sulle distanze anche alla gronda, che era stata prolungata in conseguenza della modifica del tetto e posta, nella parte nuova, a distanza dal confine, inferiore a quella legale. Con il secondo motivo, i ricorrenti lamentavano la violazione e falsa applicazione art. 889 c.c., comma 2 in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3 perché la Corte di Appello avrebbe dovuto considerare che anche lo sporto di gronda era stato prolungato per effetto della modifica realizzata al tetto dello stabile della società controricorrente e posto a soli 28 cm dal confine tra i lotti, in violazione della distanza minima di un metro imposta dall’art. 889 c.c.. Le due censure, venivano trattate congiuntamente in quanto ambedue relative alla distanza dal confine dei canali di scarico delle acque piovane dell’edificio della società controricorrente, e venivano ritenute fondate, seppur limitatamente. Gli Ermellini ribadivano il principio secondo cui “In tema di distanze per impianti dal fondo contiguo la disposizione dell’art. 889 c.c., comma 2, secondo cui per i tubi d’acqua pura o lurida e loro diramazioni deve osservarsi la distanza dal confine di almeno un metro, si fonda su una presunzione assoluta di dannosità per infiltrazioni o trasudamenti che non ammette la prova contraria”. Proprio in virtù della ritenuta presunzione assoluta di dannosità, con i precedenti appena richiamati, la Corte di legittimità sanciva la completa equiparazione dei canali di gronda e dei pluviali discendenti dal tetto dello stabile alle colonne di scarico. Di conseguenza, la Corte di Appello aveva erroneamente escluso dall’ambito di applicazione dell’art. 889 c.c. il canale di gronda e i pluviali di scarico realizzati dalla società controricorrente in diretta conseguenza dell’intervento di sopraelevazione e di modifica della sagoma del tetto dell’edificio di cui era causa.

Per tali motivi la Corte di Cassazione accoglieva il ricorso, cassava la sentenza impugnata e rinviava la causa, anche per le spese del presente giudizio di Cassazione, ad altra sezione della Corte di Appello territoriale.

Avv. Anna Maria Cupolillo Staff Giuridico Avvocato Express

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