E’ colpevole di diffamazione aggravata il cittadino che si sfoga su Facebook accusando innanzitutto il vicesindaco del suo paese di avere intascato i soldi provenienti dal gettito fiscale a carico della comunità. Impossibile parlare di critica eccessiva. Questo è quanto stabilito dalla Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza n. 628/2020, depositata il 10 gennaio.
Il caso. Un cittadino condivideva su FacebooK alcuni messaggi con cui venivano posti sotto accusa il vicesindaco e i componenti della giunta comunale. A loro veniva rivolto l’epiteto di “imbroglioni”, poiché, secondo l’autore degli scritti, avevano «intascato il denaro oggetto di ‘prelievo forzoso’ a carico dei cittadini». Per il vicesindaco era evidente che lo scritto presente on line era offensivo.
Dello stesso avviso erano sia i Giudici di primo grado che quelli di secondo grado che ritenevano il cittadino colpevole del reato di diffamazione aggravata, in quanto veniva ritenuto inequivocabile il contenuto delle frasi postate su Facebook, cioè «l’insinuazione» che l’amministratore comunale avesse intascato «le somme oggetto di prelievo fiscale» a carico della comunità del paese.
Avverso tale sentenza l’imputato proponeva ricorso per cassazione con tre motivi di doglianza. Il primo motiva veniva ritenuto infondato poiché la Corte territoriale aveva ritenuto che il contenuto dei messaggi “postati” dall’imputato avesse rivelato la volontà di muovere non tanto un’aspra critica all’operato degli amministratori comunali, bensì quella di accusarli di essersi appropriati di danaro pubblico, insinuando che gli stessi si fossero “intascati” risorse provenienti dal prelievo fiscale. In tal senso la sentenza aveva, dunque, escluso la stessa configurabilità dell’esimente di cui all’art. 51 c.p., sostanzialmente negando la sussistenza della veridicità del fatto posto alla base dell’invocato esercizio del diritto di critica. Tali conclusioni non apparivano censurabili trovando effettivo riscontro nel tenore testuale dei messaggi incriminati, che non contenevano alcun esplicito od implicito riferimento al significato che invece gli avesse attribuito il ricorrente, le cui obiezioni sul punto risultavano, dunque, meramente congetturali e comunque versate in fatto. Quanto al dolo del reato, trattasi di profilo in riferimento al quale non erano stati esplicitati in maniera specifica con i motivi d’appello le ragioni in fatto e in diritto a sostegno dell’affermata sua insussistenza. Quanto alle doglianze proposte con il secondo motivo, gli Ermellini evidenziavano che, non solo in maniera del tutto generica era stata prospettata nel giudizio d’appello la ricorrenza della causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis c.p., ma che altrettanto generiche risultavano le censure svolte in proposito con il ricorso. Il ricorrente, infatti, non aveva tenuto conto di come la Corte avesse implicitamente escluso la particolare tenuità del fatto laddove aveva motivatamente valutato la sua intrinseca gravità sottolineando la natura al limite del calunnioso delle accuse lanciate dall’imputato, nonché apprezzato negativamente la loro reiterazione. Apparato giustificativo con il quale il ricorso non si era in alcun modo confrontato, mentre in proposito andava ribadito che, con riguardo alla citata esimente, la motivazione poteva risultare anche implicitamente dall’argomentazione con la quale il giudice d’appello avesse considerato gli indici di gravità oggettiva del reato e il grado di colpevolezza dell’imputato. Venivano accolte, invece, le censure svolte con il terzo motivo e, pertanto, cancellato l’obbligo di risarcire il vicesindaco perché ritenuta tardiva la sua costituzione quale parte civile. Secondo la Suprema Corte, come era stato condivisibilmente evidenziato da una parte della giurisprudenza di legittimità, risultava chiaramente che la costituzione di parte civile doveva avvenire, a pena di decadenza, fino a che non fossero compiuti gli adempimenti relativi alla regolare costituzione delle parti. Era in tale fase, infatti, che bisognava stabilire quali fossero le parti “legittimate” a stare in giudizio. Se ne deduceva che, come affermato dai più recenti arresti del Supremo Collegio, “la costituzione di parte civile deve avvenire, a pena di decadenza, fino a che non siano stati compiuti gli adempimenti relativi alla regolare costituzione delle parti, e non fino al diverso termine coincidente con l’apertura del dibattimento, come ritenuto da entrambi i giudici del merito nel caso di specie”. Doveva, pertanto, escludersi che la costituzione di parte civile potesse avvenire in coincidenza con l’apertura del dibattimento ovvero prima dell’apertura del dibattimento, ma dopo che si fossero esauriti gli adempimenti relativi alla regolare costituzione delle parti.
Per tali motivi la Corte di Cassazione annullava senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente alle statuizioni civili, che revocava e rigettava nel resto il ricorso.
Avv. Anna Maria Cupolillo Staff Giuridico Avvocato Express
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