Contabilizzazione e termoregolazione del calore nei Condomini

Contabilizzazione e termoregolazione del calore nei Condomini

Impianto di riscaldamento e ripartizione spese condominiali

Sono valide le delibere assunte dall’assemblea condominiale che, adeguandosi alle inderogabili disposizioni introdotte dal D. Lgs n. 102/2014, decidano circa la trasformazione dell’impianto termico condominiale e approvino nuove tabelle millesimali di riparto spese di riscaldamento.  Questo è quanto stabilito dal Tribunale di Milano, sez. III Civile, sentenza n. 10703/2018, depositata il 22 ottobre.

Il caso. Due condomini proprietari di due distinte unità immobiliari destinate ad uso magazzino, impugnavano la delibera assunta dall’assemblea condominiale deducendone la nullità, o comunque l’annullabilità, avendo l’assemblea approvato a maggioranza la trasformazione della centrale termica da gasolio a gas metano, deliberando contestualmente nuove tabelle millesimali di riparto spese riscaldamento, con modifica delle carature millesimali determinate dalla tabella allegata al regolamento contrattuale vigente in Condominio.

Il Giudice adito rilevava che nell’esercizio della delega legislativa per l’attuazione della direttiva del Parlamento europeo 2012/27/UE, il Governo aveva emanato il D. Lgs. n. 102/2014, che aveva imposto la contabilizzazione e termoregolazione del calore nei Condomini con impianto di riscaldamento centralizzato e la ripartizione delle spese a consumo.  “La disciplina del D. Lgs. n. 102/2014, assumeva il giudicante,  riveste una finalità pubblicistica ed assurge quindi a norma imperativa vincolante inderogabile, in quanto posta a tutela di un interesse generale e non meramente privatistico. Di conseguenza il nuovo criterio di ripartizione delle spese di riscaldamento ha carattere imperativo e, pertanto, non può essere derogato né da una delibera assembleare né da una norma di natura contrattuale del regolamento di condominio. Pertanto, tutti i regolamenti contrattuali che dispongono diversamente sono, sul punto, contrari a legge”. Nel caso di specie, la decisione assembleare veniva approvata con un numero di voti favorevoli rappresentativi della maggioranza degli intervenuti, e comportava l’adeguamento alle normative emanate in favore del contenimento dei consumi energetici tale per cui era da ritenersi valida.

Per tali motivi, il Giudice rigettava l’impugnazione e condannava gli attori alla rifusione, in favore del convenuto Condominio, delle spese di giudizio.

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L’installazione di un ascensore e la conseguente modifica delle parti comuni

L’installazione di un ascensore e la conseguente modifica delle parti comuni

Può un singolo condomino installare da solo l’ascensore?

L’installazione di un ascensore e la conseguente modifica delle parti comuni non possono essere impediti per una disposizione del regolamento condominiale che subordini l’esecuzione dell’opera stessa all’autorizzazione del Condominio. L’ascensore, infatti, rappresenta un’opera volta a superare le barriere architettoniche e il singolo condomino può assumersi interamente il costo della relativa costruzione poiché siano rispettati i limiti previsti dall’art. 1102 c.c. Questo è quanto stabilito dalla Corte di Cassazione, sez. II Civile, ordinanza n. 31462/18, depositata il 5 dicembre.

Il caso. Due condomini, a loro spese, procedevano alla realizzazione di un innovativo ascensore nel vano condominiale. Il resto dei condomini, però, non gradendo tale realizzazione convenivano in giudizio i due committenti chiedendo di dichiararsi l’illegittimità dell’installazione dell’ascensore e che quest’ultimi fossero condannati alla riduzione in ripristino dello stato dei luoghi ed al risarcimento dei danni. L’adito Tribunale rigettava le domande attoree.

Avverso la sentenza di primo grado, i condomini soccombenti interponevano appello. La Corte d’Appello territoriale confermava la pronuncia di primo grado e, in particolare, rilevava che avendo i convenuti assunto a loro carico le spese di realizzazione dell’ascensore, costituiva un loro diritto ex art. 1102 c.c. procedere alla collocazione dell’impianto poiché l’elevatore, oltre a colmare le previsioni ex l. n. 13/1989 (Disposizioni per favorire il superamento e l’eliminazione delle barriere architettoniche negli edifici privati), non inficiava l’utilizzo che la collettività condominiale poteva fare delle altre parti comuni dell’edificio (come ad esempio il varco utile per il passaggio di persone o vetture).

Avverso tale sentenza, i condomini soccombenti proponevano ricorso per cassazione sulla base di un solo motivo col quale deducevano la violazione e la falsa applicazione degli artt. 907 e 1102 c. c., 3 della L. n. 13/1989 e 116 c.p.c., l’erronea valutazione delle risultanze processuali e la motivazione omessa, non idonea e contraddittoria circa un fatto controverso e decisivo, per avere la Corte di Appello inquadrato la fattispecie nell’ambito dell’art. 1102 c.c., anziché delle innovazioni vietate ex art. 1120 c.c.. Gli Ermellini ritenevano il motivo inammissibile e, comunque, manifestamente infondato, in quanto “l’installazione di un ascensore, al fine dell’eliminazione delle barriere architettoniche, realizzata da un condomino su parte di un bene comune, deve considerarsi indispensabile ai fini dell’accessibilità dell’edificio e della reale abitabilità dell’appartamento, e rientra, pertanto, nei poteri spettanti ai singoli condomini ai sensi dell’art. 1102 cod. civ. (Sez. 2, Sentenza n. 14096 del 03/08/2012; conf. Sez. 2, Sentenza n. 10852 del 16/05/2014). Trattasi di principio che è stato anche di recente ribadito dalla giurisprudenza di questa Corte che (cfr. Cass. n. 7938/2017) ha confermato la regola secondo cui in tema di eliminazione delle barriere architettoniche, la I. n. 13 del 1989 costituisce espressione di un principio di solidarietà sociale e persegue finalità di carattere pubblicistico volte a favorire, nell’interesse generale, l’accessibilità agli edifici, sicché la sopraelevazione del preesistente impianto di ascensore ed il conseguente ampliamento della scala padronale non possono essere esclusi per una disposizione del regolamento condominiale che subordini l’esecuzione dell’opera all’autorizzazione del condominio, dovendo tributarsi ad una norma siffatta valore recessivo rispetto al compimento di lavori indispensabili per un’effettiva abitabilità dell’immobile, rendendosi, a tal fine, necessario solo verificare il rispetto dei limiti previsti dall’art. 1102 c.c., da intendersi, peraltro, alla luce del principio di solidarietà condominiale”. Altresì, ribadivano il principio secondo il quale l’installazione di un ascensore su un’area comune, con scopo di eliminare delle barriere architettoniche, “costituisce un’innovazione che, ex art. 2, commi 1 e 2, della l. n. 13 del 1989, va approvata dall’assemblea con la maggioranza prescritta dall’art. 1136, commi 2 e 3, c.c., ovvero, in caso di deliberazione contraria o omessa nel termine di tre mesi dalla richiesta scritta, che può essere installata, a proprie spese, dal portatore di handicap, con l’osservanza dei limiti previsti dagli artt. 1120 e 1121 c.c., secondo quando prescritto dal comma 3 del citato art. 2”. Pertanto, la verifica della sussistenza di tali requisiti “deve tenere conto del principio di solidarietà condominiale, che implica il contemperamento di vari interessi, tra i quali deve includersi anche quello delle persone disabili all’eliminazione delle barriere architettoniche, trattandosi di un diritto fondamentale che prescinde dall’effettiva utilizzazione, da parte di costoro, degli edifici interessati e che conferisce comunque legittimità all’intervento innovativo, purché lo stesso sia idoneo, anche se non ad eliminare del tutto, quantomeno ad attenuare sensibilmente le condizioni di disagio nella fruizione del bene primario dell’abitazione”.

Per tali motivi, la Corte di Cassazione rigettava il ricorso e condannava i ricorrenti, in solido tra loro, al rimborso delle spese del giudizio di legittimità in favore dei controricorrenti.

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Perdita di valore della quota sociale ed esperibilità dell’azione

Perdita di valore della quota sociale ed esperibilità dell’azione

D. Quale azione è esperibile dal socio per il danno da perdita di valore della sua quota sociale?

R. Ove il socio agisca in giudizio per ottenere il risarcimento di danni, come la perdita di valore della sua quota di partecipazione sociale, quale riflesso patrimoniale ascrivibile al comportamento colposo dell’amministratore, indipendentemente dalla fondatezza della richiesta, non può formularsi domanda ai sensi dell’art. 2476, comma 6, c.c., poiché tale rimedio è esperibile solo ove sia stata dedotta l’esistenza di un danno direttamente subito e non anche di un danno patrimoniale indiretto. (Tribunale di Roma, sez. Impresa, sentenza n. 20164/18; depositata il 22 ottobre)

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Divisione dell’immobile di comproprietà tra i coniugi

Divisione dell’immobile di comproprietà tra i coniugi

D. In sede di divisione dell’immobile di comproprietà tra i coniugi si deve tener conto dell’assegnazione per stabilire il valore della casa coniugale?

R. Se la comunione sulla casa coniugale viene sciolta mediante attribuzione della quota al coniuge già assegnatario, dalla stima dell’immobile ai fini di determinare il valore di mercato del bene, non va detratto il valore dell’assegnazione.  (Corte di Cassazione, sez. II Civile, ordinanza n. 33069/18; depositata il 20 dicembre)

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Strattonamento in ufficio e licenziamento

Strattonamento in ufficio e licenziamento

Strattona una collega: è legittimo il licenziamento?

Il comportamento violento posto in essere nei confronti di un collega di lavoro, di rilevanza anche penale, costituisce indubbiamente una grave violazione degli obblighi discendenti dal contratto di lavoro. Tuttavia considerando l’occasionante del comportamento, il contesto in cui andava ad  inserirsi la condotta e l’assenza di conseguenze sul piano lavorativo, va esclusa la giusta causa del recesso ma il rapporto di lavoro va dichiarato risolto e riconosciuta al lavoratore un’indennità risarcitoria. Questo è quanto stabilito dalla Corte di Cassazione, sez. lavoro, sentenza n. 33027/2018, depositata il 20 dicembre.

Il caso. Un lavoratore aggrediva una collega, spingendola, strattonandola e cercando di convincerla a uscire dall’ufficio. Tale condotta veniva sanzionata dall’azienda con il licenziamento. Il lavoratore, pertanto, impugnava il licenziamento innanzi al Tribunale competente che ne dichiarava l’illegittimità e, in applicazione della tutela ex art. 18, comma 4, della legge nr. 300 del 1970, ratione temporis applicabile, condannava il datore di lavoro a reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro ed al pagamento dell’indennità risarcitoria, pari alla retribuzione globale di fatto maturata dal licenziamento alla reintegra e comunque in misura non superiore a 12 mensilità, oltre accessori e versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali.

La Corte di Appello territoriale, pronunciando sul reclamo, proposto dal datore di lavoro, ai sensi dell’art. 1 comma 58 della legge nr. 92 del 2012, applicava, invece, la tutela ex art. 18, comma 5, della legge nr. 300 del 1970, ponendo le spese del doppio grado di giudizio in danno della parte reclamata. Altresì, osservava come i fatti contestati, sussistenti nella loro materialità, rivestissero rilievo disciplinare apprezzabile; rispetto agli stessi, tuttavia, la sanzione del licenziamento era sproporzionata. Nel caso di specie, il lavoratore aveva violato il codice etico della società e, sostanzialmente, le regole del vivere civile: aveva spinto una collega, fino a strattonarle la maglia, per convincerla ad uscire dall’ufficio; il gesto assumeva il carattere odioso dell’intimidazione psicologica, anche in ragione dei difficili rapporti sussistenti da tempo tra i due. La sanzione, però, non era proporzionata alla gravità, in concreto, del fatto: si trattava di un episodio occasionale, generato anche dall’atteggiamento della vittima che prima aveva chiesto un aiuto e poi lo aveva rifiutato; la vicenda era rimasta priva di conseguenze sul piano lavorativo.

Avverso  la sentenza di secondo grado il lavoratore propone ricorso per cassazione. Gli Ermellini ritenevano che, sempre secondo costante giurisprudenza, “il giudice deve tener conto di tutti i connotati oggetti e soggettivi del fatto, vale a dire del danno arrecato, dell’intensità del dolo o del grado della colpa, dei precedenti disciplinari nonché di ogni altra circostanza tale da incidere in concreto sulla valutazione del livello di lesione del rapporto fiduciario tra le parti”. A tali insegnamenti si era attenuta la Corte di merito. La sentenza impugnata aveva, in primo luogo, accertato la sussistenza del fatto contestato ovvero che il lavoratore, al diniego di una collega di consegnargli alcune pratiche, tentava di prendere con forza i documenti, alzava il tono di voce, afferrava per un braccio la collega «tirandole il maglione», allo scopo di portarla fuori dall’ufficio. I giudici di merito avevano correttamente ritenuto che detta condotta rappresentasse fatto di rilievo disciplinare, astrattamente inquadrabile nella nozione di giusta causa: il comportamento violento posto in essere nei confronti di un collega di lavoro, di rilevanza anche penale, costituisce indubbiamente una grave violazione degli obblighi discendenti dal contratto di lavoro. La Suprema Corte continuava affermando che “il successivo giudizio, ovvero quello avente ad oggetto la verifica, in concreto, della gravità della condotta, si è concluso, invece, con esito negativo: la Corte di merito, avuto riguardo all’occasionante del comportamento (il lavoratore non aveva precedenti disciplinari), al contesto in cui andava ad inserirsi la condotta (la collega dapprima aveva chiesto il suo aiuto e poi lo aveva rifiutato solo perché non era stato da subito disponibile), all’assenza di conseguenze sul piano lavorativo, ha escluso la giusta casa del recesso”. La doglianza del ricorrente riguardava, nello specifico, l’omessa attività valutativa e sussuntiva del giudice con riferimento alle previsioni contenute nel codice disciplinare del contratto collettivo che avrebbero stabilito, secondo la sua tesi, per la condotta come accertata, la sanzione conservativa. Il profilo della sussunzione della condotta tra le ipotesi punite, in sede di codice disciplinare, con sanzione conservativa non era stato specificamente affrontato nella sentenza impugnata che si era limitata a rilevare come, per il licenziamento (dai giudici, infatti, ritenuto spropositato), le parti collettive richiedevano un «grave diverbio litigioso e/o oltraggioso»; nulla si era detto in relazione alla previsione, nel codice disciplinare, di una condotta esattamente corrispondente a quella in concreto accertata. Dunque, secondo i Giudici del Palazzaccio il lavoratore in ufficio, che si era reso autore di «un comportamento violento posto in essere nei confronti di una collega», comportamento che, seppur «occasionale», era «di rilevanza anche penale» e «costituisce indubbiamente una grave violazione degli obblighi discendenti dal contratto di lavoro».

Per tali motivi la Corte di Cassazione riteneva esclusi i presupposti per il licenziamento ma dichiarava risolto il rapporto di lavoro riconoscendo al lavoratore un’indennità risarcitoria.

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Genitorialità della madre non biologica

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D. La genitorialità della madre non biologica deve avere riscontro formale nel certificato di nascita?

R. Dopo aver ripercorso l’evoluzione normativa e giurisprudenziale sul tema, il Tribunale di Genova ordina la rettifica dell’atto di nascita di una minore nata in Italia tramite fecondazione in vitro da una coppia omosessuale.(Tribunale di Genova, sez. IV Civile, sentenza depositata l’8 novembre 2018)

 

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