Affinché sussista una veduta, secondo l’art. 900 c.c.,
è necessaria la coesistenza dei due requisiti dell’inspectio, cioè la
possibilità di godere di una completa visuale frontale sul fondo del vicino e
della prospectio, ovvero la possibilità di affacciarsi e guardare il detto
fondo anche lateralmente ed obliquamente. La contemporanea sussistenza dei
suindicati requisiti, oltre ad essere l’elemento caratterizzante della veduta,
si traduce, sul piano pratico, nella possibilità, per una persona di media
altezza, di avere una visuale agevole, cioè esercitabile in condizioni di
sufficiente comodità e sicurezza e senza l’utilizzo di mezzi artificiali.
Questo è quanto stabilito dalla Corte di Cassazione, sez. II Civile, ordinanza
n. 23952/2020,
depositata il 29 ottobre.
Il caso.I comproprietari di un appartamento agivano nei
confronti della proprietaria dell’immobile confinante, che, nel corso di lavori
di ristrutturazione edilizia, aveva abusivamente mutato la fisionomia di una
finestra, da mera luce in veduta. Gli attori chiedevano, quindi, che la
convenuta fosse condannata ad operare il ripristino della finestra al suo
preesistente stato di luce. Il Giudice di primo grado accoglieva la domanda
attorea e, conseguentemente, condannava la convenuta.
Avverso tale sentenza la convenuta soccombente
interponeva appello. La sentenza di primo grado veniva completamente riformata
sul presupposto che l’elemento distintivo fra la veduta e la semplice luce
sarebbe la possibilità di avere, attraverso l’apertura, una visuale agevole sul
fondo del vicino, mentre la possibilità di affacciarsi non sarebbe, invece, un
elemento determinante, ai fini della detta distinzione.
Avverso tale pronuncia gli appellati proponevano
ricorso per cassazione. In particolare lamentavano la violazione dell’art. 900
c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, e censuravano la sentenza
impugnata nella parte in cui la Corte d’Appello aveva ritenuto che l’elemento
che caratterizzava la veduta rispetto alla luce era la possibilità di avere,
attraverso di essa, una visuale agevole, cioè senza l’utilizzo di mezzi
artificiali, sul fondo del vicino, mentre la possibilità di affacciarsi era
prevista dall’art. 900 c.c. in aggiunta a quella di guardare, sicché, in date
condizioni, la mancanza di quest’ultimo requisito non escludeva la
configurabilità della veduta quando, attraverso l’apertura, fosse comunque
possibile la completa visuale sul fondo del vicino mediante la semplice
inspectio, e che, in forza di tale principio, l’apertura in questione, poiché
consentiva dal fondo dominate cui ineriva un’ampia visione del fondo servente
sul quale si affacciava, doveva essere configurata come una veduta e non come
una mera luce. Secondo i ricorrenti, la Corte d’Appello così facendo aveva
violato, però, il principio per cui la sussistenza della veduta richiede non
soltanto la inspectio ma anche la prospectio, e cioè l’affaccio, che consisteva
nella agevole possibilità, in condizioni di sicurezza, di sporgere il capo
oltre l’apertura e di guardare non solo di fronte ma anche obliquamente e
lateralmente nel fondo del vicino. Secondo gli Ermellini, il Supremo
Collegio aveva ripetutamente affermato
il principio per cui, “affinché sussista una veduta, a norma dell’art. 900
c.c., è necessario, oltre al requisito della inspectio, anche quello della
prospectio sul fondo del vicino, dovendo detta apertura non soltanto consentire
di vedere e guardare frontalmente ma anche di affacciarsi, vale a dire di
guardare non solo di fronte ma anche obliquamente e lateralmente, così
assoggettando il fondo alieno ad una visione mobile e globale (Cass. n. 8009
del 2012; conf., Cass. SU 10615 del 1996; Cass. n. 15371 del 2000; Cass. n. 480
del 2002; Cass. n. 22844 del 2006). L’elemento caratterizzante la veduta,
infatti, è la possibilità di avere, attraverso di essa, una visuale agevole,
cioè senza l’utilizzo di mezzi artificiali e affinché ciò avvenga, a norma
dell’art. 900 c.c., è necessario, oltre al requisito della inspectio, anche
quello della prospectio nel fondo del vicino, dovendo detta apertura non solo consentire
di vedere e guardare frontalmente, ma anche di affacciarsi, vale a dire di
guardare non solo di fronte, ma anche obliquamente e lateralmente, in modo che
il fondo alieno risulti soggetto, senza ricorrere all’impiego di mezzi
artificiali, ad una visione mobile e globale (Cass. n. 11319 del 2018, in
motiv.; Cass. n. 346 del 2017, la quale, proprio in forza di tale principio, ha
escluso che possa avere carattere di veduta un’apertura munita di una struttura
metallica, incorporata nel muro di confine)”.
Per tali motivi la Corte di Cassazione accoglieva il
ricorso e cassava, con rinvio, la sentenza impugnata per un nuovo esame.
Avv. Anna Maria Cupolillo Staff Giuridico Avvocato Express
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Il singolo condomino non può vantare alcun diritto di proprietà esclusiva
in virtù di un precedente testamento sul vano sottoscala il quale, per effetto
del nuovo assetto immobiliare post-ricostruzione intervenuto dopo la formazione
del testamento e prima della morte del de cuius, sia venuto a ricomprendersi
nelle parti comuni ex art. 1117 c.c.. Questo è quanto stabilito dalla Corte di
Cassazione, sez. II Civile, ordinanza n. 23119/2020, depositata il 22 ottobre.
Il caso. Un condomino conveniva in giudizio dinanzi al
Tribunale competente una condomina lamentando l’occupazione,
da parte della stessa, del vano scala condominiale ubicato al piano
terra. Chiedeva, pertanto, che l’androne
scala del fabbricato fosse dichiarato comune a tutti i proprietari degli
immobili a cui garantiva l’accesso in ragione dei millesimi di proprietà a
ciascuno imputabili, con condanna della citata convenuta all’eliminazione della
pavimentazione installata, del tubo in ferro infisso nel pavimento e di tutto
quanto allocato nelle scale condominiali. La domanda veniva respinta dal Giudice di prime cure.
Avverso tale sentenza il condominio interponeva appello. La Corte
d’appello distrettuale accoglieva il gravame e, per l’effetto, dichiarava che
l’androne scala del fabbricato in questione aveva natura condominiale e, di
conseguenza, condannava l’appellata ad eliminare le opere eseguite nel relativo
spazio, oltre che al pagamento delle spese del doppio grado di giudizio. A
fondamento dell’adottata decisione, i giudici di secondo grado, premessa la
qualificazione della formulata domanda come domanda di rivendicazione ed
individuata la porzione immobiliare oggetto di controversia, ritenevano che in
virtù della documentazione prodotta era emersa la natura condominiale del
controverso androne e che l’appellata non poteva vantare alcun diritto di
esclusiva proprietà sullo stesso per effetto del testamento, poiché la relativa
disposizione “mortis causa” relativa allo stanzino in discorso doveva
considerarsi inefficace ai sensi dell’art. 654 c.c., siccome aveva ad oggetto
una bene inesistente nell’asse ereditario al tempo del decesso del testatore.
Avverso tale sentenza, la soccombente
proponeva ricorso per cassazione. La
ricorrente sosteneva che la corte d’appello avesse erroneamente applicato
l’art. 654 c.c. in una situazione in cui non si versava in tema di legato ma di
istituzione di erede. La temporanea inesistenza del bene, perché in costruzione
al momento dell’atto, non avrebbe dunque potuto comportare l’inefficacia della
disposizione testamentaria. Gli Ermellini, pur rilevando la formale errata applicazione
della norma, ritenevano infondata la censura. La sentenza impugnata aveva,
infatti, appurato che lo stanzino non avrebbe potuto ritenersi ricompreso tra i
beni di proprietà del de cuius e, quindi, oggetto di istituzione
ereditaria. Infatti il vano, anche se esistente all’atto del testamento, non lo
era più all’apertura della successione testamentaria per effetto della
sopravvenuta ricostruzione dell’intero immobile che non prevedeva più il vano
ripostiglio sottoscala conformemente al progetto approvato da tutti i
comproprietari. In conclusione, la ricorrente non avrebbe potuto (come affermato
dalla Corte territoriale seppur in applicazione erronea dell’art. 654 c.c.)
vantare alcun diritto di proprietà esclusiva in virtù del testamento sul vano
sottoscala il quale, per effetto del nuovo assetto immobiliare
post-ricostruzione intervenuto dopo la formazione del testamento e prima della
morte del de cuius, era venuto a ricomprendersi nelle parti comuni ex
art. 1117 c.c..
Per questi motivi, la Corte di Cassazione rigettava il ricorso.
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R. L’art. 2087 c.c. non configura un’ipotesi di responsabilità oggettiva, in quanto la responsabilità del datore di lavoro – di natura contrattuale – va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento; ne consegue che incombe al lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell’attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l’onere di provare, oltre all’esistenza di tale danno, la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l’una e l’altra, e solo se il lavoratore abbia fornito tale prova sussiste per il datore di lavoro l’onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno.
(Corte di Cassazione, sez. Lavoro, ordinanza n. 23921/20; depositata il 29 ottobre)
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Definitiva la sanzione irrogata dall’Agenzia delle Entrate a un’attività commerciale. Respinte le obiezioni proposte dal titolare. I Giudici osservano che la norma non contempla affatto, tra i presupposti della sanzione accessoria, la definitività dell’accertamento dell’obbligo di emettere la ricevuta fiscale o lo scontrino fiscale, e viene sanzionata la condotta illecita (rappresentata dalla quadrupla infrazione infraquinquennale) a prescindere dalle modalità con le quali poi la stessa è stata contestata.
Corte di Cassazione, sez. Tributaria, ordinanza n. 23700/20; depositata il 28 ottobre)
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R. Il Regolamento disciplinante i procedimenti relativi all’accesso civico, all’accesso civico generalizzato ai dati e ai documenti detenuti dall’ANAC e all’accesso ai documenti amministrativi ai sensi della legge 241/1990 del 24/10/18 da un lato afferma il diritto di accesso agli atti amministrativi per fini difensivi etc. e dall’altro lo esclude relativamente alle proposte degli uffici, salvo che non costituiscano motivazione per relationem dell’atto o provvedimento come nel caso in esame.
(TAR Lazio, sez. I, sentenza n. 10818/20; depositata il 23 ottobre)
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