L’accertamento contenuto nella sentenza costituente
titolo esecutivo relativo allo svolgimento all’interno di un immobile di una attività
contraria al regolamento di condominio produce effetti anche nei confronti di
un nuovo e diverso conduttore che ha conseguito la detenzione dell’immobile
solo dopo la formazione del suddetto titolo esecutivo. Questo è quanto stabilito
dalla Corte di Cassazione, sez. VI Civile – 3, ordinanza n. 29131/2020,
depositata il 18 dicembre.
Il caso. Due condomini proponevano
opposizione all’esecuzione, ai sensi dell’art. 615 c.p.c., avverso l’atto di
precetto di pagamento loro intimato da un’altra condomina sulla base di titolo
esecutivo costituito da una sentenza che li aveva condannati al pagamento di
una somma di danaro ai sensi dell’art. 614 bis c.p.c., per ogni giorno di
inosservanza al divieto di svolgimento, in un appartamento di loro proprietà,
di una determinata attività contraria al regolamento di condominio.
L’opposizione veniva rigettata dal giudice di primo grado e tale pronuncia veniva confermato dalla Corte di
Appello distrettuale.
Avverso tale sentenza gli appellanti proponevano
ricorso per cassazione eccependo la violazione dell’art. 2909 c.c., dell’art.
24 Cost., nonché degli artt. 2043 c.c. e 3 e 24, comma 1, Cost., art. 6, comma
1, Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo. La Suprema
Corte evidenziava la manifesta infondatezza e la parziale inammissibilità della
censura mossa dai ricorrenti riguardo al fatto che l’accertamento contenuto nel
titolo esecutivo non aveva valore in relazione all’attività svolta da una nuova
conduttrice dell’immobile, subentrata alla precedente dopo l’emanazione della
sentenza di primo grado. I Giudici di legittimità ritenevano che, come
correttamente osservato dalla Corte di Appello distrettuale, la pronuncia di
cui al titolo esecutivo consistente nella condanna a cessare lo svolgimento
dell’attività ritenuta contraria al regolamento di condominio nell’immobile dei
ricorrenti, era stata emessa anche direttamente nei confronti di questi ultimi,
così come la condanna al pagamento di una somma di denaro per l’eventuale
inosservanza dell’obbligo. Conseguentemente, il titolo aveva efficacia diretta
nei loro confronti, anche nella parte relativa al pagamento della somma di
denaro per l’inosservanza dell’obbligo di non facere, ai sensi dell’art. 614-bis
c.p.c., per il solo fatto che l’attività vietata aveva continuato ad essere
svolto nel loro immobile, e questo indipendentemente del relativo conduttore la
cui la mancata partecipazione al giudizio era irrilevante. Con riguardo all’accertamento
della violazione del divieto sanzionato nel titolo con il pagamento di una
somma di denaro, la censura risultava inammissibile; la Corte condividendo
quanto accertato dalla Corte di Appello, riteneva che l’attività
originariamente svolta dalla prima conduttrice, aveva continuato ad essere
svolta nei locali di proprietà dei ricorrenti anche dalla nuova conduttrice che
aveva di fatto riaperto la medesima attività contraria al regolamento
condominiale. Si trattava di accertamenti
di fatto operati dalla Corte territoriale sulla base della valutazione del
materiale istruttorio acquisito nel corso del giudizio. Ciò
era a dirsi, diversamente da quanto sostenuto dei ricorrenti, anche con
riguardo all’interpretazione dell’effettivo contenuto del titolo esecutivo, in
base al costante indirizzo della Corte di legittimità (che il ricorso non
conteneva argomenti idonei ad indurre a rivedere) per cui
“l’interpretazione del titolo esecutivo compiuta dal giudice
dell’esecuzione o da quello chiamato a sindacarne l’operato nell’ambito delle
opposizioni esecutive, si risolve nell’apprezzamento di un “fatto”,
come tale incensurabile in Cassazione se esente da vizi logici o giuridici,
senza che possa diversamente opinarsi alla luce dei poteri di rilievo officioso
e di diretta interpretazione del giudicato esterno da parte del giudice di
legittimità, atteso che, in sede di esecuzione, il provvedimento passato in
giudicato, pur ponendosi come “giudicato esterno” (in quanto
decisione assunta fuori dal processo esecutivo), non opera come decisione della
controversia, bensì come titolo esecutivo e, pertanto, non va inteso come
momento terminale della funzione cognitiva del giudice, ma come presupposto
fattuale dell’esecuzione, ossia come condizione necessaria e sufficiente per procedere
ad essa” (Cass., Sez. 6-3, Ordinanza n. 15538 del 13/06/2018; nel medesimo
senso: Cass., Sez. 3, Sentenza n. 14727 del 21/11/2001; Sez. 3, Sentenza n.
1114 del 24/01/2003; Sez. 3, Sentenza n. 4382 del 25/03/2003; Sez. 3, Sentenza
n. 7530 del 12/04/2005; Sez. 3, Sentenza n. 19057 del 05/09/2006; Sez. 3, Sentenza
n. 15852 del 06/07/2010; Sez. 3, Sentenza n. 760 del 14/01/2011; Sez. L,
Sentenza n. 13811 del 31/05/2013; Sez. 3, Sentenza n. 26890 del 19/12/2014).
Per
questi motivi la Corte
di Cassazione rigettava il ricorso e condannava i ricorrenti alla rifusione
delle spese di lite in favore della parte contro ricorrente.
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Il tenore di vita analogo a quello
goduto in costanza di matrimonio non può più costituire il parametro al quale
fare riferimento per la determinazione dell’assegno divorzile, dovendo
piuttosto il giudice avere riguardo alla indipendenza economica intesa come
disponibilità di mezzi adeguati tali da consentire una vita dignitosa ed
autosufficiente secondo una valutazione di fatto riservata al giudice di merito.
Questo è quanto stabilito dalla Corte di
Cassazione, sez. Vi Civile, ordinanza n. 28104/2020, depositata il 9 dicembre.
Il caso. Il Tribunale pronunciandosi nel
giudizio di divorzio tra due coniugi stabiliva un assegno divorzile di 300,00
Euro mensili in favore dell’ex moglie.
Avverso tale sentenza il marito interponeva appello e la Corte di Appello
distrettuale respingeva l’appello e confermava la corresponsione dell’assegno
divorzile di 300,00 Euro mensili in favore dell’ex moglie.
Avverso tale sentenza l’ex marito proponeva ricorso per cassazione. In sostanza
il ricorrente lamentava la mancata rivalutazione dell’assegno in relazione alla
comparazione reddituale e all’omessa osservanza dei principi fissati dalla
Corte di Cassazione con la sentenza n. 11504/17. Il giudice di merito aveva,
infatti, determinato in 300,00 euro la somma a favore dell’ex coniuge in
considerazione del tenore di vita goduto dai coniugi in costanza del matrimonio,
durato 28 anni, e alla disparità delle relative condizioni economiche.
Il Supremo Collegio,
richiamava la sentenza a Sezioni Unite n. 18287 del 11/07/2018 con la
quale si stabiliva che “Il riconoscimento dell’assegno di divorzio in
favore dell’ex coniuge, cui deve attribuirsi una funzione assistenziale ed in
pari misura compensativa e perequativa, ai sensi della L. n. 898 del 1970, art.
5, comma 6, richiede l’accertamento dell’inadeguatezza dei mezzi dell’ex
coniuge istante, e dell’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive,
applicandosi i criteri equiordinati di cui alla prima parte della norma, i
quali costituiscono il parametro cui occorre attenersi per decidere sia sulla
attribuzione sia sulla quantificazione dell’assegno. Il giudizio dovrà essere
espresso, in particolare, alla luce di una valutazione comparativa delle
condizioni economico-patrimoniali delle parti, in considerazione del contributo
fornito dal richiedente alla conduzione della vita familiare ed alla formazione
del patrimonio comune, nonché di quello personale di ciascuno degli ex coniugi,
in relazione alla durata del matrimonio ed all’età dell’avente diritto. La
funzione equilibratrice del reddito degli ex coniugi, anch’essa assegnata dal
legislatore all’assegno divorzile, non è finalizzata alla ricostituzione del
tenore di vita endoconiugale, ma al riconoscimento del ruolo e del contributo
fornito dall’ex coniuge economicamente più debole alla formazione del
patrimonio della famiglia e di quello personale degli ex coniugi. Pertanto ai
fini dell’attribuzione e della quantificazione dell’assegno divorzile deve
tenersi conto delle risorse economiche di cui dispone l’ex coniuge più debole e
se tali risorse siano sufficienti ad assicurare una esistenza libera e
dignitosa ed un’adeguata autosufficienza economica, nonostante la sproporzione
delle rispettive posizioni economiche delle parti”. Sulla base di tale contesto
giurisprudenziale, risultava evidente che “il tenore di vita analogo a quello
goduto in costanza di matrimonio non può più costituire il parametro al quale
fare riferimento per la determinazione dell’assegno divorzile, dovendo
piuttosto il giudice avere riguardo alla indipendenza economica intesa come
disponibilità di mezzi adeguati tali da consentire una vita dignitosa ed
autosufficiente secondo una valutazione di fatto riservata al giudice di
merito”. Nel caso de quo, il Giudice di merito non aveva adeguatamente tenuto
conto della situazione reddituale dei due ex coniugi, mancando totalmente una
valutazione della situazione economica delle parti.
Per questi motivi, la Corte di Cassazione accoglieva
il ricorso e cassava la sentenza impugnata con rinvio alla Corte d’Appello
distrettuale.
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In tema di responsabilità da cosa in custodia ex art.
2051 c.c., trattandosi di un criterio di imputazione oggettivo della
responsabilità, l’attore/danneggiato deve dimostrare il nesso eziologico tra la
cosa in custodia ed il danno, mentre sul custode grava l’onere della prova
liberatoria. Questo è quanto stabilito dalla Corte di Cassazione, sez. II,
civile, ordinanza n. 25018/2020, depositata il 9 novembre.
Il caso. La Corte d’Appello distrettuale dichiarava inammissibile l’impugnazione
della pronuncia di prime cure con cui era stata respinta la domanda di
risarcimento del danno da infiltrazioni di acqua e di umido proveniente dalle
parti comuni del Condominio. Secondo i giudici dell’appello non poteva
ritenersi dimostrato il nesso causale tra il danno e la cosa in custodia.
Avverso tale sentenza il condomino proponeva ricorso
per cassazione. Con l’unico motivo di ricorso si denunciava la violazione
dell’art. 2051 c.c. lamentando che la sentenza avesse ritenuto indimostrato il
nesso causale e la provenienza del danno dalle parti comuni dell’edificio,
confondendo la prova del nesso eziologico tra la cosa in custodia e il
pregiudizio lamentato, con la necessità di individuare specificamente anche la causa
del danno stesso, la cui prova competeva al Condominio. Secondo il ricorrente,
la prova del nesso causale era stata comunque raggiunta, poiché il c.t.u. aveva
elaborato una pluralità di ipotesi, ognuna delle quali comprovava la
responsabilità del Condominio (provenienza delle infiltrazioni dal sottosuolo
comune, dalle pareti condominiali o provocate da un innalzamento della falda
acquifera). Secondo il Supremo Collegio “L’art. 2051 c.c., nell’affermare la
responsabilità del custode della cosa per i danni da questa cagionati,
individua un criterio di imputazione che prescinde da qualunque connotato di
colpa, operando sul piano oggettivo dell’accertamento del rapporto causale tra
la cosa e l’evento dannoso (Cass. 2477/2018). Non assume rilievo, a tal fine,
la condotta del custode e l’osservanza degli obblighi di vigilanza: tale
responsabilità è quindi esclusa solo dal caso fortuito, fattore che attiene non
già ad un comportamento del responsabile, ma al profilo causale dell’evento”
(Cass. 15383/2006; Cass. 2563/2007). Si trattava in definitiva di un criterio
di imputazione oggettivo della responsabilità per la cui dimostrazione
l’attore/danneggiato doveva dimostrare il nesso eziologico tra la cosa in
custodia ed il danno, mentre sul custode grava l’onere della prova liberatoria.
Come precisato dalla Corte di legittimità, il criterio di imputazione collegato
al rapporto di custodia reagiva sul rapporto di causalità, nel senso che
“un rapporto causale concepito allo stato puro tende all’infinito. La
responsabilità oggettiva non può essere pura assenza o irrilevanza dei criteri
soggettivi di imputazione, bensì sostituzione di questi con altri di natura
oggettiva, i quali svolgono nei confronti del rapporto di causalità, la
medesima funzione che da sempre è propria dei criteri soggettivi di imputazione
nei fatti illeciti. Tale criterio di imputazione nelle specifiche fattispecie
di responsabilità oggettive è fissato dal legislatore con una qualificazione
del soggetto, su cui viene fatto ricadere il costo del danno” (così,
testualmente, Cass. 15383/2006). In definitiva, la responsabilità ex art. 2051
c.c., postulava la sussistenza di un rapporto di custodia della cosa e una
relazione di fatto tra un soggetto e la cosa stessa, tale da consentire il
potere di controllarla, di eliminare le situazioni di pericolo che fossero
insorte e di escludere i terzi dal contatto con la cosa. Detta norma non
dispensava il danneggiato dall’onere di provare il nesso causale, ossia di
dimostrare che l’evento si era prodotto come conseguenza normale della
particolare condizione, potenzialmente lesiva, posseduta dalla cosa, mentre
restava a carico del custode, offrire la prova contraria alla presunzione iuris
tantum della sua responsabilità, mediante la dimostrazione positiva del caso fortuito,
cioè del fatto estraneo alla sua sfera di custodia, avente un impulso causale
autonomo e carattere di imprevedibilità e di assoluta eccezionalità. Le
ulteriori deduzioni del ricorrente circa il positivo accertamento, ad opera del
c.t.u., della derivazione delle infiltrazioni dalle parti comuni dell’edificio
apparivano inammissibili, poiché l’accertamento del nesso di causalità e della
colpa di un soggetto nella produzione di un evento dannoso si risolveva in un
giudizio di fatto, che si sottraeva al sindacato in sede di legittimità se,
come nella specie, correttamente motivato (Cass. 3939/1996; Cass. 6974/2000).
Per tali motivi, la Corte di Cassazione rigettava il
ricorso e condannava il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
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La realizzazione di un secondo bagno nelle moderne abitazioni di taglio
medio, trattandosi di un’esigenza tanto diffusa da rivestire il carattere
dell’essenzialità, giustifica la mancata applicazione dell’art. 889 c.c. negli
edifici in Condominio.
Questo è quanto stabilito dalla Corte di Cassazione, sez. II Civile,
ordinanza n. 26680/2020, depositata il 24 novembre.
Il caso. Il proprietario di un appartamento sito in uno stabile condominiale
ricorreva innanzi al Tribunale competente al fine di far accertare la
violazione delle distanze dei tubi realizzati dal proprietario
dell’appartamento posto al piano superiore, ai sensi dell’art. 889 c.c.. Il
Tribunale accoglieva la domanda e accertava la violazione delle distanze.
Avverso tale sentenza la parte soccombente interponeva appello e la Corte
d’appello distrettuale dichiarava la
nullità della sentenza di primo grado e, decidendo nel merito, rigettava la
domanda.
Avverso tale sentenza veniva proposto ricorso per cassazione che dichiarava
la nullità del processo d’appello per mancato rispetto dei termini a comparire
nei confronti degli appellati, eredi del proprietario dell’appartamento
sottostante.
Riassunto il giudizio da parte del proprietario dell’appartamento sovrastante,
la Corte d’appello accoglieva il gravame
e, per l’effetto rigettava la domanda proposta. La Corte di merito osservava
che, in relazione alle installazioni dei tubi nei solai che separavano i piani
di un edificio condominiale, doveva applicarsi l’art. 1102 c.c.; accertava,
quindi, che l’uso più intenso del solaio comune intermedio non fosse inidoneo a
pregiudicare l’utilizzo del bene condominiale ed a provocare una particolare
situazione di danno o di pericolo. La corte distrettuale escludeva, inoltre la
violazione dell’art. 889 c.c., in quanto incompatibile con la struttura
dell’edificio e delle esigenze abitative connesse alla creazione di un secondo
bagno, necessario in un’abitazione di taglio medio.
Gli eredi del proprietario dell’appartamento sottostante proponevano ricorso
per cassazione. Ebbene, con riguardo alla dedotta violazione dell’art. 889
c.c., la Corte di Cassazione aveva affermato che “le norme che regolano i
rapporti di vicinato trovano applicazione, rispetto alle singole unità
immobiliari, solo in quanto compatibili con la concreta struttura dell’edificio
e con la natura dei diritti e delle facoltà dei condomini, sicché il giudice
deve accertare se la rigorosa osservanza di dette disposizioni non sia
irragionevole, considerando che la coesistenza di più appartamenti in un unico
edificio implica di per sé il contemperamento dei vari interessi al fine dell’ordinato
svolgersi della convivenza tra i condomini. (Cassazione civile sez. II,
2/02/2016, n. 1989; Cassazione civile sez. II, 28/06/2019, n. 17549)”. In
particolare, per quanto atteneva la realizzazione del secondo bagno, la
disposizione dell’art. 889 c.c., relativa alle distanze da rispettare per
pozzi, cisterne, fossi e tubi era applicabile anche con riguardo agli edifici
in Condominio, salvo che si trattasse di impianti da considerarsi
indispensabili ai fini di una completa e reale utilizzazione dell’immobile,
tale da essere adeguata all’evoluzione delle esigenze generali dei cittadini
nel campo abitativo e alle moderne concezioni in tema di igiene; ne conseguiva
che la creazione o la modifica di un secondo bagno nelle moderne abitazioni di
taglio medio trattandosi di un’esigenza tanto diffusa da rivestire il carattere
dell’essenzialità – giustificava la mancata applicazione dell’art. 889 c.c.
negli edifici in Condominio (Cassazione civile sez. II, 09/06/2009, n. 13313). La
Corte di merito aveva accertato che l’installazione delle tubazioni nel solaio
intermedio – peraltro già attraversato dalle tubazioni a servizio del bagno
preesistente tra i due piani – da parte del proprietario del piano soprastante
rispondesse all’esigenza di dotare di un secondo bagno un appartamento di
taglio medio, costituito da quattro camere e servizi di circa 80 mq., esigenza
di carattere essenziale, indipendentemente dal concreto utilizzo del
proprietario. La realizzazione del secondo bagno non aveva arrecato pregiudizio
nell’utilizzo dei beni comuni da parte degli altri condomini, risolvendosi
l’installazione delle tubature in un uso più intenso del solaio, peraltro
realizzato in adiacenza a quello preesistente.
Per tali motivi la Corte di Cassazione rigettava il ricorso e condannava la
parte ricorrente al pagamento, in favore della parte controricorrente, delle
spese del giudizio di legittimità.
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Laddove i condomini legittimati a partecipare
all’assemblea siano solo due e manchi l’unanimità, essi sono costretti a
ricorrere all’autorità giudiziaria come sostenuto anche dagli artt. 1105 e 1139
c.c.. Il voto di ciascun condomino deve infatti essere conteggiato
singolarmente e non deve essere conteggiato secondo il numero di diritti
vantati sugli immobili dell’edificio. Ciò è quanto stabilito dalla Corte di
Cassazione, sez. II Civile, ordinanza n. 25558/2020, depositata il 12 novembre.
Il caso. Due condomini, comproprietari di una unità immobiliare
facente parte di un Condominio, con ricorso ex art. 1137 c.c., impugnavano
davanti al Tribunale competente la delibera assembleare chiedendone la
declaratoria di nullità e/o annullabilità. In particolare, essi sostenevano il
mancato rispetto da parte del Condominio delle maggioranze previste dal codice
civile per la costituzione e la votazione dell’assemblea e, conseguentemente, ritenevano
invalida la deliberazione. Altri due condomini dello stabile erano una condomina
proprietaria del proprio immobile e usufruttuaria di un secondo e altri due che
erano nudi proprietari dell’appartamento occupato dalla prima citata. Il Tribunale
rigettava il ricorso e, altresì, condannava i ricorrenti alla refusione delle
spese processuali nella forma aggravata di cui all’articolo 96 c.p.c.
Avverso tale sentenza il ricorrenti interponevano
appello domandando, in integrale riforma della sentenza di primo grado,
l’accoglimento della domanda, con restituzione di quanto corrisposto a seguito
della condanna del Tribunale, o in subordine la caducazione della condanna ex
art. 96 c.p.c., comma 3. La Corte d’Appello distrettuale rigettava il gravame,
condannava gli appellanti a pagare le spese di lite ed eliminava solo la
condanna pronunciata ai sensi dell’art. 96 c.p.c., comma 3.
Avverso tale decisione i soccombenti proponevano
ricorso per cassazione. Con l’unico motivo, i ricorrenti lamentavano la
“illegittimità della sentenza impugnata ex art. 360 c.p.c., n. 3, per
violazione e falsa applicazione di norma di diritto, in relazione all’art. 1136
c.c., comma 3 e art. 67 disp. att. c.c., comma 3 (nella formulazione
antecedente alla riforma intervenuta con la L. n. 220 del 2012)”,
relativamente all’erroneo computo della maggioranza “per teste”
prescritta ai fini della approvazione delle delibere condominiali da parte
dell’assemblea in seconda convocazione. Secondo il Supremo Collegio, il
Tribunale prima e la Corte d’Appello poi avevano rigettato l’impugnazione delle
suddette delibere condominiali, erroneamente calcolando come condomini
l’usufruttuaria, i nudi proprietari (ovviamente per una testa) e gli attori
(odierni ricorrenti) ovviamente anch’essi per una testa. In
“alternativa” la Corte distrettuale indicava come l’usufruttuaria per
due teste – in quanto proprietaria di un appartamento e usufruttuaria di un
altro – e i ricorrenti, cosicché sarebbero stati sempre tre i condomini e,
quindi, sarebbe stata rispettata la maggioranza di un terzo dei partecipanti al
condominio. Questa Corte aveva posto i principi secondo i quali, per la
validità delle deliberazioni in materia di Condominio la legge (anteriore alla
novella di cui alla citata L. n. 220 del 2012) richiedeva in ogni caso che esse
fossero prese a maggioranza di voti, per cui intanto una deliberazione diventava
obbligatoria per tutti i condomini, compresi i dissenzienti, in quanto il
numero di coloro che avevano votato a favore, e l’entità degli interessi da
essi rappresentati, superassero il numero dei condomini. Dunque, “In tema di
condominio negli edifici la regola posta dall’art. 1136 c.c., comma 3, secondo
la quale la deliberazione assunta dall’assemblea condominiale in seconda
convocazione è valida se riporta un numero di voti che rappresenti il terzo dei
partecipanti al condominio e almeno un terzo del valore dell’edificio, va
intesa nel senso che, coloro che abbiano votato contro l’approvazione non
devono rappresentare un valore proprietario maggiore rispetto a coloro che
abbiano votato a favore, atteso che l’intero art. 1136 c.c., privilegia il
criterio della maggioranza del valore dell’edificio quale strumento coerente
per soddisfare le esigenze condominiali (In applicazione di tale principio, la
Corte ha cassato la sentenza del giudice del merito che aveva ritenuto
sufficiente il raggiungimento di una maggioranza di voti favorevoli, pari ad un
terzo dei presenti, unitamente alla condizione che essi rappresentassero almeno
un terzo della proprietà, ritenendo del tutto irrilevante che la parte
contraria alla Delibera detenesse un valore della proprietà superiore a quello
della maggioranza del voto personale) (Cass. n. 6625 del 2004)”. Alla luce di
quanto esposto, risultava, pertanto, da escludere che potesse operarsi una
finzione per cui una sola persona fisica (nella specie l’usufruttaria) venisse
conteggiata come due teste. Laddove, peraltro, la giurisprudenza era chiarissima
nel sostenere che, quando i condomini legittimati a partecipare ed a votare
nell’assemblea fossero soltanto due e mancasse la unanimità o comunque vi fosse
una situazione di parità, l’unica strada percorribile per deliberare fosse
quella del ricorso alla autorità giudiziaria, come previsto ai sensi del
collegato disposto degli artt. 1105 e 1139 c.c. (cfr. Cass., sez. un., n. 2046
del 2006; Cass. n. 5288 del 2012).
Per tali motivi
la Corte di Cassazione accoglieva il motivo di ricorso, cassava la sentenza
impugnata e rinviava alla Corte d’appello distrettuale per una nuova
valutazione sul merito.
Avv. Anna Maria Cupolillo Staff Giuridico Avvocato Express
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nel suo caso. L’utente potrà, poi, richiedere chiarimenti sino a tre
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Attendiamo la sua ricevuta di pagamento, se ha pagato tramite bonifico, per perfezionare l’incarico.
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R. L’irreperibilità del testamento, di cui si provi l’esistenza in un certo tempo mediante la produzione di una copia, è equiparabile alla distruzione. L’onus probandi che esso fu distrutto da persona diversa dal testatore, oppure che costui non aveva intenzione di revocarlo, incombe su chi vi ha interesse.
(Corte di Cassazione, sez. II Civile, ordinanza n. 22191/20; depositata il 14 ottobre)
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