La messa in vendita di un bene su un sito internet, accompagnata dalla
mancata consegna del bene stesso all’acquirente e posta in essere da parte di
chi falsamente si presenta come alienante ma ha solo il proposito di indurre la
controparte a versare una somma di denaro e a conseguire, quindi, un profitto
ingiusto, integra una condotta truffaldina. Questo è quanto stabilito dalla Corte
di Cassazione, sez. II Penale, sentenza n. 51551/2019, depositata il 20
dicembre.
Il caso. L’adito
Tribunale condannava l’imputato alla pena di giustizia in relazione al reato di
truffa per aver egli posto in essere un’apparente offerta di vendita su un sito
internet di una calcolatrice grafica, non consegnando poi il bene
all’acquirente e inducendolo a versare la somma di Euro 156,23, procurandosi così un ingiusto profitto.
La Corte d’Appello territoriale, in riforma della sentenza di
condanna, assolveva l’imputato dal reato ascrittogli perché il fatto non
sussisteva.
Avverso tale decisione il Procuratore generale presso la Corte d’Appello territoriale
proponeva ricorso per cassazione rilevando l’inosservanza o l’erronea
applicazione dell’art. 640 c.p., avendo il giudice di secondo grado
illegittimamente escluso che la messa in vendita su un sito internet di un bene,
non consegnato all’acquirente nonostante il versamento del corrispettivo, non
integrasse gli elementi costitutivi del reato di truffa. Il Supremo Collegio
ricordava che pronunce giurisprudenziali
precedenti avevano affermato come “in materia di truffa contrattuale, il
mancato rispetto da parte di uno dei contraenti delle modalità di esecuzione
del contratto, rispetto a quelle inizialmente concordate con l’altra parte, con
condotte artificiose idonee a generare un danno con correlativo ingiusto profitto,
integra l’elemento degli artifici e raggiri richiesti per la sussistenza del
reato di cui all’art. 640 c.p..” Inoltre, aveva precisato che “l’elemento, che
imprime al fatto dell’inadempienza il carattere di reato, è costituito dal dolo
iniziale, che, influendo sulla volontà negoziale di uno dei due contraenti –
determinandolo alla stipulazione del contratto in virtù di artifici e raggiri
e, quindi, falsandone il processo volitivo rivela nel contratto la sua intima
natura di finalità ingannatoria (Sez. 2, n. 5801 dell’8/11/2013)”. In
applicazione dei principi ricordati, la Suprema Corte aveva già ravvisato la
condotta fraudolenta prevista dall’art. 640 c.p. in quella di chi si
accreditava sul sito “ebay” e poneva in vendita un bene, ricevendone
il corrispettivo senza procedere alla consegna di esso; condotte rispetto alle
quali erano state valutate indizianti della truffa sia la cancellazione
dell’”account”, successiva alla conclusione della transazione, che la
reiterazione di fatti analoghi da parte dello stesso ricorrente. Al riguardo,
gli Ermellini chiarivano come
“la messa in vendita di un bene su un sito internet, accompagnata dalla mancata
consegna del bene stesso all’acquirente e posta in essere da parte di chi
falsamente si presenta come alienante ma ha solo il proposito di indurre la
controparte a versare una somma di denaro e a conseguire, quindi, un profitto
ingiusto, integra una condotta truffaldina”. Nel caso in esame la Corte
territoriale non aveva applicato il citato
principio.
Per tali motivi, la Corte di Cassazione annullava la sentenza impugnata e
rinviava ad altra Corte d’Appello per un nuovo giudizio.
Avv. Anna Maria Cupolillo Staff Giuridico Avvocato Express
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Se un condomino è comproprietario di più appartamenti, egli va considerato
come una sola “testa” in sede di assemblea condominiale, rappresentante i
millesimi derivanti dalla somma algebrica delle varie unità immobiliari
possedute. Questo è quanto stabilito dal
Tribunale di Verona, sez. III Civile,
sentenza depositata il 15 ottobre 2019.
Il caso. Due condomini impugnavano alcune delibere assembleari
con le quali un Condominio aveva approvato l’esecuzione di alcuni lavori di
manutenzione deducendo, a sostegno della
loro domanda di declaratoria di nullità o di annullamento delle citate delibere,
l’invalidità delle stesse per tre motivi. Con il primo motivo gli attori sostenevano che nel calcolo delle maggioranze, ai fini dell’adozione
delle due delibere, non si era tenuto conto che essi disponevano di un voto
ciascuno quali codomini proprietari, ognuno, di una unità immobiliare nonché di
un ulteriore voto quali comproprietari di una diversa unità immobiliare, sita
nello stesso condominio, per un totale di quattro voti; con il secondo motivo, rappresentavano come il soggetto da
loro delegato non avesse votato secondo le loro indicazioni e, dunque,
l’assemblea, ex post, doveva essere invalidata e con il terzo motivo chiedevano la nullità di una successiva delibera
assembleare in quanto aveva approvato dei lavori di manutenzione senza la
previa analisi dei preventivi delle imprese affidatarie delle opere. Si
costituiva in giudizio il Condominio negando le argomentazioni attoree e
chiedendo il rigetto della domanda.
L’adito Tribunale riteneva infondati tutti i tre motivi di ricorso.
Riguardo alla prima doglianza, il Giudice
di primo grado ricordava come in materia condominiale l’assemblea, per poter
deliberare validamente, necessitava sempre di una doppia maggioranza, ossia
quella dei presenti e quella dei millesimi, sia in prima che in seconda
convocazione ed indipendentemente dall’oggetto della decisione. Ciò lo si
evinceva dall’art. 1136 cc. che, con riferimento al numero di voti necessario
per l’approvazione delle delibere, parlava espressamente di “maggioranza
degli intervenuti”, riferendosi alle persone fisicamente presenti in
assemblea, compresi i terzi delegati, ed escludendo, quindi, che si trattasse
della maggioranza dei partecipanti al Condominio. Pertanto, affermava il
Tribunale “allorquando un condomino sia proprietario o, come nel caso di
specie, comproprietario di più unità immobiliari nel momento in cui partecipa
all’assemblea va considerato come una sola testa, rappresentante i millesimi
risultanti dalla somma dei parametri millesimali di proprietà dei suoi
immobili. Se così non fosse, e si attribuisse quindi rilievo al numero degli
intervenuti in assemblea, non si spiegherebbe perché il legislatore abbia
individuato un concorrente criterio di calcolo della maggioranza, costituito
dai millesimi di proprietà degli intervenuti medesimi”. L’assemblea, pertanto, aveva
correttamente valutato i due comproprietari come due voti. Parimenti priva di
pregio risultava il secondo motivo di doglianza. Infatti, anche ammesso e non
concesso che il delegato avesse disatteso le indicazioni di voto fornitegli,
tale difformità non avrebbe avuto alcun effetto nei confronti dell’assemblea. Difatti, gli attori avevano prospettato come il
soggetto intervenuto fosse un falsus procurator dei comunisti ma una simile
condizione, anche laddove effettivamente esistente, non avrebbe potuto influire
sulla validità delle delibere impugnate, potendo tutt’al più essere fonte di
responsabilità del rappresentante apparente verso gli attori ai sensi dell’art.
1398 c.c.. Tale conclusione trovava conforto, con specifico riguardo al tema
dell’adozione delle delibere condominiali, in una pronuncia della Suprema Corte
(Cass. 4531/2003) che aveva stabilito che: “in materia di delibere condominiali
i rapporti tra il rappresentante intervenuto in assemblea ed il condomino
rappresentato sono disciplinati dalle regole sul mandato, con la conseguenza
che l’operato del delegato nel corso dell’assemblea non è nullo e neppure
annullabile, ma inefficace nei confronti del delegante fino alla ratifica di
questi”. Ed ancora, sosteneva il Tribunale “Né osta a quanto qui sostenuto il
disposto dell’art. 67 delle disp. att. cc., che, a seguito della riforma di cui
alla Legge 11 dicembre 2012, n. 220, prevede che: “Ogni condomino può
intervenire all’assemblea anche a mezzo di rappresentante, munito di delega
scritta. Se i condomini sono più di venti, il delegato non può rappresentare
più di un quinto dei condomini e del valore proporzionale. Qualora un’unità immobiliare
appartenga in proprietà indivisa a più persone, queste hanno diritto a un solo
rappresentante nell’assemblea, che è designato dai comproprietari interessati a
norma dell’articolo 1106 del codice”. Tali previsioni, infatti, non
individuavano le conseguenze della loro inosservanza e, in difetto di tale
precisazione, la nullità della volontà espressa dal rappresentante apparente
del Condomino (perché privo di delega o perché nominato senza osservare le
modalità di cui all’art. 1106 c.c.), alla quale sarebbe conseguita l’invalidità
dalla delibera adottata con il suo voto, non poteva essere affermata in via
interpretativa. Doveva, quindi,
ritenersi che, anche dopo la novella, il voto espresso in assemblea dal falsus
procurator del Condomino fosse inefficace nei confronti del solo rappresentato
in virtù della norma generale sopra richiamata. Anche il terzo motivo di
doglianza veniva rigettato in quanto improcedibile. Infatti, la questione relativa alla presunta
invalidità di una successiva delibera assembleare non era stata oggetto di
mediazione obbligatoria ante-giudiziale ai sensi del d.lgs. n. 28/2010 e di
conseguenza la relativa questione era da considerare inammissibile.
Per tali motivi il Tribunale rigettava totalmente la domanda attorea e
condannava gli attori al pagamento delle spese del giudizio ai sensi dell’art.
91 c.p.c..
Avv. Anna Maria Cupolillo Staff Giuridico Avvocato Express
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R. Per i Giudici è evidente l’effetto destabilizzante sulla donna causato dai comportamenti del coniuge separato. In particolare lei ha scelto di trasferirsi a casa dei genitori per tutelare la propria incolumità.
(Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza n. 51112/19; depositata il 18 dicembre)
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R. Nel caso di trasporto di persone effettuato senza soluzione di continuità nell’esecuzione negoziale con trasbordo da un’autovettura a un’altra, secondo quanto previsto dall’unico contratto con unico vettore, questo risponde dei danni subiti al trasportato nel piazzale in cui il trasferimento è avvenuto.
(Corte di Cassazione, sez. VI Civile – 3, ordinanza n. 33449/19; depositata il 17 dicembre)
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R. Con l’informazione provvisoria n. 27 del dicembre 2019, le Sezioni Unite Penali hanno chiarito che il reato di coltivazione di stupefacenti è configurabile indipendentemente dalla quantità di principio attivo ricavabile nell’immediatezza. È infatti sufficiente, ai fini della rilevanza penale della condotta, che la pianta sia riconducibile al tipo botanico previsto e che sia idonea, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre la sostanza stupefacente. Devono comunque ritenersi escluse dalla fattispecie, in quanto non riconducibili alla norma penale, le attività di coltivazione di minime dimensioni svolte in forma domestica, le quali, a causa delle rudimentali tecniche utilizzate, della limitata quantità di piante, del modesto prodotto ricavabile e della mancanza di altri indici circa la destinazione al mercato degli stupefacenti, appaiano destinate in via esclusivo all’uso personale del coltivatore.
D. Bar rumoroso sopra l’appartamento: lamentele legittime ?
R. Cade l’ipotesi di condanna nei confronti del titolare del locale, che peraltro ha provveduto all’insonorizzazione della pavimentazione. Decisiva per i Giudici la constatazione che il problema è stato segnalato da una sola persona, quella che vive nell’abitazione posta sotto l’esercizio commerciale.
(Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza n. 50772/19; depositata il 16 dicembre)
D. È vietato pubblicare foto altrui sul proprio profilo Facebook senza il consenso dell’interessato?
R. La pubblicazione di una foto ritraente una persona è subordinata alla manifestazione, sia essa esplicita o implicita, del consenso da parte della persona ritratta; questo sia per la tutela del diritto all’immagine, sia per la tutela del diritto alla riservatezza, visto che la pubblicazione di una foto altrui costituisce una forma di trattamento di un dato personale.
(Tribunale di Bari, sez. I Civile, ordinanza depositata il 6 novembre 2019)
(Tribunale di Bari, sez. I Civile, ordinanza depositata il 6 novembre 2019
Il regolamento condominiale non può bloccare la
decisione del singolo condomino di effettuare il distacco dall’impianto
centralizzato di riscaldamento. È possibile, invece, obbligarlo a concorrere
alle spese per l’uso del servizio. Ciò è quanto stabilito dalla Corte di
Cassazione, sez. VI Civile, ordinanza n. 32441/2019, sez. II Civile, depositata
l’11 dicembre.
Il caso. L’adito Tribunale rigettava le domande proposte dai due condomini di
accertamento della legittimità del distacco degli appartamenti di loro
proprietà dall’impianto centralizzato di riscaldamento, con determinazione
della quota di partecipazione a loro carico in relazione alle spese di
esercizio, nonché di annullamento delle delibere assembleari con le quali era
stata respinta la richiesta di autorizzazione al distacco ed erano stati
approvati il consuntivo ed il preventivo per le spese di riscaldamento.
La Corte d’appello territoriale confermava la
decisione di primo grado, ritenendo illegittimo il distacco dall’impianto
centralizzato di riscaldamento, rilevando che l’art. 10 del regolamento
condominiale non consentiva la rinuncia all’uso degli impianti comuni e
statuiva l’obbligatorietà dei relativi canoni.
Avverso tale decisione i due condomini proponevano
ricorso per cassazione. Secondo i ricorrenti i giudici di secondo grado
erano incorsi in errore nel dare prevalenza alle pattuizioni contenute nel
regolamento condominiale, a fronte della previsione dell’art. 1118, terzo
comma, cod. civ. che conferiva al singolo condomino la facoltà di rinunciare
all’utilizzo dell’impianto centralizzato di riscaldamento, sempre che da ciò
non derivassero notevoli squilibri di funzionamento o aggravi di spesa per gli
altri condomini. Nel caso de quo, era stato dimostrato che il distacco aveva
inciso sull’equilibrio termico dell’impianto di riscaldamento centralizzato in
misura del 10%, e che i relativi importi erano stati corrisposti. Gli Ermellini
avevano già avuto modo di chiarire che, ai sensi dell’art. 1118, quarto comma,
cod. civ., il diritto del condomino a distaccarsi dall’impianto di
riscaldamento centralizzato non era disponibile e di conseguenza erano nulle le
clausole dei regolamenti condominiali che vietassero il distacco (ex plurimis,
Cass. 12580 del 18/05/2017; Cass. 12/05/2017, n. 11970). Il regolamento
condominiale poteva invece legittimamente obbligare il condomino rinunziante a
concorrere alle spese per l’uso del servizio centralizzato, poiché il criterio
legale di ripartizione delle spese di gestione dettato dall’art. 1123 cod. civ.
era derogabile.
Nel caso di specie, in cui regolamento condominiale che vietava il distacco era
preesistente all’entrata in vigore dell’art. 1118, quarto comma, cod. civ., la
norma sopravvenuta incideva, e non poteva essere altrimenti, sull’efficacia
della clausola contrattuale, che veniva meno.
Per tali motivi la Corte di Cassazione accoglieva il
ricorso, cassava la sentenza impugnata e rinviava, anche per le spese del
giudizio di legittimità, alla Corte d’appello territoriale, in diversa
composizione.
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R. Respinte le obiezioni proposte dalla moglie. Confermata la decisione d’Appello: riconosciuta la validità per lo Stato italiano della sentenza ecclesiastica che ha cancellato il vincolo coniugale. Decisivo il richiamo alla facile conoscenza per la donna della volontà dell’uomo di non volere figli durante la vita coniugale.
(Corte di Cassazione, sez. I Civile, ordinanza n. 32027/19; depositata il 9 dicembre)
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R. Per i Giudici non vi sono dubbi sull’abuso compiuto dall’uomo sotto processo, che, a precisa richiesta, si è rifiutato di spostare l’auto, così impedendo a un’altra persona di accedere al cortile e recuperare gli attrezzi di sua proprietà.
(Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza n. 51236/19; depositata il 19 dicembre)
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