In tema di Condominio negli edifici, dei danni da
infiltrazioni cagionati dal lastrico solare o dalla terrazza a livello di uso
esclusivo, imputabili non alla omissione di riparazioni del bene, quanto a
difetti di progettazione o di esecuzione dell’opera, indebitamente tollerati
dal singolo proprietario, risponde soltanto quest’ultimo, ai sensi dell’art.
2051 c.c., e non anche il Condominio, il quale è obbligato ad eseguire le
attività di conservazione e di manutenzione straordinaria del bene, e non ad
eliminarne i vizi costruttivi originari. Questo è quanto stabilito dalla Corte
di Cassazione, sez. VI Civile – 2, ordinanza 19556/2021, depositata l’8 luglio.
Il caso. La Corte d’Appello distrettuale aveva parzialmente riformato la sentenza
resa dal Tribunale, con cui veniva accolta la domanda avanzata dal proprietario
ad uso esclusivo del lastrico solare e condannato il Condominio al risarcimento
dei danni subiti dall’unità immobiliare dell’attore, sita al secondo piano
dell’edificio, a causa delle infiltrazioni provenienti dal lastrico solare di
proprietà esclusiva dell’attore. Il Tribunale, inquadrando la fattispecie
nell’ipotesi di cui all’art. 1126 c.c., aveva ripartito le spese di ripristino
e riparazione tra il proprietario dell’unità immobiliare danneggiata e del lastrico
solare e il Condominio convenuto, nelle proporzioni indicate dalla norma
stessa. La Corte d’Appello, ritenendo che il primo giudice non avesse tenuto
conto del fatto che, come emerso dalle risultanze probatorie, le cause delle
infiltrazioni fossero da imputare non già a usura e a carenze manutentive, ma a
difetti originari di costruzione della copertura, aveva applicato il criterio
di imputazione di responsabilità indicato dall’art. 2051 c.c., così onerando
delle spese in oggetto il solo proprietario del lastrico solare, senza alcuna
partecipazione del Condominio.
Avverso tale sentenza il Condomino proponeva ricorso
per cassazione lamentandosi del fatto che la Corte d’Appello si fosse basata su
un orientamento non più attuale, in quanto superato dalla giurisprudenza delle
Sezioni Unite della Corte di Cassazione. Gli Ermellini, uniformandosi al
principio di diritto enunciato da Cass. Sez. U, 10/05/2016, n. 9449, ribadivano
che “in tema di condominio negli edifici, qualora l’uso del lastrico solare (o della
terrazza a livello) non sia comune a tutti i condomini, dei danni da
infiltrazioni nell’appartamento sottostante rispondono sia il proprietario, o
l’usuario esclusivo, quale custode del bene ai sensi dell’art. 2051 c.c., sia
il condominio in forza degli obblighi inerenti l’adozione dei controlli
necessari alla conservazione delle parti comuni incombenti sull’amministratore
ex art. 1130 c.c., comma 1, n. 4, nonché sull’assemblea dei condomini ex art.
1135 c.c., comma 1, n. 4, tenuta a provvedere alle opere di manutenzione
straordinaria, regolandosi il concorso di tali responsabilità, secondo i
criteri di cui all’art. 1126 c.c., a meno che non risulti la prova della
riconducibilità del danno a fatto esclusivo del titolare del diritto di uso
esclusivo del lastrico solare.” Nel caso de quo, era stato accertato dai
giudici del merito – in base ad apprezzamento sottratto al sindacato di
legittimità dell’efficacia eziologica delle rispettive condotte asseritamente
lesive – che la causa dei danni fosse imputabile non alla omissione di
riparazioni del lastrico dovute a vetustà, ipotesi cui tornava applicabile
l’art. 1126 c.c., quanto riconducibile a difetti originari di progettazione o
di esecuzione dell’opera, indebitamente tollerati dal singolo proprietario, con
conseguente responsabilità del solo medesimo proprietario del lastrico solare,
ex art. 2051 c.c., e non anche – sia pure in via concorrenziale – del Condominio,
il quale era obbligato ad eseguire le attività di conservazione e di
manutenzione straordinaria del bene, ma non ad eliminarne i vizi costruttivi
originari (Cass. Sez. 2, 21/11/2016, n. 23680; Cass. Sez. 3, 19/06/2013, n.
15300; Cass. Sez. 2, 15/04/2010, n. 9084; Cass. Sez. 3, 18/06/1998, n. 6060).
Quindi, “In tema di condominio negli edifici, dei danni da infiltrazioni
cagionati dal lastrico solare o dalla terrazza a livello di uso esclusivo,
imputabili non alla omissione di riparazioni del bene, quanto a difetti di
progettazione o di esecuzione dell’opera, indebitamente tollerati dal singolo
proprietario, risponde soltanto quest’ultimo, agli effetti dell’art. 2051 c.c.,
e non anche – sia pure in via concorrenziale – il condominio, il quale è
obbligato ad eseguire le attività di conservazione e di manutenzione
straordinaria del bene, e non ad eliminarne i vizi costruttivi originari.”
Per tali motivi la Corte di Cassazione dichiarava
inammissibile il ricorso e condannava il ricorrente a rimborsare al
controricorrente le spese sostenute nel giudizio di legittimità.
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Il condomino, che subisca nella propria unità immobiliare un danno
derivante dall’omessa manutenzione delle parti comuni dell’edificio assume,
quale danneggiato, la posizione di terzo avente diritto al risarcimento nei
confronti del Condominio, senza tuttavia essere esonerato dall’obbligo, che
trova la sua fonte nella comproprietà o nella utilità di quelle e non nella
specifica condotta illecita ad esso attribuibile, di contribuire a sua volta, in misura proporzionale al valore della rispettiva
porzione, alle spese necessarie per la riparazione delle parti comuni
dell’edificio e alla rifusione dei danni cagionati. Questo è quanto stabilito
dalla Corte di Cassazione, sez. VI Civile – 2, ordinanza n. 18187/2021,
depositata il 24 giugno.
Il caso. Una s.r.l., proprietaria del piano terra
dell’edificio condominiale, adiva in giudizio chiedendo la condanna del
Condominio al rimborso delle spese da essa anticipate ed al risarcimento dei
danni in relazione al lastrico comune di copertura, costituente la corte
interna del fabbricato. Il Tribunale competente condannava il Condominio al
pagamento in favore della s.r.l. delle somme anticipate da questa per
l’esecuzione dei lavori necessari alle parti comuni (Euro 29.040,00 e Euro
36.274,31) nonché ai danni pari ad Euro 18.872,86. La Corte d’Appello territoriale annullava la delibera
assembleare, impugnata ex art. 1137 c.c. dalla società. Tale delibera aveva
ripartito la spesa occorrente per risarcire i danni subiti dalla porzione di
proprietà esclusiva della società attrice a causa dell’omessa manutenzione di
una corte comune, danni accertati con sentenza resa dal Tribunale competente.
La decisione impugnata affermava
la sussistenza dell’obbligo dell’appellante di contribuire anch’essa, quale
condomina, alla spesa occorrente per risarcire il danno subito dall’unità immobiliare
di proprietà della s.r.l..
Avverso tale sentenza la società proponeva ricorso per cassazione con un
unico motivo deducendo la violazione dell’art. 2909 c.c. e sostenendo
che la sentenza di primo grado aveva condannato al risarcimento l’intera
compagine condominiale con l’esclusione, però, della attrice danneggiata.
Secondo gli Ermellini, “l’accertamento
della responsabilità risarcitoria della compagine condominiale per i danni
cagionati dall’omessa manutenzione delle parti comuni alla porzione di
proprietà esclusiva di uno dei condomini, risultante da sentenza definitiva di
condanna del condominio, in persona dell’amministratore, non esclude affatto
che lo stesso condomino danneggiato rimanga a sua volta gravato pro quota nei
confronti del condominio dell’obbligo di contribuzione alla correlata spesa,
che trova la sua fonte nella comproprietà delle parti comuni dell’edificio e
non nella specifica condotta illecita ad esso attribuibile (cfr. Cass. Sez. 2,
14/02/1987, n. 1618; Cass. Sez. 3, 02/04/2001, n. 4797; Cass. Sez. 2,
18/05/2001, n. 6849; Cass. Sez. 3, 08/11/2007, n. 23308).” Pertanto, la delibera assembleare in oggetto non
contrastava con la condanna risarcitoria statuita dal Tribunale. Sulla base di
ciò, la Suprema Corte affermava che “Il condomino, che subisca nella
propria unità immobiliare un danno derivante dall’omessa manutenzione delle
parti comuni dell’edificio ai sensi degli artt. 1123, 1124, 1125 e 1126 c.c.,
assume, quale danneggiato, la posizione di terzo avente diritto al risarcimento
nei confronti del condominio, senza tuttavia essere esonerato dall’obbligo, che
trova la sua fonte nella comproprietà o nella utilità di quelle e non nella
specifica condotta illecita ad esso attribuibile, di contribuire a sua volta,
in misura proporzionale al valore della rispettiva porzione, alle spese
necessarie per la riparazione delle parti comuni dell’edificio e alla rifusione
dei danni cagionati.”
Per tali motivi la Corte di Cassazione
rigettava il ricorso e condannava la ricorrente a rimborsare al
controricorrente le spese sostenute nel giudizio di legittimità.
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Ove un condomino abbia chiesto la revisione delle tabelle millesimali
deducendo la divergenza tra i valori effettivi e quelli accertati in tabella,
spetta al Giudice verificare i valori di ciascuna delle unità immobiliari,
tenendo conto di tutti gli elementi oggettivi, quali la superficie, l’altezza
del piano, la luminosità, l’esposizione, incidenti sul valore effettivo di esse
e quindi di adeguarvi le tabelle, eliminando le difformità riscontrate. Questo
è quanto sancito dalla Corte di Cassazione, sez. II Civile, ordinanza n.
10372/2021, depositata il 20 aprile.
Il caso. La Corte d’Appello
distrettuale confermava la sentenza di primo grado che, accogliendo la domanda di
una condomina, proseguita dalle sue eredi dopo la sua morte, aveva disposto,
nel contraddittorio di tutti i condomini del Condominio, la revisione delle
vigenti tabelle millesimali. La Corte d’Appello affermava che le tabelle
esistenti, redatte nel 1960, si discostassero in misura rilevante dai valori
proporzionali delle singole unità immobiliari, non considerando come parte
abitativa l’interno numero 1 e come autonoma porzione l’appartamento attico
numero 4.
Avverso tale sentenza altre due condomine proponevano ricorso per
cassazione. Le ricorrenti deducevano, sostanzialmente, la
nullità della sentenza impugnata per mancanza assoluta di motivazione e la
violazione e falsa applicazione degli artt. 69 n. 2 disp. att. c.c., 2702 e
2735 c.c., 115 c.p.c. nella parte in cui era stata accolta la domanda diretta
alla revisione in assenza dei presupposti legali. Secondo
gli Ermellini “Il diritto spettante anche al singolo condomino di chiedere la
revisione delle tabelle millesimali, in base all’art. 69 disp. att. c.c. (nella
formulazione, applicabile “ratione temporis”, anteriore alla L. n.
220 del 2012) è, invero, subordinato all’esistenza di un errore genetico o di
un’alterazione sopravvenuta del rapporto originario tra i valori delle singole
unità immobiliari imputabile alle mutate condizioni dell’edificio. In
particolare, per consolidata elaborazione giurisprudenziale (cfr. Cass. Sez. 2,
13/09/1991, n. 9579; Cass. Sez. U., 09/07/1997, n. 6222; Cass. Sez. 2,
22/11/2000, n. 15094; Cass. Sez. 2, 26/03/2010, n. 7300), le tabelle
millesimali, ex art. 69 disp. att. e trans c.c., n. 2, possono essere rivedute
e modificate (anche nell’interesse di un solo condomino) se è notevolmente
alterato il rapporto originario dei valori dei singoli piani o porzioni di
piano. Tale notevole alterazione del rapporto tra i valori proporzionali non è
necessariamente correlata ad una modificazione materiale dello stabile,
potendosi anche avere la creazione di un nuovo piano con mantenimento degli
originari valori proporzionali. Compete perciò al giudice del merito stabilire,
di volta in volta, se il mutamento delle condizioni dei luoghi o le opere
realizzate siano tali da implicare la revisione di detti valori e il suo
giudizio, sul punto, che si concreta in un accertamento di puro fatto,
sottratto al controllo di legittimità se, come nel caso esame, risulta sorretto
da adeguata motivazione.” Ove pertanto, come nel caso de quo, un condomino
avesse chiesto la revisione delle tabelle millesimali, deducendo la divergenza
tra i valori effettivi e quelli accertati in tabella, spettava al giudice di
verificare i valori di ciascuna delle unità immobiliari, tenendo conto di tutti
gli elementi oggettivi, quali la superficie, l’altezza di piano, la luminosità,
l’esposizione, incidenti sul valore effettivo di esse e, quindi, di adeguarvi
le tabelle, eliminando le difformità riscontrate (Cass. Sez. 2 10/05/2018, n.
11290; Cass. Sez. 2, 25/09/2013, n. 21950; Cass. Sez. 2, 14/12/2016, n. 25790).
Nel caso in esame i Giudici di
merito avevano, quindi, verificato, in base alle risultanze della CTU ed alla
dichiarazione resa in assemblea da un altro condomino, un sopravvenuto
mutamento delle condizioni di parti dell’edificio rispetto alle tabelle del
1960, apprezzamento insindacabile in sede di legittimità. Ne conseguiva che, ai
sensi dell’art. 69 disp. att. n. 1 c.c., l’errore che giustificava la revisione
delle tabelle millesimali non coincideva con l’errore vizio del consenso, ma
nell’obiettiva divergenza tra il valore effettivo delle singole unità
immobiliari ed il valore proporzionale ad esse attribuito nelle tabelle (Cass.
n. 6222/1997).
Per tali motivi la Corte di Cassazione rigettava il ricorso e
condannava in solido le ricorrenti a rimborsare le spese sostenute nel giudizio
di cassazione dalle controricorrenti.
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Nel rapporto di lavoro subordinato il tempo necessario a indossare
l’abbigliamento di servizio (‘tempo tuta’) costituisce tempo di lavoro soltanto
ove qualificato da eterodirezione, in difetto della quale l’attività di
vestizione rientra nella diligenza preparatoria inclusa nell’obbligazione principale
del lavoratore e non dà titolo ad autonomo corrispettivo. Questo è quanto
stabilito dalla Corte di Cassazione, sez. VI Civile – L, ordinanza n. 15763/2021,
depositata il 7 giugno.
Il caso. Alcuni dipendenti di una
società proponevano ricorso per cassazione avverso la sentenza della Corte d’Appello
territoriale che, in riforma della sentenza del Tribunale, aveva dichiarato
infondata la domanda con cui i lavoratori avevano chiesto il riconoscimento
della retribuzione per il tempo impiegato nell’indossare e nel dismettere gli
abiti di lavoro e gli altri dispositivi di protezione individuale (cd. tempo
tuta). La Corte d’Appello territoriale aveva accertato che la società non
imponeva ai lavoratori modalità di vestizione e svestizione, e che, pertanto,
avendo la datrice rinunciato a esercitare il proprio potere di eterodirezione
in relazione a tale attività, nessun obbligo retributivo derivante da
corrispettività gravava su di essa riguardo al cd. tempo tuta. Secondo gli
Ermellini, “nel rapporto di lavoro subordinato, il tempo necessario a indossare
l’abbigliamento di servizio (“tempo-tuta”) costituisce tempo di
lavoro soltanto ove qualificato da eterodirezione, in difetto della quale
l’attività di vestizione rientra nella diligenza preparatoria inclusa nell’obbligazione
principale del lavoratore e non dà titolo ad autonomo corrispettivo” (Cass. n.
9215 del 2016, Direttiva comunitaria n. 2003/88/CE, cfr. Cass. n. 1352 del 2016).
La Corte d’Appello aveva valorizzato l’esito della verifica svolta in fatto
circa l’assenza, nel caso de quo, dell’elemento costitutivo dell’obbligazione
rivendicata dai lavoratori nei confronti della società, consistente
nell’esercizio del potere di eterodirezione datoriale riguardo al tempo, al
modo e al luogo della vestizione/svestizione. Aveva, pertanto accertato che –
anche a prescindere dalla testimonianza resa in altro giudizio da uno dei
lavoratori, documento non disconosciuto e della cui erronea valutazione ai fini
della prova gli odierni ricorrenti si dolevano nei primi due motivi non era
stata raggiunta la prova dell’imposizione in capo ai lavoratori dell’obbligo di
indossare gli abiti da lavoro negli appositi spogliatoi aziendali, ben potendo
gli stessi recarsi al lavoro e far ritorno a casa indossandoli; né ai predetti
fini la Corte d’Appello aveva ritenuto rilevante che la società avesse offerto
servizi quali spogliatoio, doccia e lavanderia, in merito all’utilizzo dei
quali ai lavoratori era lasciata totale libertà di scelta. In sostanza, non era stata raggiunta la prova
dell’imposizione in capo ai lavoratori dell’obbligo di indossare gli abiti da
lavoro negli appositi spogliatoi aziendali, ben potendo essi recarsi al lavoro
e far ritorno a casa indossandoli, e in questa ottica era irrilevante che la
società avesse offerto servizi quali spogliatoio, doccia e lavanderia, in
merito all’utilizzo dei quali ai lavoratori era lasciata totale libertà di
scelta. Dunque fondamentale era stata la mancanza di prova sul fatto che “i
dipendenti dovessero indossare i dispositivi di protezione individuale prima di
iniziare l’attività lavorativa”. In conclusione all’esito
dell’accertamento circa la concreta gestione del cd. tempo tuta presso la
società, la Corte territoriale aveva escluso l’elemento dell’eterodirezione
quale potere direttivo e organizzativo equiparabile al tempo di lavoro in cui
si traduceva la messa a disposizione atta a generare il corrispettivo obbligo
di remunerazione.
Per tali motivi la Corte di Cassazione
rigettava il ricorso e condannava i ricorrenti al rimborso delle spese del
giudizio di legittimità in favore della controricorrente.
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La ratio dell’art. 890 c.c. è quella di evitare che fumi nocivi ed
intollerabili emessi dalle canne fumarie invadano le abitazioni e, trattandosi
di tetti che coprono il medesimo fabbricato ad altezza diversa, tale scopo può
essere raggiunto avendo come riferimento, per il calcolo delle distanze, il
c.d. “colmo del tetto”, cioè la parte più alta dell’intero fabbricato
e non già il tetto di copertura della porzione più bassa del medesimo
fabbricato. Questo è quanto sancito dalla Corte di Cassazione, sez. II
Civile, ordinanza n. 15441/2021, depositata il 3 giugno.
Il caso.Una condomina lamentando
la violazione delle distanze previste dall’art. 890 c.c., in combinato disposto
con il Regolamento Edilizio del Comune de quo, art. 32, chiedeva ex art. 1170
c.c., artt. 703 e 669 bis c.p.c., la rimozione della canna fumaria realizzata
nel dicembre 2003 da un altro condomino sul tetto dell’edificio di quest’ultimo
e adiacente alla finestra della ricorrente. Quest’ultimo, si
costituiva nel giudizio possessorio, rilevando come il manufatto era esistente
fin dal 1967 e che, nel dicembre del 2003, era stato interessato da un
intervento di manutenzione che non ne aveva alterato la precedente funzione;
chiedeva, altresì, l’accertamento dell’acquisto per usucapione del diritto a
mantenere la canna fumaria in quella posizione e a quella distanza. Il
Tribunale competente rigettava la domanda.
Avverso
tale sentenza la parte soccombente interponeva gravame. In particolare, secondo la Corte
d’Appello territoriale, ai fini della conformità della canna fumaria alle
prescrizioni del Regolamento, l’altezza della canna fumaria non era quella del
tetto sul quale la stessa insisteva, bensì quella del colmo della più alta
copertura del fabbricato comune. Inoltre, l’intervento edilizio realizzato non
poteva essere inteso come una semplice ristrutturazione. La Corte d’Appello accoglieva il gravame proposto dalla
parte appellante.
Avverso
tale sentenza la parte soccombente proponeva ricorso per cassazione. Con
il primo motivo di ricorso, si eccepiva che la Corte territoriale aveva errato nel ritenere che
l’intervento edilizio del 2003 costituiva una “nuova costruzione”
quando, di contro, tale mutamento doveva essere ricondotto alla categoria degli
interventi di ristrutturazione. Inoltre, il ricorrente contestava il
ragionamento della determinazione dell’altezza necessaria all’installazione di
una canna fumaria. Secondo gli Ermellini, i giudici di seconde cure avevano
fatto corretta applicazione dei principi di diritto in materia di
“costruzione”. Come noto,
difatti, “è ravvisabile una “nuova costruzione” quando l’opera di
modifica si traduce non soltanto nella realizzazione “ex novo” di un
fabbricato, ma anche in qualsiasi modificazione della volumetria dell’edificio
preesistente che ne comporti un aumento della volumetria (Cass. civ. sez. II,
n. 28612 del 15.12.2020; Cass. civ., sez. II, n. 10873 del 25.05.2016). Ai fini
dell’osservanza delle norme in materia di distanze legali stabilite dall’art.
873 c.c. e seguenti, e delle norme dei regolamenti locali integrativi della
disciplina codicistica, la nozione di “costruzione” è unica e non si
identifica con quella di edificio, ma si estende a qualsiasi manufatto non
completamente interrato avente i caratteri della solidità, stabilità e immobilizzazione
al suolo anche mediante appoggio, incorporazione o collegamento fisso a un
corpo di fabbrica contestualmente realizzato o preesistente e ciò
indipendentemente dal livello di posa ed elevazione dell’opera stessa
(Cassazione civile, sez. II, 17/10/2017, n. 24473).” Dall’orientamento
menzionato si ricavava che, conformemente a quanto statuito dalla Corte di
merito, era ravvisabile una “nuova costruzione” ogniqualvolta l’opera
originariamente esistente subisse variazioni in termini di superficie o volume.
Pertanto,
l’intervento edilizio effettuato nel 2003 non poteva essere inteso come una
semplice ristrutturazione di una canna fumaria preesistente ma come una nuova
costruzione perché non erano rimasti invariati volume e dimensioni del
manufatto. Con il secondo motivo di
ricorso, si censurava la violazione dell’art. 890 c.c., in combinato disposto
con il Regolamento Edilizio del Comune in questione, art. 32, nonché la
carenza, mancanza ed illogicità della motivazione, per avere la Corte d’Appello
erroneamente interpretato la previsione normativa dello strumento urbanistico
ritenendo che, ai fini della determinazione dell’altezza necessaria
all’installazione di una canna fumaria, dovesse aversi riguardo non già al
tetto sul quale la canna fumaria insisteva bensì alla parte più alta del
fabbricato comune. Inoltre, la Corte avrebbe, altresì, errato nel ritenere
impossibile un innalzamento della canna fumaria fino al raggiungimento
dell’altezza di legge, non essendo siffatta conclusione avvalorata da alcun
supporto giuridico o scientifico. Al riguardo, in giurisprudenza, era stato sostenuto
che in presenza di un regolamento anche locale che disciplina il profilo delle
distanze, vigeva una presunzione di pericolosità assoluta la quale preclude
qualsiasi accertamento concreto (Cass. n. 22389/2009,) mentre, in difetto di
una disposizione regolamentare, si aveva pur sempre una presunzione di pericolosità,
seppure relativa, che poteva essere superata ove la parte interessata al mantenimento
del manufatto dimostrasse che mediante opportuni accorgimenti poteva ovviarsi
al pericolo o al danno del fondo vicino. Detto ciò, poiché il fabbricato
oggetto di giudizio risultava coperto da due tetti strutturalmente autonomi,
secondo la Suprema Corte, i Giudici di merito avevano correttamente preso in
considerazione, per verificare la conformità della canna fumaria alle
prescrizioni del Regolamento, non il tetto sul quale la stessa insisteva ma il
colmo della più alta copertura del fabbricato comune. Nel caso di specie, a
seguito di CTU, la canna fumaria si trovava a mt 3,375 di distanza dalla
finestra dell’attrice mentre l’art.32 del Reg. Edilizio prevedeva una distanza
minima di dieci metri da ogni finestra posta a quota uguale o superiore;
inoltre detta canna fumaria superava l’altezza della finestra di soli 0,87
metri e non di un metro come prescritto dallo strumento urbanistico. Pertanto,
secondo la Suprema Corte, era corretta la decisione della Corte di merito di
disporre la demolizione, resa peraltro necessaria dalle esigenze di stabilità
della canna fumaria.
Per tali motivi la Corte di Cassazione dichiarava
inammissibile il ricorso e condannava la parte ricorrente al pagamento, in
favore della parte controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità.
Avvocato Anna Maria Cupolillo Staff Giuridico Avvocato Express
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