Qualora la violazione non possa essere immediatamente
contestata, il verbale, con gli estremi precisi e dettagliati della violazione
e con la indicazione dei motivi che hanno reso impossibile la contestazione
immediata, deve, entro novanta giorni dall’accertamento, essere notificato
all’effettivo trasgressore o, quando questi non sia stato identificato e si
tratti di violazione commessa dal conducente di un veicolo a motore, munito di
targa, ad uno dei soggetti indicati nell’art. 196, quale risulta dai pubblici
registri alla data dell’accertamento. Questo è
quanto stabilito dalla Cassazione Civile, sez. II, ordinanza del 30 settembre
2021, n. 26560.
Il caso. Un’automobilista
veniva sanzionata dalla Polizia stradale sia per avere circolato contromano sia
per eccesso di velocità. La
donna impugnava il verbale elevato dalla Polizia stradale. Il Giudice di prime
cure accoglieva parzialmente l’opposizione e annullava il verbale de quo solo
relativamente alla violazione dell’art. 141 C.d.S. (mancato rispetto del limite
di velocità).
Avverso tale sentenza la donna interponeva appello e
otteneva in secondo grado l’annullamento anche in merito alla contestata violazione dell’art. 143 C.d.S.,
comma 12, (per aver circolato contromano). Secondo il Giudice di seconde cure
“il verbale doveva reputarsi nullo a causa della genericità della descrizione
della condotta, posto che la fede privilegiata di cui beneficia il verbale in
questione non comporta il venir meno dell’onere della prova, in capo all’organo
accertante, dei fatti costitutivi del comportamento illecito”; in particolare il Giudice addebitava al verbale,
il quale affermava la circolazione contromano, di “non avere descritto il
fatto in maniera sufficientemente specifica”, quanto a provenienza
dell’autovettura, quanto al punto della rotatoria nella quale sarebbe stata
commessa la violazione, in cosa fosse consistita la limitata visibilità; si
trattava, in definitiva, di “un grave difetto di motivazione”, che
aveva procurato “vulnus”
difensivo e non consentiva al giudice una compiuta valutazione dei fatti.
Avverso tale sentenza il Ministero dell’Interno e la
Prefettura proponevano ricorso per cassazione contestando duramente le valutazioni
compiute dal Giudice di secondo grado. Secondo i ricorrenti “il verbale redatto
per circolazione del Codice della Strada fa fede fino a querela di falso, anche
in ordine alla contestata assenza di una particolareggiata descrizione” e che,
“il verbale era comunque pienamente descrittivo, stante che in esso era riportata
la rotatoria interessata…alla luce di quanto disposto dal combinato disposto
dell’art. 200 C.d.S., comma 2, e art. 383 reg. att., comma 1, nel mentre solo
laddove la contestazione non avvenga nell’immediatezza l’art. 201 C.d.S., comma
1, impone che il verbale notificato al trasgressore debba riportare “gli
estremi precisi e dettagliati della violazione”, per contro nel caso in
esame la contestazione si era avuta nell’immediatezza”, così facendo venire
meno “l’ipotizzato difetto di contraddittorio”. Inoltre, i ricorrenti
affermavano che “gli elementi che il Tribunale ipotizza avrebbero dovuto essere
annotati, oltre che congetturali e astratti, imporrebbero una descrizione di
circostanze esorbitanti, in contrasto con l’art. 143 C.d.S., comma 12”. Queste
osservazioni avevano, per il Supremo Collegio, un solido fondamento. Precisava,
infatti, che <<nel giudizio di opposizione ad ordinanza-ingiunzione relativa
a violazioni del C.d.S. la fede privilegiata di cui all’art. 2700 c.c., assiste
tutte le circostanze inerenti alla violazione, giacché il pubblico ufficiale è
tenuto non solo a dare conto della sua presenza ai fatti attestati, ma anche
delle ragioni per le quali tale presenza ne ha consentito l’attestazione; ne
consegue che le contestazioni delle parti, ivi comprese quelle relative alla
mancata particolareggiata esposizione delle circostanze dell’accertamento,
devono essere svolte con il procedimento della querela di falso, in mancanza
del quale il verbale assume valore di prova della violazione anche nel giudizio
di opposizione (Sez. 2, n. 339, 12/1/2012; ma già S.U. n. 17355/2009); l’art.
200 C.d.S., comma 2. prescrive: “Dell’avvenuta contestazione deve essere
redatto verbale contenente anche le dichiarazioni che gli interessati chiedono
vi siano inserite. Il verbale, che può essere redatto anche con l’ausilio di
sistemi informatici, contiene la sommaria descrizione del fatto accertato, gli
elementi essenziali per l’identificazione del trasgressore e la targa del
veicolo con cui è stata commessa la violazione. Nel regolamento sono
determinati i contenuti del verbale” e dell’art. 383, comma 1 del
regolamento dispone: “Il verbale deve contenere l’indicazione del giorno,
dell’ora e della località nei quali la violazione è avvenuta, delle generalità
e della residenza del trasgressore e, ove del caso, l’indicazione del
proprietario del veicolo, o del soggetto solidale, degli estremi della patente
di guida, del tipo del veicolo e della targa di riconoscimento, la sommaria
esposizione del fatto, nonché la citazione della norma violata e le eventuali
dichiarazioni delle quali il trasgressore chiede l’inserzione”; l’art. 201
C.d.S., per contro, dispone che: “qualora la violazione non possa essere
immediatamente contestata, il verbale, con gli estremi precisi e dettagliati
della violazione e con la indicazione dei motivi che hanno reso impossibile la
contestazione immediata, deve, entro novanta giorni dall’accertamento, essere
notificato all’effettivo trasgressore o, quando questi non sia stato
identificato e si tratti di violazione commessa dal conducente di un veicolo a
motore, munito di targa, ad uno dei soggetti indicati nell’art. 196, quale
risulta dai pubblici registri alla data dell’accertamento>>. Nel caso in
esame non è controverso che “la contestazione si ebbe nell’immediatezza, con
raccolta delle dichiarazioni della conducente”. Di conseguenza, secondo gli
Ermellini, “resiste il verbale di contestazione fino a querela di falso, anche
in relazione alla mancanza o inesatta indicazione di particolari del fatto che
si reputino decisivi”. Altresì, “è da escludere il paventato vulnus
difensivo”. Ciò per la basilare ragione che “non si è in presenza di contestazioni
a sorpresa, ma di fatti ben noti alla conducente, proprio perché contestati
nell’immediatezza e ben compresi dalla medesima, tanto da rilasciare
dichiarazione a verbale”. Evidente, infine, “il ben diverso onere descrittivo
nel caso in cui non si versi in presenza di contestazione immediata, diversità
che non avrebbe ragion d’esistere ove anche fosse richiesta al verbalizzante la
indicazione degli estremi precisi e dettagliati della violazione”. Infine, la
Corte di Cassazione censurava anche
l’osservazione del giudice di secondo grado, osservazione secondo cui “una
maggiore analiticità nella descrizione del fatto sarebbe stata necessaria onde
consentirgli di valutare compiutamente l’eventuale consumazione del contestato
illecito, avendo costui ipotizzato che la sommaria descrizione dell’accaduto
impedisse il suo sindacato”. Su tale fronte, invece, valeva una diversa regola iuris, ovvero “fino a querela di falso,
il fatto deve reputarsi quello contestato e in relazione a esso il giudice è
chiamato ad accertare la conformità a diritto della contestazione”.
Per tali motivi la Corte di Cassazione, cassava la
sentenza impugnata e rinviava al Tribunale competente.
Avvocato Anna Maria Cupolillo Staff Giuridico Avvocato Express
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In tema di possesso dei condomini sulle parti comuni,
l’uso della cosa comune e i lavori per il miglior godimento della stessa ex
art. 1102 c.c. non possono mai concretizzarsi nell’appropriazione sostanziale
del bene mediante uno spoglio degli altri condomini, sicché l’effettuazione di
lavori che incorporino nella proprietà individuale parti condominiali quali le
scale e il pianerottolo si concretizzano in una turbativa del possesso che
legittima il Condominio o uno dei singoli condomini alla relativa azione di
manutenzione, a nulla rilevando che tali parti comuni siano poste a servizio
esclusivo di una porzione dello stabile di proprietà esclusiva. Questo è quanto
stabilito dal Tribunale di Genova, sez. III, ordinanza 23 giugno 2021.
Il caso. Due condomine proponevano azione in via principale ex art. 1168
c.c., ed in subordine ex art. 1170 c.c., nonché ex art. 703
c.p.c., nei confronti della proprietaria di due appartamenti, per la
reintegrazione nel possesso (o in subordine la manutenzione del possesso) a
seguito di spoglio, violento e clandestino commesso dalla condomina resistente accusata
di aver inglobato parti comuni condominiali (pianerottoli e scale) all’interno
dei propri appartamenti, in tal modo unendoli e collegandoli. Il giudice di
primo grado emetteva ordinanza di rigetto del ricorso, ritenendo che le
ricorrenti non godessero di un legittimo possesso dei beni, pur dando per
assodato che oggetto dello spoglio fossero delle parti comuni condominiali e
che le ricorrenti ne fossero comproprietarie. In particolare, il giudice di prime cure evidenziava che, in
relazione alla categoria dei beni condominiali arrecanti un’utilità soggettiva
ai condomini, era necessario che il ricorrente provasse uno specifico utilizzo
del bene da parte del condomino-comproprietario, pena il rigetto della domanda
possessoria.
Avverso tale ordinanza le ricorrenti proponevano
reclamo al Collegio, lamentando la violazione e falsa applicazione degli artt.
1168 e 1170 c.c., con riferimento agli artt. 1102 e 1117 c.c.. Il Collegio,
infatti, affermava che la porzione di pianerottolo e la scala oggetto del
procedimento possessorio costituivano parti comuni dell’edificio in base a
quanto disposto dall’art. 1117, n.1, c.c..
Era pacifico dal confronto tra la situazione preesistente e quella
attuale – fotografie prodotte da entrambe le parti – che la parte
resistente/reclamata con la condotta ed i lavori denunciati dalle
ricorrenti/reclamanti aveva “incorporato/inglobato” nell’unità immobiliare di
sua esclusiva proprietà una porzione del pianerottolo che si trovava subito
dopo il portone di ingresso dell’edificio su via e le scale che consentivano in
precedenza l’accesso al piano seminterrato o terzo sottostrada e, di fatto,
aveva in questo modo “unito” l’appartamento al livello della strada con il
sottostante appartamento, sempre di sua esclusiva proprietà, “utilizzando” le
scale condominiali. Secondo la giurisprudenza
della Suprema Corte – almeno a livello di massime ufficiali (tra le tante:
Cassazione n. 8119/2004; Cassazione n. 16496/2005; Cassazione n.24471/2017) “in
tema di possesso dei condomini sulle parti comuni distingue astrattamente il
c.d. compossesso oggettivo relativo a cose, impianti, servizi che siano
“oggettivamente” utili alle singole unità immobiliari, a cui sono collegati
materialmente o per destinazione – ad esempio il suolo, le fondazioni, il
tetto, la facciata – dal compossesso c.d. soggettivo relativo a cose, impianti
e servizi utili “soggettivamente” tanto che la loro unione materiale o la
destinazione funzionale ai piani o porzioni di piano dipende dall’attività dei
rispettivi proprietari – ad esempio scale, portoni, portici – ma nelle singole
fattispecie esaminate dalla giurisprudenza si possono rinvenire precedenti
favorevoli alla tesi delle reclamanti.” Sul punto, il Supremo Collegio aveva
già avuto modo di affermare che, in tema di possesso dei condomini sulle parti
comuni, “l’uso della cosa comune e i lavori per il miglior godimento della
stessa ex art. 1102 c.c. non possono mai concretizzarsi
nell’appropriazione sostanziale del bene mediante uno spoglio degli altri
condomini, sicché l’effettuazione di lavori che incorporino nella proprietà
individuale parti condominiali quali le scale e il pianerottolo si
concretizzano in una turbativa del
possesso che legittima il condominio o uno dei singoli condomini alla relativa
azione di manutenzione, a nulla rilevando che tali parti comuni siano poste a
servizio esclusivo di una porzione dello stabile di proprietà esclusiva” (Cassazione
Civile, ordinanza 11 settembre 2020, n. 18929).
Nel caso de quo, pertanto, nonostante l’uso sporadico delle scale e del
pianerottolo da parte delle ricorrenti, l’appropriazione avvenuta mediante
“fisica incorporazione/inglobamento” dei beni condominiali nella proprietà
esclusiva della condomina, con alterazione e sottrazione definitiva alla
possibilità di godimento collettivo, non può considerarsi ammissibile e configura
uno spoglio del compossesso: nello specifico, il Collegio evidenziava che
l’incorporazione della porzione di pianerottolo e delle scale nella sua proprietà
esclusiva, con conseguente “fisica impossibilità” di raggiungere il livello
dell’edificio posto al piano seminterrato, ledeva anche il c.d. “compossesso
oggettivo” di beni ex art. 1117, n. 1, c.c., che erano
“oggettivamente utili” alle singole unità immobiliari, per destinazione
materiale e funzionale.
Per tali motivi, il Collegio accoglieva il reclamo e
revocava l’ordinanza impugnata.
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È legittimo il licenziamento per giusta causa qualora la
condotta della ricorrente letta come preordinata a rappresentare un adempimento
in realtà inesistente e volta, pertanto, dolosamente ad eludere il controllo
datoriale, connoti quella gravità tale da pregiudicare l’affidabilità del
datore sull’esatto adempimento delle prestazioni future. Questo è quanto
stabilito dalla Cassazione Civile, sez. lav., ordinanza n. 22370/2021,
depositata il 5 agosto.
Il caso. Una dipendente di una struttura di
vendita veniva licenziata dall’azienda per cui lavorava per i ‘report’ relativi
ai “presunti” contatti con i clienti, contatti che si rivelavano solo virtuali
in molti casi, infatti, numerosi clienti non avevano ricevuto la visita della
lavoratrice. La lavoratrice impugnava il licenziamento per giusta causa. La Corte
d’Appello distrettuale confermava la decisione del Tribunale e rigettava la
domanda proposta dalla lavoratrice nei confronti della Società datrice di
lavoro avente ad oggetto la declaratoria di illegittimità del licenziamento
disciplinare intimatole per giusta causa motivata dall’infedele compilazione
dei report per sette giornate e dallo svolgimento nelle medesime giornate di
attività private estranee alle mansioni. I giudici di seconde cure ritenevano “provato,
almeno in parte, l’addebito relativo alla mancata effettuazione delle visite
indicate nei ‘report’ predisposti (ventiquattro clienti su quaranta)” e
sussistente, “la giusta causa, connotandosi gravemente l’infedele
rappresentazione di attività esterne alla sede aziendale, in realtà non
svoltesi, per l’intento di precostituirsi l’apparenza di un adempimento di
fatto inesistente, al fine di eludere il controllo datoriale sulla regolarità
dell’adempimento medesimo, così da integrare la violazione degli obblighi di
fedeltà e diligenza idonea a ledere il vincolo fiduciario”.
Avverso tale sentenza la lavoratrice proponeva ricorso
per cassazione. In sostanza la lavoratrice sosteneva “l’inconfigurabilità di un
inadempimento” da parte sua “degli obblighi contrattuali in rapporto al mancato
accertamento di attività estranea alle mansioni affidate, al difetto di una
programmazione di dell’attività di visita alla clientela che consentisse di
individuare eventuali carenze nell’esecuzione di quell’attività, carenze
peraltro smentite dai risultati commerciali conseguiti nell’espletata opera di “promotrice”,
l’assenza di un intento doloso nell’irregolare predisposizione dei report e,
pertanto, la non riconducibilità di tale condotta alle fattispecie di cui al
‘codice disciplinare’ date dalla dolosa scritturazione delle presenze o
dall’abuso di fiducia”. Secondo gli Ermellini le doglianze della lavoratrice
andavano rigettate sulla base dell’ammissione, da parte della stessa, della
mancata effettuazione delle visite a ventiquattro clienti nominativamente
individuati dei quaranta indicati nei ‘report’ ” relativi a ben sette giornate.
Di conseguenza, avevano ritenuto di poter attribuire rilevanza ai fini del
giudizio all’ “inadempimento così accertato, dato dalla sola mancata
effettuazione delle visite viceversa indicate come eseguite nei report,
considerando, dunque, questi idonei ad integrare una falsa attestazione
dell’attività eseguita”. Da ciò i giudici facevano discendere del tutto
plausibilmente la lettura della condotta della ricorrente come preordinata a
rappresentare un adempimento in realtà inesistente, volta, pertanto,
dolosamente ad eludere il controllo datoriale e così connotata da quella
gravità tale da pregiudicare l’affidabilità del datore sull’esatto adempimento
delle prestazioni future ed idonea a sostenere l’invocata giusta causa.
Per tali motivi la Corte di Cassazione rigettava il
ricorso e condannava parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di
legittimità.
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In tema di competenza per territorio, ove un avvocato abbia presentato
ricorso per ingiunzione per ottenere il pagamento delle competenze
professionali da un proprio cliente, avvalendosi del foro speciale di cui agli
artt. 637, comma 3, c.p.c., e 14, comma 2, D.Lgs. n. 150/2011, il rapporto tra
quest’ultimo foro ed il foro speciale della residenza o del domicilio del
consumatore, previsto dall’art. 33, comma 2, lett. u), D.Lgs. n. 206/2005, va
risolto a favore del secondo, in quanto di competenza esclusiva, che prevale su
ogni altra, in virtù delle esigenze di tutela, anche sul terreno processuale,
che sono alla base dello statuto del consumatore. Questo è quanto stabilito
dalla Corte di Cassazione, sez. VI – 2, ordinanza del 28.07.2021, n. 21647.
Il caso. Un avvocato conveniva la propria assistita per
vedersi riconoscere il compenso di Euro 28.229,56 per l’attività svolta a suo
favore in un giudizio di divisione ereditaria. Il Tribunale dichiarava la
propria incompetenza in quanto la convenuta, in qualità di “consumatore”, aveva rinunciato al foro
di cui al D.Lgs. n. 206/2005 ed alla tutela ad ella accordata dalla disciplina
di cui al menzionato decreto legislativo.
Avverso tale ordinanza l’avvocato proponeva ricorso per regolamento di
competenza evidenziando che il consumatore non poteva eccepire l’incompetenza
del foro di cui al D.Lgs. n. 206/2005, né il giudice poteva rilevarla
d’ufficio, essendo tale foro prefigurato a protezione del consumatore e da lui
non derogabile. Secondo la Corte di Cassazione andava premesso che la qualifica
di consumatore di cui al D.Lgs. n. 206/2005, art. 3 – rilevante ai fini della
identificazione del soggetto legittimato ad avvalersi della tutela di cui al
citato D.Lgs., art. 33 – spettava alle sole persone fisiche, allorché
concludessero un contratto per la soddisfazione di esigenze della vita
quotidiana estranee all’attività imprenditoriale o professionale eventualmente;
su tale scorta era innegabile che la resistente era consumatore. La Corte di
Cassazione, infatti, affermava che “in tema di competenza per territorio, ove
un avvocato abbia presentato ricorso per ingiunzione per ottenere il pagamento
delle competenze professionali da un proprio cliente, avvalendosi del foro
speciale di cui agli artt. 637, comma 3, c.p.c. e 14, comma 2, D.Lgs. n.
150/2011, il rapporto tra quest’ultimo foro ed il foro speciale della residenza
o del domicilio del consumatore, previsto dall’art. 33, comma 2, lett. u), D.Lgs.
n. 206/2005, va risolto a favore del secondo, in quanto di competenza esclusiva,
che prevale su ogni altra, in virtù delle esigenze di tutela, anche sul terreno
processuale, che sono alla base dello statuto del consumatore” (Cass. Civ.,
sez. VI, ord. 12.03.2014, n. 5703). Pertanto, il foro del consumatore prevaleva
su altri fori, anche “speciali”, con la conseguenza che qualora il consumatore fosse
citato dinanzi al “suo” foro, non poteva eccepirne l’incompetenza e la
competenza di altri fori, in virtù del principio per cui era l’attore che
sceglieva il giudice competente; viceversa, qualora il D.Lgs. n. 206/2005, la
competenza del foro del consumatore poteva essere derogata a favore di un altro
foro. Altresì, la giurisprudenza di merito aveva puntualizzato che “qualora le
parti abbiano pattuito una clausola convenzionale in deroga al foro del
consumatore, come tale da presumersi vessatoria, qualora il professionista citi
in giudizio il consumatore davanti al foro a lui riferibile, sul presupposto
della vessatorietà di tale clausola, compete al consumatore che invece la
ritenga valida e ne eccepisca l’esistenza dare la dimostrazione che essa non è
vessatoria e, quindi, provare che vi è stata la trattativa, dovendo altrimenti
ritenersi la causa correttamente instaurata davanti al foro del consumatore
convenuto” (Cass,. Civ., sez. 25.01.2018, n. 1951). Nel caso de quo, i Giudici
osservavano che non era stata pattuita alcuna clausola convenzionale in deroga
al foro di cui al D.Lgs. n. 206/2005, con la conseguenza che il foro del
consumatore doveva individuarsi nel luogo di residenza della convenuta.
Per tali motivi, la Corte di Cassazione accoglieva il ricorso per
regolamento di competenza, cassava l’ordinanza del Tribunale incompetente e
dichiarava la competenza del Tribunale.
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E’ compito dell’assemblea, e per essa
del suo presidente, controllare la regolarità degli avvisi di convocazione e
darne conto tramite verbalizzazione, sulla base dell’elenco degli aventi
diritto a partecipare alla riunione eventualmente compilato dall’amministratore
(elenco che può essere a sua volta allegato al verbale o inserito tra i
documenti conservati nell’apposito registro), trattandosi di una delle
prescrizioni di forma richieste dal procedimento collegiale (avviso di
convocazione, ordine del giorno, costituzione, discussione, votazione, ecc.),
la cui inosservanza importa l’annullabilità della delibera, in quanto non presa
in conformità alla legge. Questo è quanto
stabilito dal Tribunale di Modena, sentenza n. 732/2021, depositata il 5
maggio.
Il caso. Un Condominio conveniva in giudizio l’ex amministratore condominiale
chiedendo l’accertamento della responsabilità professionale di questi per
irregolare convocazione dell’assemblea (la cui delibera era stata impugnata da
due condomini) e di conseguenza la sua condanna al risarcimento dei danni
subiti al termine del giudizio di impugnazione. In merito all’impugnazione da
parte dei due condomini, l’adito Tribunale dichiarava la cessazione
della materia del contendere a seguito dell’adozione, medio tempore, di una
nuova delibera sostitutiva di quella assoggettata ad impugnazione, era stata
riconosciuta la sussistenza di un vizio inerente la irregolare comunicazione ai
condomini ricorrenti della convocazione assembleare. Per tali ragioni il
Tribunale condannava il Condominio a rifondere ai condomini impugnanti
l’importo complessivo pari ad € 6.280,19. L’ex amministratore condominiale, chiedeva preliminarmente di essere
autorizzato a chiamare in causa la propria compagnia assicurativa ed eccepiva,
nel merito, l’infondatezza dell’avversa pretesa, atteso che: a) non sussisteva
interesse ad agire, non risultando l’avvenuto pagamento dell’importo da parte
del Condominio; b) l’annullamento di una delibera assembleare a seguito di
ricorso non presupponeva necessariamente un errore dell’amministratore
condominiale, il quale aveva peraltro provveduto correttamente alla convocazione dell’assemblea tramite consegna
dell’avviso presso l’ufficio del marito di uno dei due condomini seguendo le
istruzioni ricevute. Il giudice di prime cure stabiliva che “E’ perciò
compito dell’assemblea, e per essa del suo presidente, controllare la
regolarità degli avvisi di convocazione e darne conto tramite verbalizzazione,
sulla base dell’elenco degli aventi diritto a partecipare alla riunione
eventualmente compilato dall’amministratore (elenco che può essere a sua volta
allegato al verbale o inserito tra i documenti conservati nell’apposito
registro), trattandosi di una delle prescrizioni di forma richieste dal
procedimento collegiale (avviso di convocazione, ordine del giorno,
costituzione, discussione, votazione, ecc.), la cui inosservanza importa
l’annullabilità della delibera, in quanto non presa in conformità alla legge .”
Tale principio era stato di recente ripreso dalla Suprema Corte secondo cui
“L’amministratore non è tenuto al risarcimento dei danni, individuati nelle
spese processuali liquidate in favore del condomino che ha vittoriosamente
impugnato, in quanto non convocato, le deliberazioni assunte dall’assemblea,
essendo compito dell’assemblea il controllo della regolarità della sua
convocazione” (Cass. civ. Sez. II, 18/11/2019, n. 29878). Alla luce di tale
orientamento doveva essere esclusa la sussistenza di un nesso causale tra la
condotta dell’ex amministratore ed il danno subito dal Condominio attore. Ne
conseguiva che il Condominio attore, soccombente veniva condannato dunque al
pagamento delle spese di lite, comprese quelle sostenute dai chiamati in
garanzia; ed invero queste ultime, secondo il principio costantemente affermato
dalla giurisprudenza, erano legittimamente poste a carico della parte che,
rimasta soccombente, avesse provocato e giustificato la chiamata, e non
potevano gravare sul chiamante, quando questi non fosse a sua volta rimasto
soccombente, salva in ogni caso la compensazione per giusti motivi (Cass., n.
11743/2003; n. 6754/2001; n. 12689/1998; n. 3956/1994).
Per tali motivi, il Tribunale rigettava la domanda del Condominio.
Avvocato Anna Maria Cupolillo Staff Giuridico Avvocato Express
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