Se il momento perfezionativo del deposito telematico
va cronologicamente ricondotto alla ricezione della ricevuta di accettazione
(cd. seconda PEC), lo stesso è subordinato all’esito positivo dei controlli
automatici (terza PEC) e manuali (quarta PEC). Questo è quanto stabilito dalla
Corte di Cassazione, sez. VI Civile – 1, sentenza n. 1956/21, depositata il 28
gennaio.
Il caso. La Corte d’Appello distrettuale dichiarava inammissibile il reclamo
spiegato da una s.r.l. nei confronti della sentenza dichiarativa di fallimento.
Avverso tale
sentenza la società proponeva ricorso per cassazione lamentando la violazione
dell’art. 16-bis del D.L. n. 179/2012, così come modificato dal D.L. n.
90 del 2014, art. 51, censurando la sentenza impugnata per aver ritenuto
tardivo il deposito dell’atto di reclamo avverso sentenza dichiarativa di
fallimento sul rilievo che la società reclamante non avesse prodotto la c.d.
terza pec. Secondo gli Ermellini, le Sezioni Unite di questa Corte
avevano confermato il principio, già più volte affermato, secondo cui,
“allorquando sia denunciato un error in procedendo, la Corte di Cassazione è
anche giudice del fatto ed ha il potere di esaminare direttamente gli atti di
causa; tuttavia è necessario che la parte ricorrente indichi gli elementi
individuanti e caratterizzanti il “fatto processuale” di cui richiede
il riesame e, quindi, che il corrispondente motivo sia ammissibile e contenga,
per il principio di autosufficienza del ricorso, tutte le precisazioni e i
riferimenti necessari ad individuare la dedotta violazione processuale.
Infatti, il potere-dovere della Corte di esaminare direttamente gli atti
processuali non significa che la medesima debba ricercarli autonomamente,
spettando, invece, alla parte indicarli (Cass., Sez. Un., 26 febbraio 2019, n.
5640).” Tuttavia, la parte ricorrente doveva indicare gli elementi individuanti
il fatto processuale di cui si domandava il riesame. In merito al
perfezionamento del deposito telematico, la Suprema Corte affermava che “va cronologicamente fissato al
momento della seconda pec, come stabilisce l’invocato art. 16 bis, ma
altrettanto vero è che detto perfezionamento è subordinato all’esito positivo
dei successivi controlli automatici (terza PEC) e manuali (quarta PEC), ben
potendo accadere che i controlli automatici riportino un errore, ed in
particolare un errore bloccante, riguardo al quale la cancelleria non può
forzare il deposito, trattandosi di eccezioni non gestite o non gestibili che
inibiscono materialmente l’accettazione, e, dunque, l’entrata dell’atto o del
documento nel fascicolo processuale”.
Per tali
motivi la Corte di Cassazione dichiarava inammissibile il ricorso.
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Il processo esecutivo è viziato da invalidità formale
qualora sia iniziato senza essere preceduto dalla notificazione del titolo
esecutivo e/o dell’atto di precetto. Questo è quanto stabilito dalla Corte di
Cassazione, sez. VI Civile – 3, ordinanza n. 1096/2021, depositata il 21
gennaio.
L’attore
intimava ai fratelli precetto di pagamento della somma di Euro 120.656,61,
sulla base di un rogito notarile di cessione di quote ereditarie sottoscritto
fra le parti nel 2015. I debitori precettati proponevano opposizione ex art.
617 c.p.c., comma 1, lamentando, fra l’altro, che l’atto di precetto non era
stato preceduto dalla notificazione del titolo esecutivo. Il Tribunale
rigettava l’opposizione, rilevando che la mera contestazione formale della
mancata notificazione del titolo esecutivo, non accompagnata dalla deduzione di
una specifica lesione dei diritti di difesa che fosse derivata da tale vizio,
determinava l’irrilevanza del vizio medesimo.
Avverso
tale sentenza i soccombenti proponevano ricorso per cassazione. I
ricorrenti deducevano la violazione degli artt. art. 479, 480 c.p.c., comma 2,
e 617 c.p.c., sostenendo che la mancata notificazione del titolo esecutivo
determinava la nullità dell’atto di precetto. Il Supremo Collegio affermava che “Trova, infatti, applicazione il principio secondo cui
il processo esecutivo, che sia iniziato senza essere preceduto dalla
notificazione o dalla valida notificazione del titolo esecutivo e/o dell’atto
di precetto, è viziato da invalidità formale, che può essere fatta valere con
il rimedio dell’opposizione agli atti esecutivi” (Cass. Civ. Sez. VI – 3,
Ordinanza n. 24662 del 31/10/2013; Cass. Civ. Sez. III, Sentenza n. 15275 del
04/07/2006)”.
Per tali motivi la Corte di Cassazione accoglieva il
motivo di ricorso, cassava la decisione impugnata e dichiarava la nullità
dell’atto di precetto.
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In applicazione del principio di causalità, l’onere
delle spese giudiziali sostenute dal terzo chiamato in garanzia, va posto a
carico della parte soccombente che ha provocato la chiamata, una volta
rigettata la domanda principale, anche se l’attore soccombente non ha formulato
alcuna domanda nei confronti del terzo. Questo è quanto stabilito dalla Corte
di Cassazione, sez. VI Civile – 2, ordinanza n. 511/2021, depositata il 14
gennaio.
Il caso. Un appartamento adibito a B&B veniva allagato da liquidi provenienti
dalla fognatura condominiale così i titolari della società (conduttori del
bene) citavano in giudizio sia la proprietà che il Condominio, chiedendone la
condanna al risarcimento dei danni subiti. Innanzi al Tribunale competente, oltre
alla compagnia di assicurazione del Condominio, intervenivano anche i singoli
condomini dello stabile. Il Tribunale condannava il Condominio al risarcimento
del danno e l’assicurazione a tenere quest’ultimo indenne dalla condanna. Tra
conduttore e locatari veniva dichiarata la cessata materia del contendere posto
che, nelle more, era tra di loro intervenuta una transazione.
Avverso tale sentenza l’Assicurazione interponeva
gravame contestando la sussistenza della
chiamata in garanzia, i soci del B&B (società medio tempore cessata e
cancellata dal registro delle imprese) formulavano autonomo appello, in cui si
dolevano del quantum del risarcimento e i singoli condomini resistevano agli
appelli. La Corte d’Appello distrettuale accoglieva le eccezioni della
Compagnia assicuratrice, rigettando quelle dei danneggiati, che venivano anche
condannati, in solido con i condomini e il Condominio, al rimborso delle spese
del doppio grado di giudizio, in favore dell’assicurazione; sui medesimi soci,
inoltre, veniva addossato l’onere della refusione delle spese del giudizio di
appello, in favore dei condomini.
Avverso tale sentenza i soci del B&B proponevano
ricorso per cassazione con due motivi di diritto. Con il primo motivo denunciavano
la violazione degli artt. 91 c.p.c. e 92 c.p.c., secondo la modifica introdotta
nel 2014, contestando la condanna al pagamento delle spese del secondo grado di
giudizio in favore dell’assicurazione e dei condomini e deducendo che la
questione trattata con riferimento alla posizione dei soci di società
cancellata, era da qualificare come di assoluta novità. Conseguentemente la
Corte d’Appello avrebbe dovuto applicare la compensazione delle spese di lite.
Sul punto, la Corte aveva rilevato l’inammissibilità
della doglianza, in quanto alla fattispecie
non risultava applicabile la previsione di cui all’art. 92 c.p.c. nella
formulazione introdotta dal legislatore nel 2014, occorrendo invece far
riferimento alla originaria formulazione della norma che richiedeva la presenza
di giusti motivi, andava ribadito il costante orientamento della Corte secondo
cui (Cass. n. 11329/2019) “la facoltà di disporre la compensazione delle spese
tra le parti rientra nel potere discrezionale del giudice di merito, il quale
non è tenuto a dare ragione con una espressa motivazione del mancato uso di
tale sua facoltà, con la conseguenza che la pronuncia di condanna alle spese,
anche se adottata senza prendere in esame l’eventualità di una compensazione,
non può essere censurata in cassazione, neppure sotto il profilo della mancanza
di motivazione” (conf. Cass. S.U. n. 14989/2005; Cass. n. 7607/2006). Con il secondo motivo veniva
denunciata la violazione dell’art. 91 c.p.c., in relazione all’art. 106 c.p.c.,
in merito alla condanna in solido alla refusione delle spese in favore della
chiamata, rilevando che in parziale riforma della pronuncia di primo grado,
l’assicurazione era stata ritenuta esclusa dall’onere di manleva del
Condominio, ma quest’ultimo era comunque stato condannato al risarcimento del
danno, in entrambi i gradi di giudizio. Le spese di lite andavano, pertanto, poste
a carico dei soccombenti (Condominio e condomini) poiché la domanda del B&B
era stata accolta e le spese della terza chiamata in garanzia dovevano gravare
sulla parte che aveva provveduto alla stessa chiamata. Tale ragionamento veniva
ritenuto fondato dalla Suprema Corte il quale aveva confermato il consolidato
orientamento secondo il quale le spese processuali sostenute dal chiamato in
causa, dovevano essere rifuse dalla parte soccombente che aveva azionato una
pretesa rivelatasi infondata, ovvero, da quella che aveva resistito ad una
pretesa rivelatasi fondata. Colui che aveva visto accogliere la propria
richiesta, seppure parzialmente, non poteva, pertanto, essere condannato a
rimborsare le spese di lite sostenute dal terzo chiamato in garanzia, laddove
venisse rigettata la domanda di manleva formulata dal convenuto, nei confronti
del chiamato.
Per tali motivi la Corte di Cassazione accoglieva il secondo motivo di ricorso, e dichiarato
inammissibile il primo motivo, cassava la sentenza impugnata in relazione al
motivo accolto e decidendo nel merito, poneva le spese del giudizio di primo
grado, come liquidate dal giudice di appello in favore della Compagnia di assicurazione, in solido a carico del Condominio e dei condomini
intervenuti.
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R. In materia di contratto di conto corrente bancario, la decorrenza della prescrizione delle rimesse solutorie, operate cioè su di un conto in passivo, quando non sia stata concessa al cliente un’apertura di credito, oppure su di un conto scoperto, essendo i versamenti destinati a coprire quella parte del passivo eccedente il limite dell’accreditamento, matura sempre dalla data del pagamento.
(Corte di Cassazione, sez. I Civile, sentenza n. 29411/20; depositata il 23 dicembre)
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Con riferimento al credito retributivo insinuato dal
lavoratore allo stato passivo fallimentare, in base ai principi in materia di
efficacia probatoria delle buste paga rilasciate dal datore di lavoro, esse
sono pienamente valide ove munite, alternativamente, della firma, della sigla o
del suo timbro. Questo è quanto stabilito dalla Corte di Cassazione, sez.
Lavoro, ordinanza n. 74/2021, depositata il 7 gennaio.
Il caso. Il Tribunale competente rigettava
l’opposizione proposta, ai sensi dell’art. 98 L. Fall., avverso lo stato
passivo del fallimento della società, da cui era stata escluso il credito,
dalla medesima insinuato, di Euro 10.244,85 a titolo di T.f.r. e ultime tre
mensilità. Esso ne riteneva il difetto di prova per la mancata sottoscrizione
delle buste paga prodotte, in violazione della L. n. 4 del 1953, art. 1,
nell’inapplicabilità dell’art. 2735 c.c. e nella loro inopponibilità, in
assenza di data certa, al curatore avente qualità di terzo in sede di
accertamento dello stato passivo.
Avverso tale sentenza la lavoratrice proponeva ricorso
per cassazione. Il Supremo Collegio, in
via di premessa, ribadiva il principio generale di terzietà del curatore in
sede di accertamento del passivo (Cass. 12 agosto 2016, n. 17080; Cass. 20
ottobre 2015, n. 21273; Cass. s.u. 20 febbraio 2013, n. 4213; Cass. s.u. 28
agosto 1990, n. 8879), essendo peraltro noto che l’inopponibilità riguardasse
la data della scrittura prodotta, ma non il negozio: “sicché, esso e la sua
stipulazione in data anteriore al fallimento possono essere oggetto di prova,
prescindendo dal documento, con tutti gli altri mezzi consentiti
dall’ordinamento, salve le limitazioni derivanti dalla natura e dall’oggetto
del negozio stesso” (Cass. 7 ottobre 1963, n. 2664; Cass. 25 febbraio 2011, n.
4705; Cass. 5 febbraio 2016, n. 2319; Cass. 22 marzo 2018, n. 7207). Secondo
gli Ermellini il Tribunale aveva correttamente applicato i principi in materia
di efficacia probatoria, “in merito al credito retributivo insinuato dal
lavoratore allo stato passivo fallimentare, delle buste paga rilasciate dal
datore di lavoro e pienamente valide come prova, ove munite, alternativamente,
della firma, della sigla o del suo timbro (Cass. 1 settembre 2015, n. 17413):
ferma restando, tuttavia, la facoltà della curatela controparte di contestarne
le risultanze con altri mezzi di prova, ovvero con specifiche deduzioni e
argomentazioni volte a dimostrarne l’inesattezza, la cui valutazione è rimessa
al prudente apprezzamento del giudice” (Cass. 5 luglio 2019, n. 18169; Cass. 11
dicembre 2019, n. 32395).
Per tali
motivi la Corte di Cassazione rigettava il ricorso e condannava la lavoratrice
alla rifusione, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio di
legittimità.
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