R. «Il potere del giudice d’appello di procedere d’ufficio ad un nuovo regolamento delle spese processuali, quale conseguenza della pronuncia adottata, sussiste in caso di riforma in tutto o in parte della sentenza impugnata, in quanto il relativo onere deve essere attribuito e ripartito in relazione all’esito complessivo della lite, laddove, in caso di conferma della decisione impugnata, la pronuncia sulle spese può essere modificata soltanto se il relativo capo della decisione abbia costituito oggetto di uno specifico motivo d’impugnazione».
(Corte di Cassazione, sez. VI Civile – 2, ordinanza n. 7616/21; depositata il 18 marzo)
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In caso di infiltrazioni d’acqua provenienti dal manufatto
per la mancata manutenzione sono corresponsabili un Condominio ed il proprietario
di un terrazzo ricoprente quest’ultimo. Questo è quanto stabilito dalla Corte
di Cassazione, sez. VI Civile – 2 ordinanza n. 6816/2021, depositata l’11
marzo.
Il caso. Con atto di citazione due condomini convenivano in giudizio la proprietaria
del terrazzo di copertura del Condominio nel quale entrambi risiedevano, nonché
lo stesso Condominio, affinché fossero
condannati in solido all’esecuzione dei lavori necessari ad eliminare le
infiltrazioni verificatesi negli appartamenti di loro proprietà in conseguenza
delle precipitazioni, con la condanna altresì al risarcimento dei danni.
Deducevano che la causa dei danni era da addebitare sia alla proprietaria
esclusiva del terrazzo di copertura del fabbricato, sia al Condominio, che
aveva omesso di assicurare la necessaria manutenzione e impermeabilizzazione
della terrazza. La base normativa dell’azione dei danneggiati, infatti, era l’articolo 1126
c.c., che prevedeva che “quando l’uso dei lastrici solari o di una parte di
essi non è comune a tutti i condomini, quelli che ne hanno l’uso esclusivo sono
tenuti a contribuire per un terzo nella spesa delle riparazioni o ricostruzioni
del lastrico: gli altri due terzi sono a carico di tutti i condomini
dell’edificio o della parte di questo a cui il lastrico solare serve in
proporzione del valore del piano o della porzione di piano di ciascuno”, nonché
l’art. 2055 c.c. dove si leggeva al primo comma che “se il fatto dannoso è
imputabile a più persone, tutte sono obbligate in solido al risarcimento del
danno”. L’omessa manutenzione, imputabile sia al Condominio che ai condomini,
era stata la causa del danno e in ragione di ciò entrambi i convenuti dovevano
secondo l’attore essere condannati. Si costituiva in giudizio il Condominio,
chiedendo il rigetto della domanda o, comunque, che la condanna fosse irrogata
alla sola condomina che aveva omesso l’ordinaria manutenzione della terrazza.
Il Tribunale competente accoglieva la domanda attorea soltanto nei confronti
del Condominio.
Avverso tale sentenza il Condominio interponeva appello chiedendo l’estensione
della condanna anche alla proprietaria del terrazzo. La Corte d’Appello affermava
che la condanna fosse stata erroneamente comminata al solo Condominio quando,
ai sensi di legge, anche la condomina proprietaria della terrazza doveva essere
considerata come responsabile in solido. I giudici di secondo grado dopo avere evidenziato che dalle indagini peritali
emergeva che le cause delle infiltrazioni oggetto di causa erano da individuare
in parte nella non corretta impermeabilizzazione del terrazzo di copertura di
proprietà esclusiva della convenuta ed in parte nelle pessime condizioni in cui
versava il cornicione con l’annesso canale di gronda, riteneva che dovesse
pervenirsi alla condanna in solido del condominio e della proprietaria
esclusiva del bene alla luce di quanto affermato dalle Sezioni Unite con la
sentenza n. 9449/2016 secondo la quale “in tema di condominio negli edifici, qualora l’uso del
lastrico solare (o della terrazza a livello) non sia comune a tutti i
condomini, dei danni da infiltrazioni nell’appartamento sottostante rispondono
sia il proprietario, o l’usuario esclusivo, quale custode del bene ai sensi
dell’art. 2051 c.c., sia il condominio in forza degli obblighi inerenti
l’adozione dei controlli necessari alla conservazione delle parti comuni
incombenti sull’amministratore ex art. 1130, comma 1, n. 4, c.c., nonché
sull’assemblea dei condomini ex art. 1135, comma 1, n. 4, c.c., tenuta a
provvedere alle opere di manutenzione straordinaria; il concorso di tali
responsabilità va di norma risolto, salva la rigorosa prova contraria della
specifica imputabilità soggettiva del danno, secondo i criteri di cui all’art.
1126 c.c., che pone le spese di riparazione o di ricostruzione per un terzo a
carico del proprietario o dell’usuario esclusivo del lastrico (o della
terrazza) e per i restanti due terzi a carico del condominio”. La Corte
d’Appello riformulava parzialmente la sentenza di primo grado estendendo la
responsabilità anche alla condomina.
Avverso tale sentenza la parte soccombente proponeva ricorso per cassazione
lamentando la violazione e la falsa
applicazione degli artt. 1126 e 2055 c.c., in quanto, proprio alla luce dei
principi espressi dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 9449/2016 non sarebbe
stato possibile affermare una responsabilità soldale tra il Condominio ed i
singoli condomini. Secondo gli Ermellini, i Giudici di secondo grado avevano correttamente
deciso sul punto estendendo la condanna anche alla condomina e applicando così
i principi dettati dalle citate Sezioni Unite n. 9449/2016. Inoltre,
affermavano che, in base a quanto affermato dalle Sezioni Unite, in relazione
ai danni provenienti da lastrico solare di proprietà esclusiva, sussisteva una concorrente
responsabilità per la mancata manutenzione del Condominio e del proprietario.
Pertanto, l’omissione di atti conservativi integrava una violazione per il Condominio
per mancata conservazione delle parti comuni (nel caso il lastrico solare
fungesse da copertura per l’edificio) e del Condomino ai sensi dell’art. 2051
c.c., in quanto unico soggetto custode del bene e con una cognizione diretta
del suo stato di conservazione.
Per tali motivi la Corte di
Cassazione accoglieva il ricorso, cassava la sentenza impugnata con rinvio.
Avvocato Anna Maria Cupolillo Staff Giuridico Avvocato Express
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Per ottenere il risarcimento iure proprio del danno non patrimoniale, il
nipote deve fornire la prova di un rapporto di reciproco affetto e solidarietà
con la defunta e non di un rapporto eccedente la fisiologica intensità delle
relazioni con la nonna o un rapporto di convivenza con la stessa, che potranno
invece rilevare in sede di quantificazione del danno. Questo è quanto stabilito
dalla Corte di Cassazione, sez. III Civile, ordinanza n. 5258/2021, depositata
il 25 febbraio.
Il caso. La Corte
d’Appello distrettuale, confermando la pronuncia di primo grado, non riconosceva
il danno non patrimoniale sofferto iure proprio dalla nipote a seguito
dell’uccisione della nonna in un sinistro stradale; per i giudici di seconde
cure l’esistenza di un rapporto costante di affetto e la frequentazione nei
fine settimana non erano sufficienti, era necessaria la prova di un legame più
forte, eccedente l’intensità fisiologica dei rapporti con l’ascendente.
Avverso tale sentenza la nipote proponeva ricorso per cassazione lamentando
che il giudice di merito, pur avendo accertato che la nonna era
partecipe della sua vita, che vi era frequentazione durante le riunioni
familiari, nonché la cura della nipote durante i primi tre anni di vita della
medesima e poi durante i fine settimana, non aveva riconosciuto il danno non
patrimoniale, esigendo la prova di un legame eccedente la normale relazione
affettiva fra vittima e superstite, laddove invece, in assenza di convivenza,
ciò che doveva essere provata era l’esistenza di rapporti costanti di reciproco
affetto e di solidarietà con il familiare defunto. Secondo gli Ermellini “In
tema di domanda di risarcimento del danno non patrimoniale “da
uccisione”, proposta “iure proprio” dai congiunti dell’ucciso,
questi ultimi devono provare l’effettività e la consistenza della relazione
parentale, rispetto alla quale il rapporto di convivenza non assurge a connotato
minimo di esistenza, ma può costituire elemento probatorio utile a dimostrarne
l’ampiezza e la profondità, e ciò anche ove l’azione sia proposta dal nipote
per la perdita del nonno; infatti, poiché la “società naturale”, cui
fa riferimento l’art. 29 Cost., non è limitata alla cd. “famiglia
nucleare”, il rapporto tra nonni e nipoti, per essere ritenuto
giuridicamente qualificato e rilevante, non può essere ancorato alla
convivenza, escludendo automaticamente, in caso di insussistenza della stessa,
la possibilità per tali congiunti di provare l’esistenza di rapporti costanti
di reciproco affetto e solidarietà con il familiare defunto (Cass. n. 7743 del
2020, n. 29332 del 2017 e n. 21230 del 2016)”. La Suprema Corte censurava i Giudici di merito per avere confuso i criteri
relativi al quantum con quello che presiedeva invece all’andebeatur.
Il diritto al risarcimento per la lesione del rapporto parentale prevedeva
infatti che fosse fornita la prova di “rapporti costanti di reciproco affetto e
solidarietà con il familiare defunto”, che dalla motivazione della sentenza di
merito risultavano accertati e che costituivano il presupposto di fatto del
danno risarcibile. L’esistenza invece di un legame eccedente l’ordinario
rapporto di affetto, di cui la Corte d’Appello non aveva ritenuto essere stata
fornita la prova, avrebbe potuto incidere non sull’an bensì sul quantum
e, quindi, sulla liquidazione del danno, così come l’eventuale rapporto di
convivenza.
Per tali motivi la Corte di Cassazione cassava la sentenza e rinviava alla Corte di Appello competente.
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All’assegno
divorzile in favore dell’ex coniuge deve attribuirsi, oltre alla natura
assistenziale, anche natura perequativo-compensativa, che discende direttamente
dalla declinazione del principio costituzionale di solidarietà, e conduce al
riconoscimento di un contributo volto a consentire al coniuge richiedente non
il conseguimento dell’autosufficienza economica sulla base di un parametro
astratto, bensì il raggiungimento in concreto di un livello reddituale adeguato
al contributo fornito nella realizzazione della vita familiare, in particolare
tenendo conto delle aspettative professionali sacrificate. Questo è quanto
stabilito dalla Corte di Cassazione, sez. I Civile, ordinanza n. 4494/2021
depositata il 19 febbraio.
Il caso. La Corte d’appello distrettuale
confermava la decisione di primo grado, che aveva pronunciato la cessazione
degli effetti civili del matrimonio concordatario tra i due coniugi e affidato congiuntamente agli stessi
la figlia minore, con domiciliazione della stessa presso la madre, cui veniva
assegnata la casa coniugale, con obbligo per il marito di corrispondere alla
moglie la somma mensile di Euro 300,00, a titolo di assegno di divorzio, e di
Euro 450,00, a titolo di contributo al mantenimento della figlia, oltre la metà
delle spese straordinarie. In particolare, i giudici d’appello sostenevano che
il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio si poteva desumere dal
reddito percepito dal marito, dal momento che la moglie non aveva mai lavorato,
e dal fatto che i coniugi vivevano in alloggio di proprietà e che non era
dimostrato un rifiuto della moglie a cercare un lavoro; inoltre, non era provato
che il solo marito sostenesse le spese condominiali della casa coniugale di
proprietà dello stesso ma assegnata alla moglie, non poste a suo carico, o le
spese straordinarie della figlia, ripartite, secondo la decisione del
Tribunale, in parti uguali tra i coniugi; doveva essere mantenuto l’importo
dell’assegno divorzile e di mantenimento della figlia minore, considerate, per
quest’ultima, le esigenze correlate all’età ed alla frequenza della scuola
elementare.
Avverso
tale sentenza il coniuge proponeva ricorso per cassazione. Il ricorrente
contestava la valutazione compiuta dai Giudici di merito. A suo parere, infatti, sul fronte
della “determinazione dell’assegno di divorzio” non si era tenuto conto del
reale “tenore di vita goduto dai coniugi durante la convivenza”, essendo il
ricorrente “un operaio con reddito di 1.400 euro mensili netti e proprietario di
un unico immobile, acquistato prima del matrimonio, adibito a casa coniugale ed
assegnato alla moglie”, e non si era compiuta “una verifica dell’inadeguatezza
dei mezzi della moglie, in rapporto alla sua capacità di trovare un lavoro”. Altresì, il ricorrente proponeva l’ipotesi di
“una riduzione dell’assegno in favore
della moglie e della figlia” evidenziando “il vantaggio economico per l’ex
consorte, assegnataria della casa coniugale”, e, allo stesso tempo, si soffermava
sulla “scelta, assunta di comune accordo con l’altro coniuge, di fare
frequentare una scuola privata alla figlia”, annotando però che solo su di lui
era ricaduto “tale onere” dal punto di vista economico. La Suprema Corte, a Sezioni Unite, con la recente
sentenza n. 18287/2018, aveva chiarito, con riferimento ai dati normativi già
esistenti, che: “1) il riconoscimento dell’assegno di divorzio in favore
dell’ex coniuge, cui deve attribuirsi una funzione assistenziale ed in pari
misura compensativa e perequativa, ai sensi dell’art. 5, comma 6, della L. n.
898 del 1970, richiede l’accertamento dell’inadeguatezza dei mezzi dell’ex
coniuge istante, e dell’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive,
applicandosi i criteri equiordinati di cui alla prima parte della norma, i
quali costituiscono il parametro cui occorre attenersi per decidere sia sulla
attribuzione sia sulla quantificazione dell’assegno. Il giudizio dovrà essere
espresso, in particolare, alla luce di una valutazione comparativa delle
condizioni economico-patrimoniali delle parti, in considerazione del contributo
fornito dal richiedente alla conduzione della vita familiare ed alla formazione
del patrimonio comune, nonché di quello personale di ciascuno degli ex coniugi,
in relazione alla durata del matrimonio ed all’età dell’avente diritto; 2)
all’assegno divorzile in favore dell’ex coniuge deve attribuirsi, oltre alla
natura assistenziale, anche natura perequativo-compensativa, che discende
direttamente dalla declinazione del principio costituzionale di solidarietà, e
conduce al riconoscimento di un contributo volto a consentire al coniuge
richiedente non il conseguimento dell’autosufficienza economica sulla base di
un parametro astratto, bensì il raggiungimento in concreto di un livello
reddituale adeguato al contributo fornito nella realizzazione della vita
familiare, in particolare tenendo conto delle aspettative professionali
sacrificate; 3) la funzione equilibratrice del reddito degli ex coniugi,
anch’essa assegnata dal legislatore all’assegno divorzile, non è finalizzata
alla ricostituzione del tenore di vita endoconiugale, ma al riconoscimento del
ruolo e del contributo fornito dall’ex coniuge economicamente più debole alla
formazione del patrimonio della famiglia e di quello personale degli ex
coniugi”. Pertanto, secondo gli Ermellini, nel caso de quo,
il giudizio espresso dalla Corte di merito risultava corretto anche alla luce
dell’orientamento espresso dalle Sezioni Unite nel 2018, essendosi dato rilievo
alla funzione principalmente assistenziale dell’assegno divorzile, sebbene in
concorso con quella perequativa e compensativa (cfr. Cass. 21926/2019), a
fronte dell’accertata disparità economica tra i coniugi successivamente allo
scioglimento del vincolo, della durata non breve del matrimonio e, quanto, alla
richiedente l’assegno, della condizione di disoccupazione e, implicitamente,
della sua oggettiva difficoltà di procurarsi un lavoro, per le condizioni di
età e personali. Anche quanto alla casa coniugale, di proprietà del marito,
essa era stata assegnata alla moglie solo in quanto genitore collocatario della
figlia minore e la Corte di merito aveva ritenuto indimostrata la circostanza
relativa al carico delle spese condominiali sul solo ricorrente. Quanto poi al
contributo per la figlia minore, la censura non era pertinente al decisum,
avendo la Corte rilevato che le spese straordinarie (essenzialmente quelle
relativa a scuola privata cui essa era stata iscritta) andavano ripartite tra i
genitori in parti uguali e non ricadevano quindi, come lamentato, solo sul
padre.
Per tali
motivi la Corte di Cassazione respingeva il ricorso e condannava il ricorrente
al pagamento delle spese processuali del giudizio di legittimità.
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Nessun obbligo di indossare la mascherina per
un’alunna con difetti di ossigenazione certificati e causati dall’uso
prolungato del dispositivo di protezione individuale durante l’intero orario di
lezione. Il pericolo di affaticamento respiratorio, in mancanza di costante
verificabilità tramite saturimetro è infatti troppo grave ed immediato. Questo
è quanto stabilito dal Consiglio di Stato, sez. III, decreto n. 304/2021,
depositato il 26 gennaio.
Il Consiglio di Stato accoglieva l’istanza cautelare proposta dai genitori
di una bambina per la riforma della pronuncia del TAR Lazio concernente l’obbligo
continuativo di indossare la mascherina a scuola per i minori infradodicenni.
Era emerso, infatti,
che “nella classe frequentata dalla minore, non risulta – o comunque dagli atti
non risulta – essere disponibile neppure un apparecchio di controllo della
ossigenazione – saturimetro, strumento di costo minimo e semplicissima
utilizzabilità in casi come quello prospettato, ad opera di ogni insegnante,
per intervenire ai primissimi segnali di difficoltà di respirazione con DPI da
parte del giovanissimo alunno”. I genitori avevano convenuto il MIUR per
ottenere il riconoscimento della possibilità di non fare indossare alla figlia
la mascherina di per il pericolo di affaticamento respiratorio. A sostegno di
ciò, la minore, tramite i genitori, aveva documentato con certificati medici,
ripetutamente, problemi di difetto di ossigenazione per l’uso prolungato del
DPI durante tutto l’orario di lezione. Il Consiglio di Stato riteneva che
“nelle more della camera di consiglio già fissata innanzi al T.A.R., alla
minore non possa essere imposto l’uso del DPI per la durata delle lezioni,
essendo il pericolo di affaticamento respiratorio – in mancanza di una costante
verificabilità con saturimetro – troppo grave e immediato, né ovviamente si può
ipotizzare una sospensione, sino alla decisione cautelare del T.A.R., del
diritto costituzionalmente tutelato della giovane allieva di frequentare il
corso scolastico”.
Per tali
motivi il Consiglio di Stato accoglieva l’istanza cautelare, e sospendeva, nei
confronti degli appellanti, con riguardo all’obbligo della minore di indossare
il DPI durante l’orario scolastico.
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