Quali prove servono per affermare la condominialità del sottotetto?

Quali prove servono per affermare la condominialità del sottotetto?

Al fine di comprendere se il sottotetto abbia natura condominiale è necessario svolgere un’indagine in concreto volta alla verifica che le caratteristiche strutturali e funzionali dell’immobile siano tali da consentire un uso prevalente in funzione della generalità dei condomini, e non solo dei proprietari degli appartamenti siti all’ultimo piano. Questo è quanto stabilito dalla Corte d Cassazione, sez. II Civile, ordinanza n. 9383/2020, depositata il 21 maggio.

Il caso. Alcuni condomini convenivano in giudizio il proprietario dell’appartamento sito all’ultimo piano del Condominio poiché, secondo loro, si era appropriato illegittimamente di una parte del sottotetto. In effetti, il convenuto aveva adibito parte del sottotetto a locale di sgombero del proprio appartamento collocandovi una caldaia, il collettore dell’impianto di riscaldamento e il motore del condizionatore. Per tale motivo gli attori chiedevano al giudice di condannare il convenuto al ripristino dello stato dei luoghi del sottotetto del Condominio dal momento che le opere del convenuto, secondo loro, avevano comportato la violazione dell’art. 1117 c.c., che afferma che “il sottotetto deve presumersi comune, ai sensi dell’art. 1117 c.c., nei casi in cui il vano sovrasti, come nella specie, più appartamenti e sia destinato a servizi comuni” e dell’art. 1102 c.c. nella parte in cui specifica che “Ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto. A tal fine può apportare a proprie spese le modificazioni necessarie per il miglior godimento della cosa. Il partecipante non può estendere il suo diritto sulla cosa comune in danno degli altri partecipanti, se non compie atti idonei a mutare il titolo del suo possesso”. Il Tribunale accoglieva la domanda attorea e condannava il convenuto al ripristino dei locali occupati, sanzionandone l’illegittima appropriazione.

Avverso tale sentenza il convenuto interponeva appello ma la Corte d’Appello distrettuale confermava la sentenza di primo grado.

Avverso tale sentenza l’appellante proponeva ricorso per cassazione lamentando sostanzialmente che la Corte locale non aveva fatto applicazione del principio enunciato dalla Cassazione, secondo il quale il sottotetto, se non diversamente stabilito dal titolo, doveva considerarsi comune nel solo caso in cui, per le sue caratteristiche strutturali e funzionali, risultasse concretamente e oggettivamente destinato all’uso comune; per contro, esso doveva reputarsi pertinenza dell’appartamento, di cui costituiva proiezione, nel caso in cui assolveva all’esclusiva funzione di isolare l’unità abitativa. Il Supremo Collegio sanciva l’error in procedendo della Corte d’Appello, nella parte in cui non aveva correttamente valutato le prove offerte dalle parti. Nel caso in esame, difatti, il sottotetto svolgeva come unica funzione in favore del Condominio quella di consentire il passaggio di un cavo televisivo. Tale elemento non era di per sé considerato sufficiente per dichiarare la funzione prevalentemente condominiale del bene . Sottolineava, infatti, la Corte di Cassazione come “per accertare la natura condominiale o pertinenziale del sottotetto di un edificio, in mancanza del titolo, deve farsi riferimento alle sue caratteristiche strutturali e funzionali, sicché , quando il sottotetto sia oggettivamente destinato (anche solo potenzialmente) all’uso comune o all’esercizio di un servizio di interesse comune, può applicarsi la presunzione di comunione ex art. 1117  comma 1 c.c.; viceversa, allorché il sottotetto assolva all’esclusiva funzione di isolare e proteggere dal caldo, dal freddo e dall’umidità l’appartamento dell’ultimo piano, e non abbia dimensioni e caratteristiche strutturali tali da consentirne l’utilizzazione come vano autonomo, va considerato di pertinenza di tale appartamento”.

Per tali motivi la Corte di Cassazione accoglieva il ricorso e annullava la decisione impugnata, rinviando il giudizio ad altra sezione della Corte d’Appello.

Avv. Anna Maria Cupolillo Staff Giuridico Avvocato Express

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Chi deve pagare le spese di rifacimento delle ringhiere dei balconi?

Chi deve pagare le spese di rifacimento delle ringhiere dei balconi?

Fermo restando che i balconi dell’edificio condominiale non rientrano tra le parti comuni ex art. 1117 c.c., i rivestimenti dei balconi invece devono essere considerati beni comuni se svolgono in concreto una prevalente ed essenziale funzione estetica quali elementi decorativi ed ornamentali essenziali della facciata. Questo è quanto stabilito dalla Corte di cassazione, sez. VI Civile – 2, ordinanza n. 10848/2020, depositata l’8 giugno.

Il caso. Il Tribunale competente confermava la decisione del Giudice di Pace di rigetto dell’impugnazione di una delibera assembleare con cui il Condominio convenuto aveva ripartito tra tutti i condomini le spese per la sostituzione delle ringhieree dei divisori dei balconi. Ad avviso del Tribunale, le ringhiere, che fungevano da parapetto, come i divisori dei balconi, costituivano parte integrante della facciata, con la quale formavano un insieme che si traduceva in una peculiare conformazione del decoro architettonico, con conseguente riconducibilità al novero delle parti comuni dell’edificio.

Avverso tale sentenza il condomino soccombente proponeva ricorso per cassazione con un unico motivo. Il ricorrente deduceva la violazione dell’art. 1117 c.c., dell’art. 1125 c.c., dell’art. 116 c.p.c. e dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, in quanto il Tribunale aveva errato a ricomprendere le ringhiere ed i divisori dei balconi tra le parti condominiali, né aveva spiegato quali fossero le caratteristiche tali da giustificarne il rilievo architettonico e prospettico. In sostanza il ricorrente intendeva contestare che le ringhiere ed i divisori dei balconi dell’edificio del Condominio, rientrassero tra le parti comuni, le cui spese dovevano perciò essere ripartite fra tutti i condomini, come fatto nell’impugnata deliberazione assembleare, in quanto essi non costituivano elementi decorativi dell’insieme. Il motivo del ricorso era volto, perciò, a contrastare sotto il profilo fattuale la ricostruzione operata dal Tribunale di Milano, che si era poi conformato al principio di diritto elaborato da un orientamento consolidato di questa Corte, secondo cui, “mentre i balconi di un edificio condominiale non rientrano tra le parti comuni, ai sensi dell’art. 1117 c.c., non essendo necessari per l’esistenza del fabbricato, né essendo destinati all’uso o al servizio di esso, i rivestimenti dello stesso devono, invece, essere considerati beni comuni se svolgono in concreto una prevalente, e perciò essenziale, funzione estetica per l’edificio, divenendo così elementi decorativi ed ornamentali essenziali della facciata e contribuendo a renderlo esteticamente gradevole”. L’accertamento condotto dal giudice di merito sul piano fattuale sottolineava che le ringhiere, costituendo il parapetto del fronte dei balconi, ed i divisori erano ben visibili all’esterno, disposti simmetricamente ed omogenei per dimensione, forma geometrica e materiale assolvendo dunque alla funzione di rendere gradevole l’estetica dell’edificio. Si trattava peraltro di un accertamento di fatto incensurabile in sede di legittimità se non per omesso esame di fatto storico decisivo e controverso ex art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c..

Per tali motivi la Corte di Cassazione rigettava il ricorso e condannava il ricorrente al rimborso delle spese processuali sostenute.

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D. Il debitore garantito da ipoteca sul bene di un terzo è legittimato passivo dell’azione esecutiva che abbia ad oggetto tale immobile?

D. Il debitore garantito da ipoteca sul bene di un terzo è legittimato passivo dell’azione esecutiva che abbia ad oggetto tale immobile?

R. Nell’espropriazione contro il terzo proprietario, il debitore diretto non è legittimato passivo dell’azione esecutiva e il pignoramento va notificato e trascritto esclusivamente nei confronti del terzo, perché ha come unico oggetto il bene di proprietà di quest’ultimo. Tuttavia il debitore diretto resta parte necessaria del procedimento esecutivo, cui partecipa a titolo diverso da quello del terzo proprietario, e in tale veste dev’essere sentito ogni volta che le norme regolatrici del procedimento prevedano questa garanzia nei suoi confronti

(Corte di Cassazione, sez. III Civile, sentenza n. 10808/20; depositata il 5 giugno)

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D. Il silenzio della sentenza sulle spese del CTU può considerarsi “concludente”?

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R. E’ affetta dal vizio di omessa pronuncia la sentenza d’appello che, accogliendo il gravame e accollando le spese di lite alla parte soccombente, taccia sulla sorte delle spese della consulenza tecnica d’ufficio eseguita nel primo grado di giudizio, a nulla rilevando che tali spese abbiano già formato oggetto di liquidazione con decreto motivato, ex art. 168 d.p.r. 115/02.

(Corte di Cassazione, sez. III Civile, ordinanza n. 10804/20; depositata il 5 giugno)

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D. Contratto di fideiussione tra persona fisica e ente creditizio: si applica il foro del consumatore?

D. Contratto di fideiussione tra persona fisica e ente creditizio: si applica il foro del consumatore?

R. Ai fini dell’individuazione del foro del consumatore, il giudice di merito è chiamato a verificare, secondo tutte le circostanze concrete, se il contraente possa essere qualificato come consumatore, nozione che risponde al criterio funzionale consistente nel valutare se il rapporto contrattuale in esame rientri nell’ambito di attività estranee all’esercizio di una professione.

(Corte di Cassazione, sez. VI Civile – 2, ordinanza n. 10673/20; depositata il 5 giugno)

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Il principio di prevenzione è applicabile anche alle sopraelevazioni?

Il principio di prevenzione è applicabile anche alle sopraelevazioni?

La sopraelevazione, anche se di ridotte dimensioni, comporta sempre un aumento della volumetria e della superficie di ingombro e va, pertanto, considerata a tutti gli effetti, e, quindi, anche per la disciplina delle distanze, come nuova. Questo è quanto stabilito dalla Corte di Cassazione, sez. II Civile, sentenza  n. 10467/2020, depositata il 3 giugno.

Il caso. I proprietari di due terreni convenivano in giudizio il loro confinante perché, a loro dire, aveva realizzato sul fondo di sua proprietà un fabbricato che non rispettava le distanze, previste dall’art. 873 c.c. e dagli strumenti urbanistici e, pertanto, chiedevano la condanna all’arretramento del manufatto e al risarcimento dei danni. Si costituiva in giudizio il proprietario del fondo confinante che contestava la fondatezza della domanda e ne chiedeva il rigetto. Espletata la C.T.U., il Tribunale competente accertava che il fabbricato costruito dal convenuto non rispettava le distanze previste dall’art. 873 c.c. e indicate dagli strumenti urbanistici, accoglieva la domanda attorea e condannava il convenuto ad arretrare l’edifico e al risarcimento del danno.

Avverso tale sentenza, la parte soccombente interponeva appello, lamentando l’erronea rappresentazione della situazione di fatto, l’erronea applicazione della normativa urbanistica e la liquidazione di un danno ritenuto in re ipsa in assenza di prova circa la sua effettiva sussistenza. La Corte d’Appello distrettuale, in parziale accoglimento dell’appello, rigettava la domanda di risarcimento danni, confermando nel resto l’impugnata sentenza. Secondo ii Giudice di merito il piano, costruito in sopraelevazione, comportava un aumento di volumetria e, di conseguenza, andava qualificato come nuova costruzione con applicazione delle distanze minime previste dal codice civile e dal PDF del Comune.

Avverso tale sentenza l’appellante proponeva ricorso per cassazione. Secondo la Suprema Corte “la sopraelevazione, anche se di ridotte dimensioni, comporta sempre un aumento della volumetria e della superficie di ingombro e va, pertanto, considerata a tutti gli effetti, e, quindi, anche per la disciplina delle distanze, come nuova costruzione”; pertanto, bene aveva fatto la Corte di merito a considerare la sopraelevazione come nuova costruzione ma, invece, non aveva considerato che le norme urbanistiche comunali, al momento della realizzazione sia del primo e del secondo piano in aderenza sia del terzo non in aderenza, non si limitavano a prevedere un distacco dai confini di m 5,25 ma anche la possibilità di costruire in aderenza. Inoltre, sosteneva che “quando il regolamento locale consente la costruzione in aderenza, il principio della prevenzione va ritenuto operante, non ostando a tale conclusione il rilievo che lo stesso regolamento preveda una distanza minima dai confini”. D’altronde la giurisprudenza di legittimità aveva infatti reiteratamente affermato che il criterio della prevenzione, previsto dagli artt. 873 e 875 c.c., era derogato dal regolamento comunale edilizio allorché questo fissasse la distanza non solo tra le costruzioni, ma anche delle costruzioni dal confine, salvo che lo stesso consentiva ugualmente le costruzioni in aderenza o in appoggio (Cass. n. 14705 del 2019).  Ne conseguiva che, ove il regolamento Comunale, come nel caso di specie, prevedesse tale possibilità il principio di prevenzione poteva ritenersi applicabile e operante.

Per tali motivi la Corte di Cassazione cassava la sentenza impugnata e rinviava alla Corte d’Appello competente ad altra sezione.

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