La mancata comunicazione a taluno dei condomini dell’avviso di convocazione
dell’assemblea condominiale rappresenta un vizio procedimentale che comporta
l’annullabilità della delibera condominiale. Unico soggetto legittimato a
domandare l’annullamento è il condomino pretermesso ex artt. 1441 e 1324 c.c.. Questo
è quanto stabilito dalla Corte di Cassazione, sez. II Civile, sentenza n.
10071/2020, depositata il 28 maggio.
Il caso. Con ricorso ex art. 1137 c.c., gli attori convenivano
in giudizio il Condominio,
chiedendo che fosse dichiarata la nullità della delibera condominiale di riparto
delle spese per il rifacimento del lastrico solare per difetto
di convocazione dei proprietari dei magazzini situati al piano terra
della palazzina. Il Giudice di primo grado accoglieva l’opposizione dei
condomini.
La sentenza di primo grado veniva confermata in appello. La Corte d’Appello
distrettuale accertava l’omessa
convocazione dei proprietari dei magazzini, ai quali erano state
imputate le spese condominiali
derivanti dai lavori per il rifacimento del lastrico solare e osservava che la
delibera in questione, secondo l’orientamento espresso dalla giurisprudenza di
legittimità (Cass. 4806 del 7.3.2005), era annullabile e ravvisava l’interesse
all’impugnazione, nel termine di trenta giorni, da parte di altri condomini.
Avverso tale sentenza, il Condominio proponeva ricorso per cassazione
sostenendo che la Corte d’Appello distrettuale avrebbe errato nel ritenere
sussistente la legittimazione ad impugnare
dei condomini dissenzienti in relazione ad un asserito difetto di convocazione
di altri condomini, in quanto, trattandosi di ipotesi di annullabilità, la
legittimazione spetterebbe esclusivamente al condomino non convocato. Secondo
il Supremo Collegio “Il condomino regolarmente convocato non può impugnare la
delibera per difetto di convocazione di altro condomino, trattandosi di vizio
che inerisce all’altrui sfera giuridica, come conferma l’interpretazione
evolutiva fondata sull’art. 66 disp. att. c.c., comma 3, modificato dalla L. 11
dicembre 2012, n. 220, art. 20”. Altresì, una volta condiviso il principio,
espresso dalla Cass. Sez. U, Sentenza n. 4806 del 07/03/2005, secondo cui “la
mancata comunicazione a taluno dei condomini dell’avviso di convocazione
dell’assemblea condominiale, in quanto vizio procedimentale, comporta non la
nullità, ma l’annullabilità della delibera condominiale, è inevitabile
concludere che la legittimazione a domandare il relativo annullamento spetti,
ai sensi degli artt. 1441 e 1324 c.c., unicamente al singolo avente diritto
pretermesso”. Infine, osservava che “l’interesse
del condomino che faccia valere un vizio di annullabilità, e non di nullità, di
una deliberazione dell’assemblea, non può, infatti, ridursi al mero interesse
alla rimozione dell’atto, ovvero ad un’astratta pretesa di sua assoluta
conformità al modello legale, ma deve essere espressione di una sua posizione
qualificata, diretta ad eliminare la situazione di obiettiva incertezza che
quella delibera genera quanto all’esistenza dei diritti e degli obblighi da
essa derivanti: la delibera assembleare è annullabile sulla base del giudizio
riservato al soggetto privato portatore di quella particolare esigenza di
funzionalità dell’atto collegiale tutelata con la predisposta invalidità,
esigenza che si muove al di fuori del complessivo rapporto atto-ordinamento”.
Per tali motivi la Corte di Cassazione accoglieva il motivo di ricorso,
cassava la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinviava, anche
per le spese del giudizio di legittimità, ad altra sezione della Corte
d’appello.
Avv. Anna Maria Cupolillo Staff Giuridico Avvocato Express
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E’ incostituzionale il divieto legislativo di scambiare oggetti tra
detenuti sottoposti al regime dell’art. 41-bis ord. pen. appartenenti al medesimo
gruppo di socialità. Questo è ciò che ha
stabilito la Corte Costituzionale,
sentenza n. 97/2020 depositata
il 22 maggio.
Il caso. La Corte di Cassazione, sezione prima penale, con due ordinanze di analogo
tenore, adottate in pari data e nella medesima composizione aveva sollevato, in
riferimento agli artt. 3 e 27 della Costituzione, questioni di legittimità
costituzionale dell’art. 41-bis, comma 2-quater, lettera f), della legge 26
luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione
delle misure privative e limitative della libertà), “nella parte in cui prevede
che siano adottate tutte le necessarie misure di sicurezza volte a garantire
che sia assicurata la assoluta impossibilità di scambiare oggetti per i
detenuti in regime differenziato appartenenti al medesimo gruppo di socialità”.
Il Collegio rimettente riferiva che la vicenda sottoposta al vaglio di legittimità
nasceva dal reclamo al Magistrato di sorveglianza proposto da un detenuto
sottoposto al regime differenziato ex art. 41-bis ordin. penit., avverso
l’ordine di servizio con il quale la direzione dell’istituto penitenziario
aveva comunicato il divieto di scambiare oggetti di qualunque genere,
quand’anche realizzato tra detenuti appartenenti al medesimo gruppo di
socialità, a seguito delle innovazioni apportate al citato regime differenziato
dalla legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza
pubblica). Secondo il reclamante, lo scambio di oggetti, e in particolare di
generi alimentari “provenienti dai consueti canali (pacco famiglia, acquisti
effettuati attraverso il circuito interno dell’istituto penitenziario in base
al cd. mod. 72)”, non poteva mettere a rischio il perseguimento delle finalità
cui era preordinato il regime carcerario previsto dall’art. 41-bis ordin.
penit., considerato che i detenuti interessati allo scambio erano già stati
ammessi “a fruire in comune la cd. socialità”. Inoltre, esponeva il rimettente
che il Magistrato di sorveglianza aveva dichiarato inammissibile il reclamo
presentato ai sensi dell’art. 35-bis ordin. penit., conformemente a quanto
previsto dall’art. 4, comma l, della circolare del 2 ottobre 2017, n.
3676/6126, del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (d’ora innanzi:
DAP), non potendosi riconoscere la sussistenza di alcun diritto soggettivo
avente ad oggetto “il passaggio di generi alimentari ad altri ristretti”. Tale
provvedimento di inammissibilità era oggetto di reclamo, accolto, dinnanzi al
Tribunale di sorveglianza competente. Secondo il Collegio, il divieto di
scambio tra soggetti del medesimo gruppo di socialità non poteva essere
giustificabile in forza di “ragioni di sicurezza”, non potendosi rilevare
“alcuna congruità tra lo stesso e il fine perseguito dal regime differenziato,
costituito dalla necessità di recidere i collegamenti tra il detenuto e
l’associazione criminale di appartenenza”. Inoltre, poiché i detenuti
appartenenti al medesimo gruppo di socialità possono incontrarsi liberamente,
sarebbe dovuto escludersi che, attraverso il divieto di scambio di oggetti di
modico valore (e di generi alimentari), potesse essere “neutralizzato il
pericolo per l’ordine e la sicurezza costituito dal passaggio di comunicazioni
non consentite, potendo le stesse essere trasmesse oralmente”. Riferiva la
Corte di Cassazione rimettente che, sulla base di tali premesse, il Tribunale
di sorveglianza aveva disposto la disapplicazione dell’art. 4, comma l, della
circolare del DAP del 2 ottobre 2017 e dell’ordine di servizio della direzione
della casa di reclusione, oggetto dell’originaria impugnazione. Ricordava
inoltre la Corte come fosse stato ordinato alla stessa direzione di emettere un
diverso ordine di servizio, volto a consentire il passaggio di oggetti e di
generi alimentari tra i detenuti facenti parte del medesimo gruppo di socialità
cui il reclamante era assegnato.
Avverso questa ordinanza il Ministero della Giustizia proponeva ricorso per
cassazione sostenendo che l’interpretazione fornita dal Tribunale di
sorveglianza sarebbe stata “contraria all’inequivoco tenore letterale” della
disposizione censurata. Quest’ultima, “secondo quanto confermato dalla
giurisprudenza di legittimità”, non avrebbe consentito di superare il divieto
di scambio di oggetti anche tra detenuti appartenenti al medesimo gruppo di
socialità: secondo il ricorrente, la formulazione letterale della disposizione,
“chiarissima nello statuire che solo il divieto di comunicazione ammette deroga
all’interno del medesimo gruppo di socialità”, si sarebbe giustificata con la
considerazione che lo scambio di oggetti non sarebbe “così essenziale alla
socializzazione come il comunicare”, risultando quindi ragionevole il divieto
di procedervi nell’ambito del “bilanciamento tra l’interesse alla
socializzazione del detenuto e l’interesse (fondante il regime del 41-bis) ad
arginare flussi informativi tra detenuti in regime speciale”.
Si sollevavano questioni di legittimità costituzionale. La Corte
Costituzionale affermava che era risaputo che i gruppi di socialità, formati da un massimo di quattro detenuti,
avevano la finalità di conciliare due esigenze
potenzialmente contrapposte, ossia quella di evitare che i detenuti più
pericolosi potessero mantenere i collegamenti con i membri dell’organizzazione
criminale cui appartenevano e quella di garantire agli stessi occasioni
minimali di socialità. A tal proposito, la Consulta aveva rilevato che se il
divieto di comunicare e scambiare oggetti tra detenuti assegnati a gruppi di
socialità diversi era comprensibile, era tuttavia irragionevole estendere indiscriminatamente il divieto anche ai
componenti del medesimo gruppo. Infatti, aggiunge la Corte, i detenuti
appartenenti allo stesso gruppo di socialità, potendo già agevolmente
comunicare in svariate occasioni, non avevano necessità di ricorrere a forme
nascoste o criptiche di comunicazione, come ad esempio lo scambio di oggetti.
Pertanto, non accrescendo alcuna esigenza di sicurezza pubblica e impedendo
quella minima modalità di socializzazione prevista, secondo la Corte
Costituzionale, tale divieto diveniva irragionevole e inutilmente afflittivo,
oltre che in contrasto con gli artt. 3
e 27, comma 3, Cost..
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R. Non sussiste rapporto di pregiudizialità tra il processo penale avente ad oggetto i reati di falso e truffa ed il processo civile volto ad ottenere una pronuncia ex art. 2932 c.c.. Infatti, per rendere dipendente la decisione civile dalla definizione del giudizio penale, non basta che nei due processi rilevino gli stessi fatti, ma…
(Corte di Cassazione, sez. VI Civile – 3, ordinanza n. 9066/20; depositata il 18 maggio)
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R. Nel caso di notifica ai sensi dell’art. 140 c.p.c., la relazione dell’ufficiale circa l’effettiva residenza (o dimora o domicilio) del destinatario dell’atto, presso l’indirizzo indicato dal notificante, costituisce mera presunzione, superabile con qualsiasi mezzo di prova, senza necessità di ricorrere alla querela di falso.
(Corte di Cassazione, sez. VI Civile – 3, ordinanza n. 9049/20; depositata il 18 maggio)
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R. Il limite di cui all’art. 546, comma 1, c.p.c. e riferito all’importo del credito precettato, aumentato della metà, individua anche l’oggetto del processo esecutivo.
(Corte di Cassazione, sez. VI Civile – 3, ordinanza n. 9054/20; depositata il 18 maggio)
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L’obbligo di emissione della
fattura (analogica o
elettronica) non è riconducibile tra gli adempimenti cui si applica la
disposizione che rinvia al primo giorno lavorativo successivo “i versamenti e
gli adempimenti, anche se solo telematici, previsti da norme riguardanti
l’Amministrazione economico-finanziaria che scadono il sabato o in un giorno
festivo” (art.7 lett. h) DL 70/2011). Questo è ciò che ha risposto l’Agenzia
delle Entrate il 14 maggio 2020, n. 129.
Il caso. L’istante aveva certificato dei servizi resi
emettendo “fatture immediate”
datate 31 dicembre 2019 ed ottemperando al relativo obbligo di trasmissione al
sistema d’interscambio (SdI) il 13 gennaio 2020, essendo il 12 gennaio 2020 un
giorno festivo, e pertanto oltre i dodici giorni successivi previsti dal
Decreto IVA (art. 21 c. 4 DPR 633/72). In merito alla sanzionabilità del suo comportamento,
chiedeva chiarimenti all’Agenzia delle Entrate avanzando, come soluzione,
l’applicazione della menzionata norma che disponeva, in fattispecie come quella
prospettata, il rinvio dell’adempimento al primo giorno lavorativo successivo.
L’Agenzia delle Entrate chiariva che la disposizione
di rinvio non poteva applicarsi al caso de quo poiché riguardava gli adempimenti
che il contribuente doveva assolvere nei confronti dell’Amministrazione
finanziaria, mentre la fattura (analogica o elettronica), era destinata alla
controparte contrattuale affinché quest’ultima potesse esercitare alcuni
diritti fiscalmente riconosciuti (detrazione dell’IVA e deduzione del costo).
Nel caso in esame, dunque, la fattura immediata emessa oltre dodici giorni dall’effettuazione dell’operazione, ma
comunque entro i termini della liquidazione periodica, era punibile con la
sanzione da euro 250,00 a euro 2.000,00 per ciascuna operazione tardivamente
documentata (art. 6 D.Lgs. 471/97), salva comunque la possibilità di avvalersi
dell’istituto del ravvedimento operoso (art. 13 D.Lgs. 472/97).
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