D. Quando l’esecuzione del mandato è in contrasto con l’interesse dell’erede dell’assistito?

D. Quando l’esecuzione del mandato è in contrasto con l’interesse dell’erede dell’assistito?

Laddove l’esecuzione di un contratto, quale ad esempio il mandato di assistenza e rappresentanza in giudizio, si sia posta in contrasto con l’interesse dell’erede di uno dei contraenti, tale fatto non può avere rifluenza nei confronti del terzo poiché, in quanto si tratta di un debito della massa al creditore, non è opponibile il rapporto interno tra de cuius ed eredi.

(Corte di Cassazione, sez. VI Civile – 2, ordinanza n. 12675/20, depositata il 25 giugno)

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D. Senza conformità edilizia ed urbanistica nè coerenza catastale può esserci il trasferimento coattivo del bene?

D. Senza conformità edilizia ed urbanistica nè coerenza catastale può esserci il trasferimento coattivo del bene?

R. La sentenza di trasferimento coattivo prevista dall’art 2932 c.c. non può essere emanata in assenza delle dichiarazioni sugli estremi della concessione edilizia e di coerenza catastale dell’immobile, le quali costituiscono condizione dell’azione di adempimento in forma specifica dell’obbligo di contrarre. La produzione di tali menzioni deve sussistere al momento della decisione e può intervenire anche in corso di causa.

(Corte di Cassazione, sez. II Civile, sentenza n. 12654/20; depositata il 25 giugno)

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Quali prove servono per affermare la condominialità del sottotetto?

Quali prove servono per affermare la condominialità del sottotetto?

Al fine di comprendere se il sottotetto abbia natura condominiale è necessario svolgere un’indagine in concreto volta alla verifica che le caratteristiche strutturali e funzionali dell’immobile siano tali da consentire un uso prevalente in funzione della generalità dei condomini, e non solo dei proprietari degli appartamenti siti all’ultimo piano. Questo è quanto stabilito dalla Corte d Cassazione, sez. II Civile, ordinanza n. 9383/2020, depositata il 21 maggio.

Il caso. Alcuni condomini convenivano in giudizio il proprietario dell’appartamento sito all’ultimo piano del Condominio poiché, secondo loro, si era appropriato illegittimamente di una parte del sottotetto. In effetti, il convenuto aveva adibito parte del sottotetto a locale di sgombero del proprio appartamento collocandovi una caldaia, il collettore dell’impianto di riscaldamento e il motore del condizionatore. Per tale motivo gli attori chiedevano al giudice di condannare il convenuto al ripristino dello stato dei luoghi del sottotetto del Condominio dal momento che le opere del convenuto, secondo loro, avevano comportato la violazione dell’art. 1117 c.c., che afferma che “il sottotetto deve presumersi comune, ai sensi dell’art. 1117 c.c., nei casi in cui il vano sovrasti, come nella specie, più appartamenti e sia destinato a servizi comuni” e dell’art. 1102 c.c. nella parte in cui specifica che “Ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto. A tal fine può apportare a proprie spese le modificazioni necessarie per il miglior godimento della cosa. Il partecipante non può estendere il suo diritto sulla cosa comune in danno degli altri partecipanti, se non compie atti idonei a mutare il titolo del suo possesso”. Il Tribunale accoglieva la domanda attorea e condannava il convenuto al ripristino dei locali occupati, sanzionandone l’illegittima appropriazione.

Avverso tale sentenza il convenuto interponeva appello ma la Corte d’Appello distrettuale confermava la sentenza di primo grado.

Avverso tale sentenza l’appellante proponeva ricorso per cassazione lamentando sostanzialmente che la Corte locale non aveva fatto applicazione del principio enunciato dalla Cassazione, secondo il quale il sottotetto, se non diversamente stabilito dal titolo, doveva considerarsi comune nel solo caso in cui, per le sue caratteristiche strutturali e funzionali, risultasse concretamente e oggettivamente destinato all’uso comune; per contro, esso doveva reputarsi pertinenza dell’appartamento, di cui costituiva proiezione, nel caso in cui assolveva all’esclusiva funzione di isolare l’unità abitativa. Il Supremo Collegio sanciva l’error in procedendo della Corte d’Appello, nella parte in cui non aveva correttamente valutato le prove offerte dalle parti. Nel caso in esame, difatti, il sottotetto svolgeva come unica funzione in favore del Condominio quella di consentire il passaggio di un cavo televisivo. Tale elemento non era di per sé considerato sufficiente per dichiarare la funzione prevalentemente condominiale del bene . Sottolineava, infatti, la Corte di Cassazione come “per accertare la natura condominiale o pertinenziale del sottotetto di un edificio, in mancanza del titolo, deve farsi riferimento alle sue caratteristiche strutturali e funzionali, sicché , quando il sottotetto sia oggettivamente destinato (anche solo potenzialmente) all’uso comune o all’esercizio di un servizio di interesse comune, può applicarsi la presunzione di comunione ex art. 1117  comma 1 c.c.; viceversa, allorché il sottotetto assolva all’esclusiva funzione di isolare e proteggere dal caldo, dal freddo e dall’umidità l’appartamento dell’ultimo piano, e non abbia dimensioni e caratteristiche strutturali tali da consentirne l’utilizzazione come vano autonomo, va considerato di pertinenza di tale appartamento”.

Per tali motivi la Corte di Cassazione accoglieva il ricorso e annullava la decisione impugnata, rinviando il giudizio ad altra sezione della Corte d’Appello.

Avv. Anna Maria Cupolillo Staff Giuridico Avvocato Express

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Chi deve pagare le spese di rifacimento delle ringhiere dei balconi?

Chi deve pagare le spese di rifacimento delle ringhiere dei balconi?

Fermo restando che i balconi dell’edificio condominiale non rientrano tra le parti comuni ex art. 1117 c.c., i rivestimenti dei balconi invece devono essere considerati beni comuni se svolgono in concreto una prevalente ed essenziale funzione estetica quali elementi decorativi ed ornamentali essenziali della facciata. Questo è quanto stabilito dalla Corte di cassazione, sez. VI Civile – 2, ordinanza n. 10848/2020, depositata l’8 giugno.

Il caso. Il Tribunale competente confermava la decisione del Giudice di Pace di rigetto dell’impugnazione di una delibera assembleare con cui il Condominio convenuto aveva ripartito tra tutti i condomini le spese per la sostituzione delle ringhieree dei divisori dei balconi. Ad avviso del Tribunale, le ringhiere, che fungevano da parapetto, come i divisori dei balconi, costituivano parte integrante della facciata, con la quale formavano un insieme che si traduceva in una peculiare conformazione del decoro architettonico, con conseguente riconducibilità al novero delle parti comuni dell’edificio.

Avverso tale sentenza il condomino soccombente proponeva ricorso per cassazione con un unico motivo. Il ricorrente deduceva la violazione dell’art. 1117 c.c., dell’art. 1125 c.c., dell’art. 116 c.p.c. e dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, in quanto il Tribunale aveva errato a ricomprendere le ringhiere ed i divisori dei balconi tra le parti condominiali, né aveva spiegato quali fossero le caratteristiche tali da giustificarne il rilievo architettonico e prospettico. In sostanza il ricorrente intendeva contestare che le ringhiere ed i divisori dei balconi dell’edificio del Condominio, rientrassero tra le parti comuni, le cui spese dovevano perciò essere ripartite fra tutti i condomini, come fatto nell’impugnata deliberazione assembleare, in quanto essi non costituivano elementi decorativi dell’insieme. Il motivo del ricorso era volto, perciò, a contrastare sotto il profilo fattuale la ricostruzione operata dal Tribunale di Milano, che si era poi conformato al principio di diritto elaborato da un orientamento consolidato di questa Corte, secondo cui, “mentre i balconi di un edificio condominiale non rientrano tra le parti comuni, ai sensi dell’art. 1117 c.c., non essendo necessari per l’esistenza del fabbricato, né essendo destinati all’uso o al servizio di esso, i rivestimenti dello stesso devono, invece, essere considerati beni comuni se svolgono in concreto una prevalente, e perciò essenziale, funzione estetica per l’edificio, divenendo così elementi decorativi ed ornamentali essenziali della facciata e contribuendo a renderlo esteticamente gradevole”. L’accertamento condotto dal giudice di merito sul piano fattuale sottolineava che le ringhiere, costituendo il parapetto del fronte dei balconi, ed i divisori erano ben visibili all’esterno, disposti simmetricamente ed omogenei per dimensione, forma geometrica e materiale assolvendo dunque alla funzione di rendere gradevole l’estetica dell’edificio. Si trattava peraltro di un accertamento di fatto incensurabile in sede di legittimità se non per omesso esame di fatto storico decisivo e controverso ex art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c..

Per tali motivi la Corte di Cassazione rigettava il ricorso e condannava il ricorrente al rimborso delle spese processuali sostenute.

  Avv. Anna Maria Cupolillo Staff Giuridico Avvocato Express

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D. Il debitore garantito da ipoteca sul bene di un terzo è legittimato passivo dell’azione esecutiva che abbia ad oggetto tale immobile?

D. Il debitore garantito da ipoteca sul bene di un terzo è legittimato passivo dell’azione esecutiva che abbia ad oggetto tale immobile?

R. Nell’espropriazione contro il terzo proprietario, il debitore diretto non è legittimato passivo dell’azione esecutiva e il pignoramento va notificato e trascritto esclusivamente nei confronti del terzo, perché ha come unico oggetto il bene di proprietà di quest’ultimo. Tuttavia il debitore diretto resta parte necessaria del procedimento esecutivo, cui partecipa a titolo diverso da quello del terzo proprietario, e in tale veste dev’essere sentito ogni volta che le norme regolatrici del procedimento prevedano questa garanzia nei suoi confronti

(Corte di Cassazione, sez. III Civile, sentenza n. 10808/20; depositata il 5 giugno)

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D. Il silenzio della sentenza sulle spese del CTU può considerarsi “concludente”?

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R. E’ affetta dal vizio di omessa pronuncia la sentenza d’appello che, accogliendo il gravame e accollando le spese di lite alla parte soccombente, taccia sulla sorte delle spese della consulenza tecnica d’ufficio eseguita nel primo grado di giudizio, a nulla rilevando che tali spese abbiano già formato oggetto di liquidazione con decreto motivato, ex art. 168 d.p.r. 115/02.

(Corte di Cassazione, sez. III Civile, ordinanza n. 10804/20; depositata il 5 giugno)

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D. Contratto di fideiussione tra persona fisica e ente creditizio: si applica il foro del consumatore?

D. Contratto di fideiussione tra persona fisica e ente creditizio: si applica il foro del consumatore?

R. Ai fini dell’individuazione del foro del consumatore, il giudice di merito è chiamato a verificare, secondo tutte le circostanze concrete, se il contraente possa essere qualificato come consumatore, nozione che risponde al criterio funzionale consistente nel valutare se il rapporto contrattuale in esame rientri nell’ambito di attività estranee all’esercizio di una professione.

(Corte di Cassazione, sez. VI Civile – 2, ordinanza n. 10673/20; depositata il 5 giugno)

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Il principio di prevenzione è applicabile anche alle sopraelevazioni?

Il principio di prevenzione è applicabile anche alle sopraelevazioni?

La sopraelevazione, anche se di ridotte dimensioni, comporta sempre un aumento della volumetria e della superficie di ingombro e va, pertanto, considerata a tutti gli effetti, e, quindi, anche per la disciplina delle distanze, come nuova. Questo è quanto stabilito dalla Corte di Cassazione, sez. II Civile, sentenza  n. 10467/2020, depositata il 3 giugno.

Il caso. I proprietari di due terreni convenivano in giudizio il loro confinante perché, a loro dire, aveva realizzato sul fondo di sua proprietà un fabbricato che non rispettava le distanze, previste dall’art. 873 c.c. e dagli strumenti urbanistici e, pertanto, chiedevano la condanna all’arretramento del manufatto e al risarcimento dei danni. Si costituiva in giudizio il proprietario del fondo confinante che contestava la fondatezza della domanda e ne chiedeva il rigetto. Espletata la C.T.U., il Tribunale competente accertava che il fabbricato costruito dal convenuto non rispettava le distanze previste dall’art. 873 c.c. e indicate dagli strumenti urbanistici, accoglieva la domanda attorea e condannava il convenuto ad arretrare l’edifico e al risarcimento del danno.

Avverso tale sentenza, la parte soccombente interponeva appello, lamentando l’erronea rappresentazione della situazione di fatto, l’erronea applicazione della normativa urbanistica e la liquidazione di un danno ritenuto in re ipsa in assenza di prova circa la sua effettiva sussistenza. La Corte d’Appello distrettuale, in parziale accoglimento dell’appello, rigettava la domanda di risarcimento danni, confermando nel resto l’impugnata sentenza. Secondo ii Giudice di merito il piano, costruito in sopraelevazione, comportava un aumento di volumetria e, di conseguenza, andava qualificato come nuova costruzione con applicazione delle distanze minime previste dal codice civile e dal PDF del Comune.

Avverso tale sentenza l’appellante proponeva ricorso per cassazione. Secondo la Suprema Corte “la sopraelevazione, anche se di ridotte dimensioni, comporta sempre un aumento della volumetria e della superficie di ingombro e va, pertanto, considerata a tutti gli effetti, e, quindi, anche per la disciplina delle distanze, come nuova costruzione”; pertanto, bene aveva fatto la Corte di merito a considerare la sopraelevazione come nuova costruzione ma, invece, non aveva considerato che le norme urbanistiche comunali, al momento della realizzazione sia del primo e del secondo piano in aderenza sia del terzo non in aderenza, non si limitavano a prevedere un distacco dai confini di m 5,25 ma anche la possibilità di costruire in aderenza. Inoltre, sosteneva che “quando il regolamento locale consente la costruzione in aderenza, il principio della prevenzione va ritenuto operante, non ostando a tale conclusione il rilievo che lo stesso regolamento preveda una distanza minima dai confini”. D’altronde la giurisprudenza di legittimità aveva infatti reiteratamente affermato che il criterio della prevenzione, previsto dagli artt. 873 e 875 c.c., era derogato dal regolamento comunale edilizio allorché questo fissasse la distanza non solo tra le costruzioni, ma anche delle costruzioni dal confine, salvo che lo stesso consentiva ugualmente le costruzioni in aderenza o in appoggio (Cass. n. 14705 del 2019).  Ne conseguiva che, ove il regolamento Comunale, come nel caso di specie, prevedesse tale possibilità il principio di prevenzione poteva ritenersi applicabile e operante.

Per tali motivi la Corte di Cassazione cassava la sentenza impugnata e rinviava alla Corte d’Appello competente ad altra sezione.

 Avv. Anna Maria Cupolillo Staff Giuridico Avvocato Express

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Chi è legittimato ad impugnare la delibera in caso di mancata convocazione all’assemblea condominiale?

Chi è legittimato ad impugnare la delibera in caso di mancata convocazione all’assemblea condominiale?

La mancata comunicazione a taluno dei condomini dell’avviso di convocazione dell’assemblea condominiale rappresenta un vizio procedimentale che comporta l’annullabilità della delibera condominiale. Unico soggetto legittimato a domandare l’annullamento è il condomino pretermesso ex artt. 1441 e 1324 c.c.. Questo è quanto stabilito dalla Corte di Cassazione, sez. II Civile, sentenza n. 10071/2020, depositata il 28 maggio.

Il caso. Con ricorso ex art. 1137 c.c., gli attori convenivano in giudizio il Condominio, chiedendo che fosse dichiarata la nullità della delibera condominiale di riparto delle spese per il rifacimento del lastrico solare per difetto di convocazione dei proprietari dei magazzini situati al piano terra della palazzina. Il Giudice di primo grado accoglieva l’opposizione dei condomini.

La sentenza di primo grado veniva confermata in appello. La Corte d’Appello distrettuale accertava l’omessa convocazione dei proprietari dei magazzini, ai quali erano state imputate le spese condominiali derivanti dai lavori per il rifacimento del lastrico solare e osservava che la delibera in questione, secondo l’orientamento espresso dalla giurisprudenza di legittimità (Cass. 4806 del 7.3.2005), era annullabile e ravvisava l’interesse all’impugnazione, nel termine di trenta giorni, da parte di altri condomini.

Avverso tale sentenza, il Condominio proponeva ricorso per cassazione sostenendo che la Corte d’Appello distrettuale avrebbe errato nel ritenere sussistente la legittimazione ad impugnare dei condomini dissenzienti in relazione ad un asserito difetto di convocazione di altri condomini, in quanto, trattandosi di ipotesi di annullabilità, la legittimazione spetterebbe esclusivamente al condomino non convocato. Secondo il Supremo Collegio “Il condomino regolarmente convocato non può impugnare la delibera per difetto di convocazione di altro condomino, trattandosi di vizio che inerisce all’altrui sfera giuridica, come conferma l’interpretazione evolutiva fondata sull’art. 66 disp. att. c.c., comma 3, modificato dalla L. 11 dicembre 2012, n. 220, art. 20”. Altresì, una volta condiviso il principio, espresso dalla Cass. Sez. U, Sentenza n. 4806 del 07/03/2005, secondo cui “la mancata comunicazione a taluno dei condomini dell’avviso di convocazione dell’assemblea condominiale, in quanto vizio procedimentale, comporta non la nullità, ma l’annullabilità della delibera condominiale, è inevitabile concludere che la legittimazione a domandare il relativo annullamento spetti, ai sensi degli artt. 1441 e 1324 c.c., unicamente al singolo avente diritto pretermesso”.  Infine, osservava che “l’interesse del condomino che faccia valere un vizio di annullabilità, e non di nullità, di una deliberazione dell’assemblea, non può, infatti, ridursi al mero interesse alla rimozione dell’atto, ovvero ad un’astratta pretesa di sua assoluta conformità al modello legale, ma deve essere espressione di una sua posizione qualificata, diretta ad eliminare la situazione di obiettiva incertezza che quella delibera genera quanto all’esistenza dei diritti e degli obblighi da essa derivanti: la delibera assembleare è annullabile sulla base del giudizio riservato al soggetto privato portatore di quella particolare esigenza di funzionalità dell’atto collegiale tutelata con la predisposta invalidità, esigenza che si muove al di fuori del complessivo rapporto atto-ordinamento”.

Per tali motivi la Corte di Cassazione accoglieva il motivo di ricorso, cassava la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinviava, anche per le spese del giudizio di legittimità, ad altra sezione della Corte d’appello.

 Avv. Anna Maria Cupolillo Staff Giuridico Avvocato Express

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Divieto assoluto di scambio di oggetti tra detenuti in 41-bis: è incostituzionale

Divieto assoluto di scambio di oggetti tra detenuti in 41-bis: è incostituzionale

E’ incostituzionale il divieto legislativo di scambiare oggetti tra detenuti sottoposti al regime dell’art. 41-bis ord. pen. appartenenti al medesimo gruppo di socialità.  Questo è ciò che ha stabilito la Corte Costituzionale, sentenza n. 97/2020 depositata il 22 maggio. 

Il caso. La Corte di Cassazione, sezione prima penale, con due ordinanze di analogo tenore, adottate in pari data e nella medesima composizione aveva sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 27 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 41-bis, comma 2-quater, lettera f), della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), “nella parte in cui prevede che siano adottate tutte le necessarie misure di sicurezza volte a garantire che sia assicurata la assoluta impossibilità di scambiare oggetti per i detenuti in regime differenziato appartenenti al medesimo gruppo di socialità”. Il Collegio rimettente riferiva che la vicenda sottoposta al vaglio di legittimità nasceva dal reclamo al Magistrato di sorveglianza proposto da un detenuto sottoposto al regime differenziato ex art. 41-bis ordin. penit., avverso l’ordine di servizio con il quale la direzione dell’istituto penitenziario aveva comunicato il divieto di scambiare oggetti di qualunque genere, quand’anche realizzato tra detenuti appartenenti al medesimo gruppo di socialità, a seguito delle innovazioni apportate al citato regime differenziato dalla legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica). Secondo il reclamante, lo scambio di oggetti, e in particolare di generi alimentari “provenienti dai consueti canali (pacco famiglia, acquisti effettuati attraverso il circuito interno dell’istituto penitenziario in base al cd. mod. 72)”, non poteva mettere a rischio il perseguimento delle finalità cui era preordinato il regime carcerario previsto dall’art. 41-bis ordin. penit., considerato che i detenuti interessati allo scambio erano già stati ammessi “a fruire in comune la cd. socialità”. Inoltre, esponeva il rimettente che il Magistrato di sorveglianza aveva dichiarato inammissibile il reclamo presentato ai sensi dell’art. 35-bis ordin. penit., conformemente a quanto previsto dall’art. 4, comma l, della circolare del 2 ottobre 2017, n. 3676/6126, del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (d’ora innanzi: DAP), non potendosi riconoscere la sussistenza di alcun diritto soggettivo avente ad oggetto “il passaggio di generi alimentari ad altri ristretti”. Tale provvedimento di inammissibilità era oggetto di reclamo, accolto, dinnanzi al Tribunale di sorveglianza competente. Secondo il Collegio, il divieto di scambio tra soggetti del medesimo gruppo di socialità non poteva essere giustificabile in forza di “ragioni di sicurezza”, non potendosi rilevare “alcuna congruità tra lo stesso e il fine perseguito dal regime differenziato, costituito dalla necessità di recidere i collegamenti tra il detenuto e l’associazione criminale di appartenenza”. Inoltre, poiché i detenuti appartenenti al medesimo gruppo di socialità possono incontrarsi liberamente, sarebbe dovuto escludersi che, attraverso il divieto di scambio di oggetti di modico valore (e di generi alimentari), potesse essere “neutralizzato il pericolo per l’ordine e la sicurezza costituito dal passaggio di comunicazioni non consentite, potendo le stesse essere trasmesse oralmente”. Riferiva la Corte di Cassazione rimettente che, sulla base di tali premesse, il Tribunale di sorveglianza aveva disposto la disapplicazione dell’art. 4, comma l, della circolare del DAP del 2 ottobre 2017 e dell’ordine di servizio della direzione della casa di reclusione, oggetto dell’originaria impugnazione. Ricordava inoltre la Corte come fosse stato ordinato alla stessa direzione di emettere un diverso ordine di servizio, volto a consentire il passaggio di oggetti e di generi alimentari tra i detenuti facenti parte del medesimo gruppo di socialità cui il reclamante era assegnato.

Avverso questa ordinanza il Ministero della Giustizia proponeva ricorso per cassazione sostenendo che l’interpretazione fornita dal Tribunale di sorveglianza sarebbe stata “contraria all’inequivoco tenore letterale” della disposizione censurata. Quest’ultima, “secondo quanto confermato dalla giurisprudenza di legittimità”, non avrebbe consentito di superare il divieto di scambio di oggetti anche tra detenuti appartenenti al medesimo gruppo di socialità: secondo il ricorrente, la formulazione letterale della disposizione, “chiarissima nello statuire che solo il divieto di comunicazione ammette deroga all’interno del medesimo gruppo di socialità”, si sarebbe giustificata con la considerazione che lo scambio di oggetti non sarebbe “così essenziale alla socializzazione come il comunicare”, risultando quindi ragionevole il divieto di procedervi nell’ambito del “bilanciamento tra l’interesse alla socializzazione del detenuto e l’interesse (fondante il regime del 41-bis) ad arginare flussi informativi tra detenuti in regime speciale”.

Si sollevavano questioni di legittimità costituzionale. La Corte Costituzionale affermava che era risaputo che i gruppi di socialità, formati da un massimo di quattro detenuti, avevano la finalità di conciliare due esigenze potenzialmente contrapposte, ossia quella di evitare che i detenuti più pericolosi potessero mantenere i collegamenti con i membri dell’organizzazione criminale cui appartenevano e quella di garantire agli stessi occasioni minimali di socialità. A tal proposito, la Consulta aveva rilevato che se il divieto di comunicare e scambiare oggetti tra detenuti assegnati a gruppi di socialità diversi era comprensibile, era tuttavia irragionevole estendere indiscriminatamente il divieto anche ai componenti del medesimo gruppo. Infatti, aggiunge la Corte, i detenuti appartenenti allo stesso gruppo di socialità, potendo già agevolmente comunicare in svariate occasioni, non avevano necessità di ricorrere a forme nascoste o criptiche di comunicazione, come ad esempio lo scambio di oggetti.

Pertanto, non accrescendo alcuna esigenza di sicurezza pubblica e impedendo quella minima modalità di socializzazione prevista, secondo la Corte Costituzionale, tale divieto diveniva irragionevole e inutilmente afflittivo, oltre che in contrasto con gli artt. 3 e 27, comma 3, Cost..

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