D. È possibile realizzare e vendere modellini di auto senza l’autorizzazione della rispettiva casa automobilistica e senza al contempo incorrere nella violazione di diritti di proprietà intellettuale altrui?
R. Si è possibile!
In particolare, Ferrari S.p.A. (‘Ferrari’) ha proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza emessa dalla Corte d’appello di Bologna n. 2029 del 15 giugno 2016 che ha escluso la violazione da parte di Brumm s.n.c. (‘Brumm’) di alcun diritto di privativa industriale detenuto da Ferrari a seguito della produzione e commercializzazione di modelli in miniatura raffiguranti le autovetture prodotte dall’attrice. In particolare, il giudice di secondo grado ha ritenuto che la riproduzione fedele in scala ridotta delle macchine fabbricate dalla società di Maranello non fosse idonea a costituire un utilizzo illecito del marchio, non essendo addebitabile alcun rischio confusorio, né alcun comportamento professionalmente scorretto. Si è del pari esclusa la violazione del diritto d’autore vantato sul modello riprodotto da Brumm in ragione del difetto di valore artistico richiesto dall’art. 2, comma 1, lett. 10), l.d.a.
La Suprema Corte di Cassazione, nella sua ordinanza, ha rigettato il ricorso della FERRARI ( Cass. civ., sez. I, ord. 3 novembre 2022, n. 32408).
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D. E’ legittima l’ordinanza del Sindaco che vieta ai cani di entrare (con le dovute precauzioni) nel parco dei bambini ?
R. Assolutamente no! L’ordinanza sindacale che rechi, come nella specie, il divieto assoluto di introdurre cani, anche se custoditi, nelle aree ricomprese nel centro storico ovvero dei parchi cittadini dedicati all’intrattenimento ludico dei bambini -pur se in ragione delle meritevoli ragioni di tutela dei cittadini inconsiderazione della circostanza che i cani vengono spesso lasciati senza guinzaglio e non ne vengono raccolte le deiezioni – risulta essere eccessivamente limitativa della libertà di circolazione delle persone ed è in talmodo posta in violazione dei principi di adeguatezza e proporzionalità. ( TAR Campania, sez. V, sent., 5 ottobre 2022, n. 6173).
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D. L’anticipazione dell’orario dell’udienza fissato, risultante dal verbale di quella precedente e non comunicato all’imputato impedisce di esercitare il proprio diritto alla difesa e integra una nullità ai sensi dell’art. 178 c.p.p. ?
R. Si, secondo la difesa l’imputata non è stata messa in grado di partecipare all’udienza dibattimentale del 3 dicembre 2020 in quanto la stessa è stata trattata dalle ore 10.35 alle ore 10.40 invece che alle ore 12.30 come indicato sul sito web del Tribunale di Napoli e dal verbale della precedente udienza di trattazione. Il mancato rispetto dell’orario di trattazione ha impedito all’imputata di nominare un difensore di fiducia. La Suprema Corte di Cassazione ha accolto il ricorso annullando con rinvio la sentenza impugnata.
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D. I documenti diversi dalla copia del rapporto con gli atti relativi all’accertamento, nonché alla contestazione o notificazione della violazione, di cui all’art. 7, comma 7, d. lgs. 150/2011 e per i quali il termine previsto è ordinatorio, devono prodursi entro il termine perentorio di cui all’art. 416, comma 3 c.p.c. in forza del rimando al codice di rito?
R. Si, quindi entro 10 giorni con indicazione dei mezzi di prova di cui s’intende avvalersi. (Lo ha deciso la Cass. civ., sez. II, ord., 2 novembre 2022, n. 32226).
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Le costruzioni realizzate in zona soggetta a vincolo di inedificabilità
assoluta devono osservare le norme in materia di distanze previste dal D.M. n. 1444/1968. Questo è quanto stabilito dalla
Cassazione civile, sez. II, ordinanza, 31 agosto 2022, n. 25647
Il caso. Due condomini agivano in giudizio per ottenere la condanna della vicina di casa alla rimozione di una veduta e l’arretramento di tubazioni ai sensi dell’art. 889 c.c.. Secondo gli attori, la vicina aveva realizzato una sopraelevazione del terrazzino senza rispettare le normative sulle distanze legali tra edifici, considerando anche che gli immobili erano collocati nel centro storico cittadino, in cui era imposto un vincolo di inedificabilità assoluta. Non era, pertanto, possibile realizzare la sopraelevazione, in quanto l’obbligo di rispettare l’originaria distanza tra i volumi preesistenti riguardava lserial number zemana antimalware premiume sole ristrutturazioni, mentre nella fattispecie era stato realizzato un vero proprio ampliamento di volumetria e, dunque, una nuova costruzione. Il giudice di prime cure dava ragione agli attori.
Avverso tale sentenza parte soccombente interponeva appello e i giudici di seconde cure, in parziale accoglimento del gravame, respingeva le domande volte ad ottenere la rimozione di una veduta e l’arretramento di tubazioni ai sensi dell’art. 889 c.c. e ss.. Secondo la Corte d’Appello distrettuale, l’appellante nell’eseguire i lavori presso lo stabile di sua proprietà, aveva osservato la distanza tra i volumi preesistenti, ai sensi del D. M. n. 1444/1968, art. 9, comma 1, punto 1) norma recepita nello strumento urbanistico locale ed applicabile alla zona A – centro storico – in cui erano situati i manufatti. Dal rogito di acquisto dell’appellante emergeva che l’edificio originario eradaemon tools crack costituito da alcuni vani a piano terra e da due piccoli vani ammezzati, oltre che da una sovrastante area libera e che le nuove opere erano identiche a quelle originarie, come confermavano anche talune foto prodotte dalla dante causa della stessa, riprese in corso di lavori, dalle quali già si evinceva l’esistenza di un manufatto al di sopra del piano terra, con la copertura divelta. Si configurava – ad avviso della Corte di merito – una mera ristrutturazione, senza alcun avanzamento verso la confinante proprietà della controparte, senza riduzione delle distanze tra volumi preesistenti e senza dar luogo ad un’apprezzabile riduzione di aria e di luce, atteso che i vani, posti al piano ammezzato, avevano un’altezza, senza il tetto (divelto), praticamente uguale a quella dei vani origiiobit malware fighter serialnari. Altresì, la Corte, riteneva legittima anche la realizzazione del terrazzino, posto a distanza di 1,50 prevista dall’art. 905 c.c., comma 2, evidenziando che dalle aperture presenti sulla parete degli appellanti non era possibile nè l’inspicere nè il prospicere, essendo “incassate” nel muro per circa 40 centimetri ovvero poste ad un’altezza che non consentiva l’affaccio e la veduta, reputando corretta anche l’apposizione di pannelli volti ad impedire che dal terrazzino si esercitasse la veduta.
Avverso tale sentenza
gli appellati proponevano ricorso per cassazione. Secondo gli Ermellini il
ricorso era infondato, in quanto trattavasi di una semplice ristrutturazione di
manufatti preesistenti, senza incrementi volumetrici, con la conseguenza che
l’opera risultava conforme al regime delle distanze. Le norme urbanistiche
locali avevano, infatti, recepito le prescrizioni del D. M. n. 1444/1968, art.
9, comma 1, n. 1, che prevedeva, per il centro storico, in cui vigeva un
vincolo di inedificabilità assoluta, l’osservanza delle distanze preesistenti (Cass.
civ., n. 3739/2018; Cass. civ., n. 12767/2008; Cass, civ., n. 879/1999; Cass.
civ., n. 4754/1995). A ciò si aggiungeva la previsione secondo cui i divieti
assoluti di costruzione, vigenti in una data zona, non contemplavano, di norma,
prescrizioni integrative dell’art. 873 c.c., «essendo posti esclusivamente allo
scopo di conservare la destinazione urbanistica di una determinata parte del
territorio e a tutela di interessi generali, quali le limitazioni del volume,
della altezza, della densità degli edifici, le esigenze dell’igiene e della
viabilità, la conservazione dell’ambiente» (Cass. civ., n. 10775/2003; Cass.
civ., n. 5508/1994; Cass. civ., n. 7154/1995; Cass.
civ., n. 5719/1998; Cass. civ., n. 16094/2025). Pertanto, nei
centri storici, l’inedificabilità assoluta, anche se conseguenza di eventuali
vincoli di carattere paesaggistico, non escludeva che nei rapporti interprivati
si dovesse osservare la distanza tra le opere preesistenti (Cass. civ., n.
2008/12767). In particolare, i limiti imposti dall’art. 9. D. M. n. 1444/1968,
trovavano applicazione anche con riferimento alle nuove costruzioni, quali dovevano
considerarsi le sopraelevazioni effettuate nei centri storici ove, vigendo il
generale divieto di nuove edificazioni, era previsto solo che le distanze tra
gli edifici non potessero essere inferiori a quelle intercorrenti tra i
preesistenti volumi edificati (Cass. civ., n. 3739/2018).
Per tali motivi la
Corte di Cassazione rigettava il ricorso.
Avvocato Anna Maria Cupolillo Staff Giuridico Avvocato Express
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La delibera di approvazione del rendiconto non è del tutto irrilevante nel rapporto di credito e debito tra il Condominio e l’ex condomino. In tal caso, l’ex condomino non può limitarsi a contestare il documento nella sua globalità, deducendo la mera non vincolatività della delibera nei suoi confronti, ma è tenuto afootball manager 2021 ไฟล์เดียว contestare, in relazione al rendiconto approvato, le singole voci di spesa per cui ritiene non dovuti i contributi, restando a carico del Condominio, in tal caso, l’onere di provare, in relazione ad esse, il fondamento della propria pretesa. Questo è quanto stabilito dalla Cassazione civile, sez. II, ordinanza, 3 agosto 2022, n. 24069.
Il caso.Un ex condomino proponeva opposizione a due decreti ingiuntivi richiesti, il primo, dal supercondominio e, il secondo, dal Cnero 2015 torrentsondominio, per il pagamento di oneri condominiali approvati dalle rispettive assemblee e relativi ad annualità precedenti l’alienazione del suo immobile.
Nel giudizio di primo grado, dopo la riunione dei
procedimenti, il Giudice di prime cure dichiarava nulli i decreti ingiuntivi
opposti.
Avverso tale sentenza, veniva interposto appello e il Giudice di seconde cure, in riforma del precedente provvedimento, revocava il decreto ingiuntivo emesso in favore del supercondominio, condannando l’opponente al pagamento della minor somma di Euro 1.691,13, e rigettava, invece, l’opposizione nei confronti del provvedimento monitorio richiesto dal Condominio. Secondo il giuwondershare streaming audio recorder crack itadicante, le somme ingiunte erano a carico dell’opponente in quanto riferite a spese condominiali relative al periodo precedente la vendita in cui egli era ancora proprietario dell’immobile.
Avverso tale sentenza, il venditore proponeva ricorso per
Cassazione eccependo, tra i vari motivi, che non essendo l’opponente condomino
al momento della delibera, egli non poteva partecipare all’assemblea ed
impugnare le relative decisioni. A tale proposito la Corte di legittimità
riteneva opportuno richiamare alcune norme e principi che regolavano la
posizione che veniva ad assumere il condomino in conseguenza della vendita
della propria unità immobiliare. Secondo gli Ermellini, si poteva partire da
due affermazioni di carattere generale, più volte ribadite dalla giurisprudenza
della stessa Corte, cui erano legate implicazioni e conseguenze giuridiche che
meritavano di essere a loro volta esaminate e chiarite: “la prima è che il
condomino che venda la propria unità immobiliare è tenuto al pagamento delle
spese di gestione fatte nel periodo in cui era proprietario (Cass. n. 14531 del
2022; Cass. n. 11199 del 2021; Cass. n. 15547 del 2017; Cass. n. 1956 del 2000;
Cass. n. 981 del 1998). Il principio è diretta conseguenza della natura propter
rem delle obbligazioni che sorgono per effetto di tali spese ed è affermato
esplicitamente dall’art. 1123 c.c., oltre a ricevere dirette conferme da altre
disposizioni, tra cui quella dettata dall’art. 63 disp. att. c.c., laddove
prevede, al comma 4, un’obbligazione solidale autonoma, non propter rem,
a carico dell’acquirente per i contributi maturati nell’anno in corso ed in
quello precedente la vendita (Cass. n. 21860 del 2020), la quale presuppone
l’esistenza di una obbligazione principale a carico dell’ex proprietario, e, al
comma successivo, l’obbligo, sempre in via solidale, dello stesso per i
contributi maturati fino alla comunicazione all’amministratore dell’atto di
cessione del bene. La seconda affermazione è che il condomino che vende non può
più considerarsi tale, ma diventa soggetto estraneo al condominio (Cass. n.
23345 del 2008; Cass. n. 9 del 1990). La posizione di condomino è assunta, per
effetto della cessione, dal nuovo proprietario. Da tale seconda affermazione
discende, quale corollario, che il cedente, non essendo più condomino, non ha
alcun titolo per partecipare alle assemblee condominiali né può considerarsi
vincolato dalle sue deliberazioni. L’art. 1137 c.c., comma 1, stabilisce che le
deliberazioni dell’assemblea sono obbligatorie per tutti i condomini e tale principio
comporta, in negativo, che esse non sono vincolanti per coloro che sono
estranei alla compagine condominiale. Ne deriva che non ha senso porre il tema,
nei confronti dell’ex condomino, della definitività della delibera condominiale
per mancata impugnazione, dal momento che questi non può, non avendone la
legittimazione, proporla e che, inoltre, le contestazioni che egli dovesse
eventualmente sollevare in giudizio nei confronti della stessa sfuggono alla
stessa logica della distinzione tra cause di annullabilità e cause di nullità
della delibera, che può porsi esclusivamente rispetto alle impugnative proposte
dai condomini.” Pertanto, il cedente, non
essendo più condomino, non poteva considerarsi vincolato dalle deliberazioni.
Tuttavia, secondo il Supremo Collegio, il venditore non più legittimato a
partecipare direttamente alla assemblea poteva comunque far valere le sue
ragioni connesse al pagamento dei contributi relativi al periodo in cui era
proprietario attraverso l’acquirente che gli era subentrato, e per il quale,
anche in relazione al vincolo di solidarietà, si configurava una gestione di
affari non rappresentativa: partecipare alle assemblee condominiali e
rappresentare e far valere, in esse, anche le ragioni del suo dante causa.
Pertanto, l’obbligo del condomino di pagare i contributi per le spese di
manutenzione delle parti comuni dell’edificio derivava non dalla preventiva
approvazione della spesa e dalla ripartizione della stessa, ma dalla concreta
attuazione dell’attività di manutenzione e sorgeva, quindi, per effetto
dell’attività gestionale concretamente compiuta. Dunque, l’eventuale venir meno
della delibera per invalidità non comportava anche l’insussistenza del diritto
del Condominio di pretendere la contribuzione alle spese per i beni e servizi
comuni di fatto erogati. Con ciò si voleva dire che, a differenza di quella che
approvava l’esecuzione di lavori straordinari, la delibera dell’assemblea
condominiale che approvava il rendiconto era innovativa soltanto per la parte
che approvava il documento contabile, cui la legge riconduceva determinati
effetti, non con riguardo al suo contenuto, cioè alla rendicontazione delle
spese effettuate, nei cui confronti aveva un valore ricognitivo o dichiarativo.
Ad ogni modo, secondo il Supremo Collegio, il fatto che la delibera non fosse
vincolante per l’ex proprietario si traduceva nella possibilità di sollevare
avverso di essa contestazioni liberamente, non astrette nel termine ed alle
regole che disciplinano l’impugnativa da parte dei condomini ai sensi dell’art.
1137 c.c., ma non significava, per contro, che essa fosse del tutto irrilevante
nel rapporto di credito e debito tra il Condominio e l’ex condomino. In tali
termini, la delibera de qua si configurava come un documento ricognitivo
e, pertanto, rappresentativo che, seppure non vincolante nei confronti dell’ex
condomino, aveva tuttavia un valore probatorio intrinseco del credito vantato
dal Condominio, suscettibile di valutazione da parte del giudice. Ne discendeva
che l’ex condomino non poteva limitarsi a contestare il documento nella sua
globalità, deducendo la mera non vincolatività della delibera nei suoi
confronti, ma era tenuto a contestare, in relazione al rendiconto approvato, le
singole voci di spesa per cui ritiene non dovuti i contributi, restando a
carico del Condominio, in tal caso, l’onere di provare, in relazione ad esse,
il fondamento della propria pretesa. Altresì, la
considerazione secondo cui l’alienante dell’immobile, per effetto della
vendita, non fosse più condomino comportava l’inapplicabilità della
disposizione ex art. 63, comma 1, disp. att. c.c. che consentiva
all’amministratore, sulla base dello stato di ripartizione delle spese
approvato dall’assemblea, di ottenere decreto ingiuntivo provvisoriamente
esecutivo. Tale conseguenza, tuttavia, come nel caso de quo, non escludeva che
potesse avvalersi della procedura monitoria, ai sensi della norma generale
posta dall’art. 633 c.p.c., quindi senza automatica provvisoria esecuzione, procedura
che poteva contare sulla produzione da parte dell’amministratore della delibera
di approvazione di rendiconto e di ripartizione della spesa, a cui andava
riconosciuta valore di prova anche nei confronti dell’ex condomino, sia pure
sottoposta alla valutazione da parte del giudice.
Per tali motivi la Corte di Cassazione
rigettava il ricorso proposto nei confronti del Condominio e condannava il
ricorrente al pagamento delle spese di giudizio.
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