Ai fini dell’accertamento del tenore di vita familiare funzionale alla
quantificazione dell’assegno di mantenimento in favore di moglie e figli in
sede di separazione, rilevano anche i redditi sottratti al fisco e goduti dalla
famiglia. Si attribuisce al giudice il potere ufficioso di disporre accertamenti
patrimoniali allo scopo di fare emergere nel processo consistenze economiche
non palesate dalle parti, quando, in ragione del loro occultamento, l’ordinaria
ripartizione dell’onere della prova renderebbe estremamente difficoltosa, se
non impossibile, la loro rivelazione. Questo è quanto stabilito dalla Cassazione
civile, sez. I, ordinanza, 19 luglio 2022, n. 22616.
Il caso. Il Giudice di
prime cure dichiarava la separazione personale dei coniugi addebitandola al
marito, assegnava la casa coniugale alla moglie, quale genitore convivente con
il figlio maggiorenne non autosufficiente economicamente, poneva a carico del
marito l’obbligo di contribuire al mantenimento del figlio, mediante il
versamento alla madre della somma di Euro 1.200,00 mensili, da rivalutarsi
annualmente, oltre al pagamento del 100% delle spese straordinarie, stabiliva
in favore della moglie un assegno di mantenimento di Euro 1.300,00 mensili, da
rivalutarsi annualmente e compensava, in parte, le spese di lite.
Avverso tale sentenza la ricorrente proponeva appello innanzi alla Corte distrettuale, lamentando l’insufficienza della quantificazione degli assegni. Censurava la statuizione nella parte in cui, ai fini della determinazione del tenore di vita familiare e delle effettive condizioni economiche del marito, aveva escluso qualsivoglia rilevanza ai redditi derivanti dall’attività libero professionale del marito asseritaavg vpn crackedmente non dichiarati al fisco. Per questo insisteva sia per l’accoglimento dell’ordine di esibizione, formulata in primo grado, sia sul compimento di accertamenti di polizia tributaria. Si costituiva l’appellato chiedendo il rigetto dell’impugnazione. La Corte d’Appello rigettava l’impugnazione confermando la decisione del Tribunale.
Avverso tale sentenza veniva proposto ricorso per
cassazione articolato in due motivi. Con il primo motivo di impugnazione si deduceva
la violazione o falsa applicazione di legge per avere la Corte di appello
ritenuto che l’eventuale disponibilità di entrate sottratte all’imposizione
fiscale, di cui tutto il nucleo familiare aveva in passato beneficiato, non
potesse essere presa a parametro di riferimento per determinare l’assegno
spettante al coniuge separato e al figlio, mentre avrebbe dovuto considerare
che ciò che rilevava era il tenore di vita matrimoniale, a prescindere dal
fatto che le disponibilità di cui godeva la famiglia fossero o meno sottratte
all’imposizione fiscale. Con il secondo motivo di ricorso si deduceva la
violazione o falsa applicazione di legge per avere la Corte di Appello negato
indagini di polizia tributaria ed ulteriori approfondimenti istruttori mediante
ordini di esibizione ex art. 210 c.p.c., sull’erroneo presupposto che le
eventuali entrate sottratte all’imposizione fiscale non potessero costituire
parametro di riferimento del tenone di vita familiare. Il controricorrente
eccepiva l’inammissibilità dell’avverso ricorso. Il Supremo Collegio esaminava
congiuntamente il primo e secondo motivo essendo tra loro strettamente connessi
e riteneva entrambi fondati sia pure nei limiti di seguito esposti. La
giurisprudenza di legittimità consolidata riteneva che il giudice di merito per
quantificare l’assegno di mantenimento spettante al coniuge al quale fosse
addebitabile la separazione doveva accertare, quale indispensabile elemento di
riferimento, il tenore di vita di cui la coppia avesse goduto durante la
convivenza, quale situazione condizionante la qualità e la quantità delle
esigenze del richiedente, accertando le disponibilità patrimoniali
dell’onerato. Al riguardo, non poteva limitarsi a considerare soltanto il
reddito emergente dalla documentazione fiscale prodotta, ma, doveva tenere
conto anche degli altri elementi di ordine economico suscettibili di incidere
sulle condizioni delle parti quali la disponibilità di un consistente
patrimonio, anche mobiliare, e la conduzione di uno stile di vita
particolarmente agiato e lussuoso. Anche l’assegno di mantenimento in favore
dei figli minori e maggiori di età, ma non autosufficienti economicamente, doveva
essere determinato considerando le esigenze del beneficiario in rapporto al
tenore di vita goduto durante la convivenza dei genitori, tenendo conto di
tutte le risorse a disposizione della famiglia, non potendo i figli di genitori
separati essere discriminati rispetto a quelli i cui genitori continuano a
vivere insieme. L’art. 5, comma 9, L. 898/1970, stabiliva, altresì, che in caso
di contestazioni il Giudice di primo grado disponeva indagini sui redditi e
patrimoni dei coniugi e sul loro effettivo tenore di vita, avvalendosi, se del
caso, della polizia tributaria. Questa previsione applicabile per il giudizio
di divorzio, in via analogica, andava applicata anche ai procedimenti di
separazione personale così come prospettato dalla Cass. Civ. S.U. 11 luglio
2018, n. 18297 che aveva riconosciuto all’assegno divorzile la funzione
perequativo-compensativa accanto a quella assistenziale. Nel caso in esame, il
giudice del gravame aveva in un primo momento ribadito che le eventuali
disponibilità di denaro derivanti da attività sottratte al fisco di cui la
famiglia avesse goduto non potevano essere considerate ai fini della
ricostruzione del tenore di vita familiare, per poi rilevare che comunque al
fine della liquidazione degli assegni, non occorreva la precisa quantificazione
dei redditi delle parti, potendo il giudice desumere argomenti di prova anche
dal comportamento processuale delle parti in relazione all’ordine di esibizione
non adempiuti o non completamente adempiuti. Sulla base di tali principi
riteneva che il giudice di primo grado avesse operato la valutazione di tutti
gli elementi di prova acquisiti al processo, ritenuti più che idonei a fondare
la statuizione sulla misura dei medesimi assegni. Tuttavia, la Suprema Corte riteneva
che tali principi non fossero conformi a diritto tenuto conto che anche le
entrate sottratte al fisco contribuivano alla ricostruzione del tenore di vita
familiare; tali entrate, ove esistenti, dovevano essere accertate anche facendo
ricorso a presunzioni e argomenti di prova, il giudice quindi non aveva
adottato l’ordine di esibizione richiesto e non aveva potuto valutare il
contegno processuale in ordine allo stesso. Ne conseguiva che non risultava
conforme a diritto la statuizione di rigetto di richiesta di indagini di
polizia tributaria. Gli Ermellini precisavano che l’art. 5, comma 9, L.
898/1970, non poteva essere
letto nel senso che il potere del giudice di disporre indagini di polizia
tributaria dovesse essere considerato come un dovere imposto dalla mera
contestazione delle parti in ordine alle rispettive condizioni economiche e la
relativa istanza e la contestazione dei fatti incidenti sulla posizione reddituale
del coniuge dovevano basarsi su fatti specifici e circostanziati. Il Supremo
Collegio aveva più volte affermato che il diniego delle indagini non era
sindacabile purché fosse correlabile, anche per implicito, ad una valutazione
di superfluità dell’iniziativa e di sufficienza dei dati istruttoria acquisiti.
Era tuttavia evidente che tale valutazione doveva fondarsi su corretti
presupposti giuridici tra cui quelli inerenti alla individuazione degli
elementi che rilevavano ai fini della decisione. Nel caso de quo, la Suprema
Corte riteneva che non potevano ritenersi superflue ai fini della ricostruzione
del tenore di vita familiare le eventuali entrate occultate al fisco. Il
giudice dell’appello non avrebbe dovuto valutare la sufficienza o meno delle
prove già acquisite, nella non corretta ottica della irrilevanza di possibili
redditi nascosti al fisco, ma verificare se gli elementi addotti dalla
ricorrente in ordine all’incompletezza e alla inattendibilità delle risultanze
relative alle consistenze economiche del marito, fossero così specifiche e
circostanziate da giustificare la ricerca di ulteriori informazioni rispetto a
quelle già acquisite, facendo ricorso alla polizia tributaria. Solo una volta
acquisite tali informazioni, il medesimo giudice avrebbe, poi, potuto valutare
se le medesime fossero in grado di rappresentare un tenore di vita migliore di
quello già acquisito al processo e, dunque, di giustificare un aumento degli
assegni di mantenimento oppure no.
Per tali motivi la Corte di Cassazione accoglieva il
ricorso, cassava la sentenza impugnata e rinviava la causa, anche per quanto
riguardava le spese del presente grado di giudizio, alla Corte di appello competente
in diversa composizione.
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L’acquirente dell’appartamento risponde soltanto delle obbligazioni condominiali sorte in epoca successiva al momento in cui, acquistandolo, è divenuto condomino e qualora sia chiamato a rispondere delle obbligazioni condominiali sorte in epoca anteriore, in virtù del principio dell’ambulatorietà, ha comunque diritti a rivalersi nei confronti del suo dante causa. Questo è quanto stabilito dalla Cassazione civile, sez. II, ordinanza, 9 maggio 2022, n. 14531.
Il caso. Una signora,
in qualità di acquirente di un appartamento, conveniva in giudizio la
venditrice, chiedendo la condanna di quest’ultima alla restituzione della somma
pari ad Euro 17.738,93 corrisposta dall’attrice in favore del Condominio a
titolo di oneri condominiali a seguito di decreto ingiuntivo, emesso nei suoi
confronti in quanto proprietaria attuale dell’immobile, affermando che detti
oneri erano di spettanza della convenuta venditrice in quanto relativi a voci
di spesa antecedenti l’alienazione dell’appartamento. Il Tribunale competente
accoglieva la domanda formulata dall’attrice.
Avverso tale sentenza la soccombente venditrice
interponeva gravame. La Corte di appello distrettuale accoglieva l’appello e,
in riforma della sentenza impugnata, respingeva l’originaria domanda. In
particolare, i giudici di seconde cure affermavano che, essendo i contributi
condominiali in questione precedenti di oltre due anni la compravendita,
l’obbligazione oggetto di causa non era solidale fra le parti per cui l’azione
proposta dall’acquirente non poteva essere qualificata di regresso ai sensi
dell’art. 1299 c.c., ma quale adempimento del terzo di un debito altrui, con
conseguente richiesta di restituzione da parte dell’effettivo debitore, essendo
pacifico che il soggetto obbligato nei confronti del Condominio fosse la
venditrice. Ciò posto, la Corte d’Appello accertava che la venditrice,
“ben prima” del pagamento effettuato in corso di causa
dall’acquirente, aveva rappresentato a quest’ultima che le delibere sulle quali
il Condominio fondava il proprio credito erano radicalmente nulle in quanto
effettuate senza la partecipazione di tutti gli aventi diritto, manifestando
così l’intenzione di non voler procedere al pagamento e di far valere dette
nullità nell’ipotesi di ingiunzione da parte del Condominio. Altresì, la Corte
affermava che l’acquirente non era legittimata a richiedere la restituzione di
quanto “malamente pagato”, per non aver dato immediata comunicazione
alla debitrice effettiva della ricevuta notifica del decreto ingiuntivo
relativo ad un debito altrui e avendo, così, impedito alla venditrice di
difendersi e opporsi tempestivamente.
Avverso tale sentenza l’acquirente proponeva ricorso
per Cassazione con due motivi. Con il primo motivo la ricorrente sosteneva di
vantare un diritto di credito nei confronti della venditrice sia in forza della
clausola prevista al punto n. 3 del contratto di compravendita con la quale
controparte si sarebbe impegnata a consegnare all’acquirente l’immobile libero
da pesi, gravami, vincoli, oneri e privilegi, sia in ragione della contestuale
scrittura privata in manleva intercorsa inter partes. Aggiungeva, inoltre, che
la fattispecie in esame non sarebbe rientrata nel paradigma di cui all’art.
1180 c.c., rivestendo non già la qualità di terzo ma quella di nuova proprietaria
dell’appartamento e, come tale, sarebbe stata obbligata al pagamento degli
oneri nei rapporti con il Condominio, dovendosi qualificare il debito
condominiale oggetto di causa come obbligazione reale. Con il secondo motivo la
ricorrente lamentava il vizio di motivazione della sentenza impugnata per
omesso esame circa un fatto controverso e decisivo in relazione all’art. 1137
c.c. e art. 305 c.p.c., per aver il giudice di appello rigettato la domanda
dell’acquirente per non avere quest’ultima attivato un procedimento monitorio
di opposizione a decreto ingiuntivo che le avrebbe consentito di chiamare in
causa la venditrice così da permetterle di poter eccepire la nullità delle
delibere condominiali poste a fondamento del decreto ingiuntivo. Ad avviso della
ricorrente, infatti, la sua eventuale opposizione a decreto ingiuntivo non
avrebbe mai comportato una declaratoria di nullità delle predette delibere,
poiché sarebbero state già impugnate dalla venditrice in due precedenti
giudizi, conclusisi entrambi, uno con sentenza definitiva di rigetto
dell’opposizione e l’altro con dichiarazione di estinzione per mancata
riassunzione. I motivi del
ricorso venivano esaminati congiuntamente data la loro intrinseca connessione. Secondo pacifica giurisprudenza della Corte “in
tema di ripartizione delle spese condominiali tra venditore e acquirente
dell’immobile, il previgente art. 63 disp. att. c.c., comma 2, ratione temporis
applicabile – ora, in forza della L. n. 220 del 2012, art. 63, comma 4, disp.
att. c.c. – delinea a carico dell’acquirente un’obbligazione solidale, non
propter rem, ma autonoma, in quanto costituita ex novo dalla legge
esclusivamente in funzione di rafforzamento dell’aspettativa creditoria del
Condominio su cui incombe, poi, l’onere di provare l’inerenza della spesa
all’anno in corso o a quello precedente al subentro dell’acquirente (Cass. n.
21860 del 2020). In altri termini, la responsabilità solidale dell’acquirente
per il pagamento dei contribuiti dovuti al Condominio dal venditore è limitata
al biennio precedente all’acquisto, trovando applicazione l’art. 63 disp. att.
c.c., comma 2, e non già l’art. 1104 c.c., atteso che, ai sensi dell’art. 1139
c.c., le norme sulla comunione in generale si estendono al condominio soltanto
in mancanza di apposita disciplina (Cass. n. 2979 del 2012 e Cass. n. 16975 del
2005).” Inoltre, gli Ermellini, ribadivano che “il principio
dell’ambulatorietà di cui all’art. 63 disp. att. c.c., secondo cui l’acquirente
di un’unità immobiliare condominiale può essere chiamato a rispondere dei
debiti condominiali del suo dante causa, solidamente con lui, ma non al suo
posto, opera solo nei confronti dei rapporti esterni con il condominio, non
anche nei rapporti interni tra acquirente e venditore. In quest’ultimo
rapporto, salvo che non sia diversamente convenuto dalle parti, è operante il
principio generale della personalità delle obbligazioni, con la conseguenza che
l’acquirente dell’appartamento risponde soltanto delle obbligazioni
condominiali sorte in epoca successiva al momento in cui, acquistandolo, è
divenuto condomino e qualora sia chiamato a rispondere delle obbligazioni
condominiali sorte in epoca anteriore, in virtù del principio
dell’ambulatorietà, ha comunque diritti a rivalersi nei confronti del suo dante
causa (Cass. n. 1956 del 2000).” Anche la Corte d’Appello aveva affermato
che, essendo i contributi condominiali precedenti di oltre due anni la
compravendita, l’obbligazione oggetto della causa non era solidale fra le
parti, per cui l’azione proposta dall’acquirente dell’immobile non poteva
essere qualificata di regresso ai sensi dell’art, 1299 c.c., ma quale
adempimento del terzo di un debito altrui, con conseguente richiesta di
restituzione da parte dell’effettivo debitore. Alla luce di tali
considerazioni, nel caso di specie l’unico soggetto obbligato al pagamento
delle spese nei confronti del Condominio era la venditrice, in qualità di
proprietaria dell’unità immobiliare al momento dell’adozione delle delibere
condominiali fonti dell’obbligazione in questione, con conseguente legittimità
dell’azione di indebito soggettivo proposta dall’acquirente.
Per tali motivi la Corte di Cassazione accoglieva il ricorso, cassava la
sentenza impugnata e rinviava alla Corte di appello distrettuale, in diversa
composizione, anche per la liquidazione delle spese del giudizio di
legittimità.
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Va
annullata la delibera assunta dal Condominio per difetto di ricezione
dell’avviso di convocazione da parte di un condomino. Questo è quanto stabilito
dal Tribunale Roma, sentenza, 18 febbraio 2022, n. 2636
Il
caso. Una condomina citava in giudizio il Condominio
chiedendo l’annullamento della delibera condominiale per violazione delle forme
di convocazione. L’attrice impugnava la delibera lamentando di non aver
ricevuto la convocazione per la relativa assemblea. “In materia di
condominio, la disposizione di cui all’art. 1136 co. VI c.c. – secondo cui
l’assemblea non può deliberare se non consta che tutti i condomini sono stati
invitati alla riunione – comporta che ogni condomino ha diritto di intervenire
all’assemblea e deve quindi essere messo in condizione di farlo ricevendo
l’avviso di convocazione nel termine indicato dall’art. 66 disp. att. c.c., se
non è previsto un termine pattizio maggiore (Cass. 22.11.1985, n.5769); il
vizio derivante dall’omessa convocazione, incidendo sulla corretta formazione
della volontà collegiale, comporta l’annullabilità della delibera, come
chiarito dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (n.4806/2005), e la
prova dell’avvenuta convocazione entro tale termine spetta al condominio”. L’adito
Tribunale accoglieva la domanda attorea ricordando che, come chiarito da tempo
dalla giurisprudenza di legittimità, l’avviso deve essere non solo inviato ma
anche ricevuto dal condomino entro il termine stabilito (Cass. n. 5769/1985),
proprio alla luce della ratio della norma, che mira ad assicurare la
conoscenza, o anche solo la conoscibilità con l’ordinaria diligenza, da parte
del condomino dell’esistenza di un’assemblea e degli argomenti che in essa si
discuteranno”. Nel caso de quo, infatti, il Condominio non aveva assolto tale
onere probatorio, limitandosi a produrre copia della raccomandata spedita
tramite posta privata e consegnata al portiere dello stabile. A tal proposito
il Tribunale rammentava che dal 2011, grazie al processo di liberalizzazione
del mercato postale, l’avviso di convocazione dell’assemblea di Condominio poteva
avvenire anche tramite servizio postale privato. Nel caso in esame, però la
raccomandata era stata sottoscritta dal portiere con la mera indicazione di
tale sua qualità. Tale notifica, pertanto, doveva considerarsi nulla e non in
grado di comprovare l’effettiva e tempestiva ricezione da parte del
destinatario dell’avviso di convocazione.
Per
tali motivi il Tribunale accoglieva la domanda e, per l’effetto, annullava la
delibera impugnata per difetto di ricezione dell’avviso di convocazione della
stessa.
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Le deliberazioni concernenti l’installazione su parti
comuni di impianti volti a consentire la videosorveglianza di essi sono approvate
dall’assemblea con la maggioranza di cui all’art. 1136, comma 1, c.c. (ossia tanti condomini
che rappresentino i due terzi del valore dell’intero edificio e la maggioranza
dei partecipanti al Condominio). Ciò è quanto stabilito dalla Cassazione civile,
sez. II, ordinanza, 11 maggio 2022, n. 14969.
Il caso. Una condomina di uno stabile impugnava due deliberazioni assembleari: la
prima riguardante la ripartizione, in base ai millesimi di proprietà, del
canone da versare al Comune per una intercapedine per l’anno 2010 e della spesa
per l’installazione di un sistema di videosorveglianza; la seconda la
ripartizione del canone per l’intercapedine per l’anno successivo e la spesa
per completare l’impianto già oggetto della precedente delibera. Il Tribunale
dichiarava inammissibile l’impugnativa della prima delibera per decorso del
termine e rigettava l’impugnativa della seconda, ritenendola infondata.
Avverso tale
sentenza la condomina interponeva appello deducendo che le due delibere erano nulle e non semplicemente
annullabili, sia per quanto riguardava la spesa per il canone per
l’intercapedine, sia per la spesa relativa all’impianto di videosorveglianza.
Secondo la condomina, l’intercapedine non era un bene comune e, in ogni caso,
la relativa spesa non poteva essere imputata a tutti i condomini in base ai
millesimi di proprietà, ma doveva ripartirsi in base all’uso. Al riguardo
evidenziava che l’intercapedine era destinata al servizio dei box interrati
posti ai piani -2 e -3 e, altresì, in ordine all’impianto di videosorveglianza,
eccepiva che la materia esulava dalla competenza dell’assemblea, richiedendosi
il consenso unanime di tutti i partecipanti al Condominio. La Corte d’Appello
distrettuale confermava la sentenza di primo grado, osservando che il
Condominio aveva replicato che l’intercapedine era funzionale all’intero
fabbricato e che, al cospetto di tale deduzione, la diversa destinazione
dell’intercapedine, dedotta dalla condomina, era rimasta del tutto sfornita di
prova; inoltre, riconosceva la legittimità della decisione dell’assemblea
riguardo all’impianto di videosorveglianza, benchè assunta solo a maggioranza.
Avverso tale sentenza la condomina proponeva ricorso
per Cassazione sulla base di due motivi di doglianza. In particolare, la
condomina lamentava che i giudici di seconde cure non avessero tenuto conto
della maggioranza occorrente per l’installazione dell’impianto di
videosorveglianza, non bastando secondo la ricorrente quella semplice.
Secondo la Suprema Corte, prima della riforma del Condominio la giurisprudenza
di merito, nel silenzio della legge, aveva affrontato più volte le
problematiche sottese all’uso di telecamere, arrivando però a soluzione
contrastanti. In particolare, una parte della giurisprudenza di merito
sosteneva che la delibera dell’assemblea condominiale che approva
l’installazione di un impianto di videosorveglianza relativo a parti comuni,
non rientrava, in senso assoluto, tra quelle riconducibili all’approvazione
dell’assemblea. Altro orientamento faceva salvo il caso in cui la decisione
fosse stata assunta all’unanimità dai condomini, perfezionandosi in questo caso
un comune consenso idoneo a fondare effetti tipici di un negozio dispositivo
dei diritti coinvolti. Una terza impostazione si accontentava della deliberazione
a maggioranza e per la prospettata violazione della privacy dei condomini
richiamava la giurisprudenza della Corte di cassazione penale secondo cui
installare una telecamera sul cortile condominiale non integrava gli estremi
del reato di cui all’art. 615 bis c.p.. Il legislatore della novella, con un
articolo dedicato, ossia il nuovo art. 1122 ter c.c., ha introdotto, nel
sistema della disciplina condominiale, la videosorveglianza. La nuova
disposizione prescriveva che le deliberazioni concernenti l’installazione su
parti comuni di impianti volti a consentire la video sorveglianza di essi erano
approvate dall’assemblea con la maggioranza di cui all’art. 1136, comma 1, c.c.
(ossia tanti
condomini che rappresentino i due terzi del valore dell’intero edificio e la
maggioranza dei partecipanti al Condominio).
Per tali motivi la Corte di Cassazione rigettava il
ricorso e condannava la ricorrente al pagamento, in favore del
controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità.
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Configura illecito amministrativo e, pertanto, è
legittima la multa per il proprietario della vettura lasciata in sosta nelle
strisce blu oltre la scadenza del tagliando acquistato subito dopo avere
ultimato la manovra di parcheggio. Questo è quanto sancito dalla Corte di
Cassazione, sez. II, ordinanza, 10 marzo 2022, n. 7839.
Il caso. Una donna
agiva contro il Comune contestando la multa rinvenuta sul parabrezza della sua vettura
rimasta parcheggiata, in un’area di sosta regolamentata, oltre l’orario esposto
nel ticket, regolarmente acquistato subito dopo avere piazzato il veicolo nelle
strisce blu. Il Giudice di prime cure dava ragione alla donna.
Avverso tale sentenza il Comune proponeva appello e il
Giudici di seconde cure, in riforma della pronuncia di primo grado, ritenevano
legittima la multa a carico della donna sostenendo che “la sosta dell’automobile
nelle strisce blu con il ticket scaduto configura un illecito amministrativo,
al pari di quanto avviene nel caso in cui l’automobilista non si munisca
affatto del biglietto.”
Avverso tale sentenza la donna proponeva ricorso per
cassazione sostenendo che “chi paga il ticket ma non integra il versamento per
le ore successive non incorre in alcuna violazione del Codice della strada,
bensì soltanto in una violazione dell’obbligazione contrattuale, sorta nel
momento in cui si acquista il ticket. Il legislatore avrebbe distinto la sosta
a pagamento dalla sosta regolamentata prevedendo la potestà sanzionatoria solo
in caso di sosta regolamentata, con illegittima estensione analogica della
norma sanzionatoria, in violazione del principio di legalità.” La Suprema Corte
affermava che il Tribunale si fosse conformato al costante orientamento della
Corte (Cass. sez. VI, 21.05.2021, n. 14083; Cass., sez. II, 3.08.2016, n. 16258), secondo cui “la
sosta a pagamento su suolo pubblico che si protragga oltre l’orario per il
quale è stata corrisposta la tariffa non costituisce inadempimento contrattuale
ma illecito amministrativo, sanzionato dall’art.7 C.d.S., comma 15, trattandosi
di evasione tariffaria in violazione delle prescrizioni della “sosta
regolamentata”, introdotte per incentivare la rotazione e la razionalizzazione
dell’offerta di sosta.” Inoltre, come già affermato in precedenti pronunce (Cass.,
Sez. II, 25 febbraio 2008, n. 4847; Cass. Sez. II, 4 ottobre 2011, n. 20308), “l’art.
157 C.d.S., prevede due distinte condotte: quella di porre in sosta
l’autoveicolo senza segnalazione dell’orario di inizio della sosta, laddove
essa è prescritta per un tempo limitato, ed il fatto di non attivare il
dispositivo di controllo della durata della sosta, nei casi in cui esso è
espressamente previsto.” Contrariamente a quanto affermato dalla ricorrente, l’art.
157 C.d.S., comma 8, prevedeva per la loro violazione la medesima sanzione. L’espressione
“dispositivo di controllo di durata della sosta”, utilizzata dell’art.
157 C.d.S., comma 6, valeva a comprendere i casi di c.d. parcheggi a pagamento
mediante acquisto di apposita scheda, ciò discendendo dal rilievo che tale formula
era la medesima di quella usata dalla disposizione del Codice della Strada che
consentiva ai Comuni, nell’ambito delle loro competenze in materia di
regolamentazione della circolazione nei centri abitati, di stabilire aree di
parcheggio a pagamento, anche senza custodia dei veicoli (art. 7, comma 1,
lett. f). La sentenza della Sezione II, settembre 2008, n. 22036, aveva
affermato che “là dove il sindaco si sia avvalso del potere di stabilire,
previa deliberazione della giunta, aree destinate al parcheggio sulle quali la
sosta dei veicoli è subordinata al pagamento di una somma da riscuotere
mediante dispositivi di controllo di durata della sosta, anche senza custodia
del veicolo, fissando le relative condizioni e tariffe, la stessa non si
sottrae all’operatività della sanzione amministrativa pecuniaria nei casi di
sosta protrattasi in violazione dei limiti o della regolamentazione al cui
rispetto essa era subordinata.” A sua volta, la Sez. 6-2, 9 gennaio 2012, n.
30, aveva cassato la sentenza del giudice del merito che aveva escluso
“che nell’ipotesi di cui all’art.7 C.d.S., superata l’ora scatti la
medesima violazione come avviene nel caso del sistema previsto per la sosta
limitata di cui all’art. 157 C.d.S. “, sul rilievo – non condiviso dalla
Corte di legittimità – che nel primo caso “scatti soltanto il diritto del
Comune di riscuotere la tassa per l’utilizzo del parcheggio a pagamento ed in
relazione alla durata stessa della sosta”. Questo orientamento era stato
recepito dalla giurisprudenza della Corte dei Conti (Sezione giurisdizionale
per la Regione Lazio, sentenza 19 settembre 2012, n. 888). Il giudice contabile
aveva infatti affermato che “la mancata contestazione della sanzione pecuniaria
da parte dell’ausiliario del traffico (e della società affidataria del
servizio) nel momento in cui è stata accertata la sosta del veicolo senza
ticket comprovante il pagamento del corrispettivo dovuto oppure con tagliando
esposto scaduto per decorso del tempo di sosta pagato (che è pur sempre una
fattispecie di mancato pagamento che il C.d.S., senza distinzioni, sanziona),
configura una ipotesi di danno erariale per il Comune, rappresentato dal
mancato incasso dei proventi che sarebbero derivati dalla applicazione della
sanzione per violazione delle norme che disciplinano la sosta in aree a
pagamento.” Il Giudice di primo grado aveva fatto corretta applicazione dei
principi affermati dalla Suprema Corte ed aveva ritenuto che, in materia di
sosta a pagamento su suolo pubblico, ove la sosta si protraesse oltre l’orario
per il quale era stata corrisposta la tariffa, si incorreva in una violazione
delle prescrizioni della sosta regolamentata poiché l’assoggettamento al
pagamento della sosta era un atto di regolamentazione della sosta stessa. Il
Tribunale aveva, quindi, ritenuto che la sosta del veicolo della ricorrente,
con ticket di pagamento esposto scaduto per decorso del tempo di sosta pagato,
aveva natura di illecito amministrativo e di inadempimento contrattuale.
Per tali motivi la Corte di Cassazione rigettava il
ricorso e condannava la parte ricorrente al pagamento, in favore della parte
controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità.
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Per il furto occorso
nell’appartamento di una condomina, in caso di riscontro, in modo univoco, di
elementi quali il furto, le modalità di accesso all’appartamento, l’assenza di
sistemi di allarme e di illuminazione sulle impalcature, la presenza di porta
blindata nell’appartamento, sono responsabili, in solito, sia il Condominio che
la ditta esecutrice dei lavori di straordinaria manutenzione.
Questo è quanto stabilito dalla Cassazione civile,
sez. VI – 3, ordinanza, 27 dicembre 2021, n. 41542.
Il caso. Una condomina
citava innanzi al Tribunale competente il Condominio e la ditta deducendo di aver
subito, nell’appartamento dei propri genitori presso il quale aveva il
domicilio, sito al quinto piano dello stabile, un furto di oggetti preziosi per
un valore complessivo di Euro 33.925,00, furto agevolato dalla presenza di una
impalcatura, posta a ridosso dell’edificio dalla ditta esecutrice dei lavori di
manutenzione straordinaria di cui i ladri si erano serviti per raggiungere
l’appartamento. Altresì, chiedeva la condanna di entrambi i convenuti, in
solido, al risarcimento dei danni. Il giudice di prime cure, acquisite prove
testimoniali e i verbali di polizia giudiziaria redatti dall’agente che era
intervenuto sul posto nell’immediatezza dei fatti, riteneva che entrambi i
convenuti fossero responsabili: l’impresa appaltatrice, ai sensi dell’art. 2043
c.c., per aver omesso la dovuta diligenza nel posizionare l’impalcatura, ed il
Condominio, ai sensi dell’art. 2051 c.c., per omessa custodia. Conseguentemente,
entrambi in solido, venivano condannati a risarcire la somma di Euro 33.925,00.
Interposto gravame, i
giudici di seconde cure, confermavano la responsabilità del Condominio e della ditta,
escludevano ogni ipotesi di corresponsabilità della persona derubata e riducevano,
in via equitativa, a 10.000,00 euro il risarcimento del danno.
Avverso tale sentenza
il Condominio proponeva ricorso per cassazione. La Suprema Corte riteneva corretto
e condivisibile l’operato della Corte d’Appello che aveva valorizzato il
resoconto fornito dall’agente di Polizia chiamato dalla derubata subito dopo la
scoperta del furto. Sostanzialmente, era evidente il valore dei dati evidenziati,
in modo univoco, dall’esponente delle forze dell’ordine, ovvero “il furto, le
modalità di accesso all’appartamento, l’assenza di sistemi di allarme e di
illuminazione sulle impalcature, la presenza di porta blindata nell’appartamento”.
Da tutto ciò era palese che tali elementi avessero facilitato l’opera dei ladri
e che del danno subito dalla persona derubata fossero responsabili il
Condominio e la ditta esecutrice dei lavori.
Per tali motivi la
Corte di Cassazione dichiarava il ricorso inammissibile e condannava il
ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità.
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