In tema di Condominio negli edifici, dei danni da
infiltrazioni cagionati dal lastrico solare o dalla terrazza a livello di uso
esclusivo, imputabili non alla omissione di riparazioni del bene, quanto a
difetti di progettazione o di esecuzione dell’opera, indebitamente tollerati
dal singolo proprietario, risponde soltanto quest’ultimo, ai sensi dell’art.
2051 c.c., e non anche il Condominio, il quale è obbligato ad eseguire le
attività di conservazione e di manutenzione straordinaria del bene, e non ad
eliminarne i vizi costruttivi originari. Questo è quanto stabilito dalla Corte
di Cassazione, sez. VI Civile – 2, ordinanza 19556/2021, depositata l’8 luglio.
Il caso. La Corte d’Appello distrettuale aveva parzialmente riformato la sentenza
resa dal Tribunale, con cui veniva accolta la domanda avanzata dal proprietario
ad uso esclusivo del lastrico solare e condannato il Condominio al risarcimento
dei danni subiti dall’unità immobiliare dell’attore, sita al secondo piano
dell’edificio, a causa delle infiltrazioni provenienti dal lastrico solare di
proprietà esclusiva dell’attore. Il Tribunale, inquadrando la fattispecie
nell’ipotesi di cui all’art. 1126 c.c., aveva ripartito le spese di ripristino
e riparazione tra il proprietario dell’unità immobiliare danneggiata e del lastrico
solare e il Condominio convenuto, nelle proporzioni indicate dalla norma
stessa. La Corte d’Appello, ritenendo che il primo giudice non avesse tenuto
conto del fatto che, come emerso dalle risultanze probatorie, le cause delle
infiltrazioni fossero da imputare non già a usura e a carenze manutentive, ma a
difetti originari di costruzione della copertura, aveva applicato il criterio
di imputazione di responsabilità indicato dall’art. 2051 c.c., così onerando
delle spese in oggetto il solo proprietario del lastrico solare, senza alcuna
partecipazione del Condominio.
Avverso tale sentenza il Condomino proponeva ricorso
per cassazione lamentandosi del fatto che la Corte d’Appello si fosse basata su
un orientamento non più attuale, in quanto superato dalla giurisprudenza delle
Sezioni Unite della Corte di Cassazione. Gli Ermellini, uniformandosi al
principio di diritto enunciato da Cass. Sez. U, 10/05/2016, n. 9449, ribadivano
che “in tema di condominio negli edifici, qualora l’uso del lastrico solare (o della
terrazza a livello) non sia comune a tutti i condomini, dei danni da
infiltrazioni nell’appartamento sottostante rispondono sia il proprietario, o
l’usuario esclusivo, quale custode del bene ai sensi dell’art. 2051 c.c., sia
il condominio in forza degli obblighi inerenti l’adozione dei controlli
necessari alla conservazione delle parti comuni incombenti sull’amministratore
ex art. 1130 c.c., comma 1, n. 4, nonché sull’assemblea dei condomini ex art.
1135 c.c., comma 1, n. 4, tenuta a provvedere alle opere di manutenzione
straordinaria, regolandosi il concorso di tali responsabilità, secondo i
criteri di cui all’art. 1126 c.c., a meno che non risulti la prova della
riconducibilità del danno a fatto esclusivo del titolare del diritto di uso
esclusivo del lastrico solare.” Nel caso de quo, era stato accertato dai
giudici del merito – in base ad apprezzamento sottratto al sindacato di
legittimità dell’efficacia eziologica delle rispettive condotte asseritamente
lesive – che la causa dei danni fosse imputabile non alla omissione di
riparazioni del lastrico dovute a vetustà, ipotesi cui tornava applicabile
l’art. 1126 c.c., quanto riconducibile a difetti originari di progettazione o
di esecuzione dell’opera, indebitamente tollerati dal singolo proprietario, con
conseguente responsabilità del solo medesimo proprietario del lastrico solare,
ex art. 2051 c.c., e non anche – sia pure in via concorrenziale – del Condominio,
il quale era obbligato ad eseguire le attività di conservazione e di
manutenzione straordinaria del bene, ma non ad eliminarne i vizi costruttivi
originari (Cass. Sez. 2, 21/11/2016, n. 23680; Cass. Sez. 3, 19/06/2013, n.
15300; Cass. Sez. 2, 15/04/2010, n. 9084; Cass. Sez. 3, 18/06/1998, n. 6060).
Quindi, “In tema di condominio negli edifici, dei danni da infiltrazioni
cagionati dal lastrico solare o dalla terrazza a livello di uso esclusivo,
imputabili non alla omissione di riparazioni del bene, quanto a difetti di
progettazione o di esecuzione dell’opera, indebitamente tollerati dal singolo
proprietario, risponde soltanto quest’ultimo, agli effetti dell’art. 2051 c.c.,
e non anche – sia pure in via concorrenziale – il condominio, il quale è
obbligato ad eseguire le attività di conservazione e di manutenzione
straordinaria del bene, e non ad eliminarne i vizi costruttivi originari.”
Per tali motivi la Corte di Cassazione dichiarava
inammissibile il ricorso e condannava il ricorrente a rimborsare al
controricorrente le spese sostenute nel giudizio di legittimità.
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Il condomino, che subisca nella propria unità immobiliare un danno
derivante dall’omessa manutenzione delle parti comuni dell’edificio assume,
quale danneggiato, la posizione di terzo avente diritto al risarcimento nei
confronti del Condominio, senza tuttavia essere esonerato dall’obbligo, che
trova la sua fonte nella comproprietà o nella utilità di quelle e non nella
specifica condotta illecita ad esso attribuibile, di contribuire a sua volta, in misura proporzionale al valore della rispettiva
porzione, alle spese necessarie per la riparazione delle parti comuni
dell’edificio e alla rifusione dei danni cagionati. Questo è quanto stabilito
dalla Corte di Cassazione, sez. VI Civile – 2, ordinanza n. 18187/2021,
depositata il 24 giugno.
Il caso. Una s.r.l., proprietaria del piano terra
dell’edificio condominiale, adiva in giudizio chiedendo la condanna del
Condominio al rimborso delle spese da essa anticipate ed al risarcimento dei
danni in relazione al lastrico comune di copertura, costituente la corte
interna del fabbricato. Il Tribunale competente condannava il Condominio al
pagamento in favore della s.r.l. delle somme anticipate da questa per
l’esecuzione dei lavori necessari alle parti comuni (Euro 29.040,00 e Euro
36.274,31) nonché ai danni pari ad Euro 18.872,86. La Corte d’Appello territoriale annullava la delibera
assembleare, impugnata ex art. 1137 c.c. dalla società. Tale delibera aveva
ripartito la spesa occorrente per risarcire i danni subiti dalla porzione di
proprietà esclusiva della società attrice a causa dell’omessa manutenzione di
una corte comune, danni accertati con sentenza resa dal Tribunale competente.
La decisione impugnata affermava
la sussistenza dell’obbligo dell’appellante di contribuire anch’essa, quale
condomina, alla spesa occorrente per risarcire il danno subito dall’unità immobiliare
di proprietà della s.r.l..
Avverso tale sentenza la società proponeva ricorso per cassazione con un
unico motivo deducendo la violazione dell’art. 2909 c.c. e sostenendo
che la sentenza di primo grado aveva condannato al risarcimento l’intera
compagine condominiale con l’esclusione, però, della attrice danneggiata.
Secondo gli Ermellini, “l’accertamento
della responsabilità risarcitoria della compagine condominiale per i danni
cagionati dall’omessa manutenzione delle parti comuni alla porzione di
proprietà esclusiva di uno dei condomini, risultante da sentenza definitiva di
condanna del condominio, in persona dell’amministratore, non esclude affatto
che lo stesso condomino danneggiato rimanga a sua volta gravato pro quota nei
confronti del condominio dell’obbligo di contribuzione alla correlata spesa,
che trova la sua fonte nella comproprietà delle parti comuni dell’edificio e
non nella specifica condotta illecita ad esso attribuibile (cfr. Cass. Sez. 2,
14/02/1987, n. 1618; Cass. Sez. 3, 02/04/2001, n. 4797; Cass. Sez. 2,
18/05/2001, n. 6849; Cass. Sez. 3, 08/11/2007, n. 23308).” Pertanto, la delibera assembleare in oggetto non
contrastava con la condanna risarcitoria statuita dal Tribunale. Sulla base di
ciò, la Suprema Corte affermava che “Il condomino, che subisca nella
propria unità immobiliare un danno derivante dall’omessa manutenzione delle
parti comuni dell’edificio ai sensi degli artt. 1123, 1124, 1125 e 1126 c.c.,
assume, quale danneggiato, la posizione di terzo avente diritto al risarcimento
nei confronti del condominio, senza tuttavia essere esonerato dall’obbligo, che
trova la sua fonte nella comproprietà o nella utilità di quelle e non nella
specifica condotta illecita ad esso attribuibile, di contribuire a sua volta,
in misura proporzionale al valore della rispettiva porzione, alle spese
necessarie per la riparazione delle parti comuni dell’edificio e alla rifusione
dei danni cagionati.”
Per tali motivi la Corte di Cassazione
rigettava il ricorso e condannava la ricorrente a rimborsare al
controricorrente le spese sostenute nel giudizio di legittimità.
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Ove un condomino abbia chiesto la revisione delle tabelle millesimali
deducendo la divergenza tra i valori effettivi e quelli accertati in tabella,
spetta al Giudice verificare i valori di ciascuna delle unità immobiliari,
tenendo conto di tutti gli elementi oggettivi, quali la superficie, l’altezza
del piano, la luminosità, l’esposizione, incidenti sul valore effettivo di esse
e quindi di adeguarvi le tabelle, eliminando le difformità riscontrate. Questo
è quanto sancito dalla Corte di Cassazione, sez. II Civile, ordinanza n.
10372/2021, depositata il 20 aprile.
Il caso. La Corte d’Appello
distrettuale confermava la sentenza di primo grado che, accogliendo la domanda di
una condomina, proseguita dalle sue eredi dopo la sua morte, aveva disposto,
nel contraddittorio di tutti i condomini del Condominio, la revisione delle
vigenti tabelle millesimali. La Corte d’Appello affermava che le tabelle
esistenti, redatte nel 1960, si discostassero in misura rilevante dai valori
proporzionali delle singole unità immobiliari, non considerando come parte
abitativa l’interno numero 1 e come autonoma porzione l’appartamento attico
numero 4.
Avverso tale sentenza altre due condomine proponevano ricorso per
cassazione. Le ricorrenti deducevano, sostanzialmente, la
nullità della sentenza impugnata per mancanza assoluta di motivazione e la
violazione e falsa applicazione degli artt. 69 n. 2 disp. att. c.c., 2702 e
2735 c.c., 115 c.p.c. nella parte in cui era stata accolta la domanda diretta
alla revisione in assenza dei presupposti legali. Secondo
gli Ermellini “Il diritto spettante anche al singolo condomino di chiedere la
revisione delle tabelle millesimali, in base all’art. 69 disp. att. c.c. (nella
formulazione, applicabile “ratione temporis”, anteriore alla L. n.
220 del 2012) è, invero, subordinato all’esistenza di un errore genetico o di
un’alterazione sopravvenuta del rapporto originario tra i valori delle singole
unità immobiliari imputabile alle mutate condizioni dell’edificio. In
particolare, per consolidata elaborazione giurisprudenziale (cfr. Cass. Sez. 2,
13/09/1991, n. 9579; Cass. Sez. U., 09/07/1997, n. 6222; Cass. Sez. 2,
22/11/2000, n. 15094; Cass. Sez. 2, 26/03/2010, n. 7300), le tabelle
millesimali, ex art. 69 disp. att. e trans c.c., n. 2, possono essere rivedute
e modificate (anche nell’interesse di un solo condomino) se è notevolmente
alterato il rapporto originario dei valori dei singoli piani o porzioni di
piano. Tale notevole alterazione del rapporto tra i valori proporzionali non è
necessariamente correlata ad una modificazione materiale dello stabile,
potendosi anche avere la creazione di un nuovo piano con mantenimento degli
originari valori proporzionali. Compete perciò al giudice del merito stabilire,
di volta in volta, se il mutamento delle condizioni dei luoghi o le opere
realizzate siano tali da implicare la revisione di detti valori e il suo
giudizio, sul punto, che si concreta in un accertamento di puro fatto,
sottratto al controllo di legittimità se, come nel caso esame, risulta sorretto
da adeguata motivazione.” Ove pertanto, come nel caso de quo, un condomino
avesse chiesto la revisione delle tabelle millesimali, deducendo la divergenza
tra i valori effettivi e quelli accertati in tabella, spettava al giudice di
verificare i valori di ciascuna delle unità immobiliari, tenendo conto di tutti
gli elementi oggettivi, quali la superficie, l’altezza di piano, la luminosità,
l’esposizione, incidenti sul valore effettivo di esse e, quindi, di adeguarvi
le tabelle, eliminando le difformità riscontrate (Cass. Sez. 2 10/05/2018, n.
11290; Cass. Sez. 2, 25/09/2013, n. 21950; Cass. Sez. 2, 14/12/2016, n. 25790).
Nel caso in esame i Giudici di
merito avevano, quindi, verificato, in base alle risultanze della CTU ed alla
dichiarazione resa in assemblea da un altro condomino, un sopravvenuto
mutamento delle condizioni di parti dell’edificio rispetto alle tabelle del
1960, apprezzamento insindacabile in sede di legittimità. Ne conseguiva che, ai
sensi dell’art. 69 disp. att. n. 1 c.c., l’errore che giustificava la revisione
delle tabelle millesimali non coincideva con l’errore vizio del consenso, ma
nell’obiettiva divergenza tra il valore effettivo delle singole unità
immobiliari ed il valore proporzionale ad esse attribuito nelle tabelle (Cass.
n. 6222/1997).
Per tali motivi la Corte di Cassazione rigettava il ricorso e
condannava in solido le ricorrenti a rimborsare le spese sostenute nel giudizio
di cassazione dalle controricorrenti.
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Nel rapporto di lavoro subordinato il tempo necessario a indossare
l’abbigliamento di servizio (‘tempo tuta’) costituisce tempo di lavoro soltanto
ove qualificato da eterodirezione, in difetto della quale l’attività di
vestizione rientra nella diligenza preparatoria inclusa nell’obbligazione principale
del lavoratore e non dà titolo ad autonomo corrispettivo. Questo è quanto
stabilito dalla Corte di Cassazione, sez. VI Civile – L, ordinanza n. 15763/2021,
depositata il 7 giugno.
Il caso. Alcuni dipendenti di una
società proponevano ricorso per cassazione avverso la sentenza della Corte d’Appello
territoriale che, in riforma della sentenza del Tribunale, aveva dichiarato
infondata la domanda con cui i lavoratori avevano chiesto il riconoscimento
della retribuzione per il tempo impiegato nell’indossare e nel dismettere gli
abiti di lavoro e gli altri dispositivi di protezione individuale (cd. tempo
tuta). La Corte d’Appello territoriale aveva accertato che la società non
imponeva ai lavoratori modalità di vestizione e svestizione, e che, pertanto,
avendo la datrice rinunciato a esercitare il proprio potere di eterodirezione
in relazione a tale attività, nessun obbligo retributivo derivante da
corrispettività gravava su di essa riguardo al cd. tempo tuta. Secondo gli
Ermellini, “nel rapporto di lavoro subordinato, il tempo necessario a indossare
l’abbigliamento di servizio (“tempo-tuta”) costituisce tempo di
lavoro soltanto ove qualificato da eterodirezione, in difetto della quale
l’attività di vestizione rientra nella diligenza preparatoria inclusa nell’obbligazione
principale del lavoratore e non dà titolo ad autonomo corrispettivo” (Cass. n.
9215 del 2016, Direttiva comunitaria n. 2003/88/CE, cfr. Cass. n. 1352 del 2016).
La Corte d’Appello aveva valorizzato l’esito della verifica svolta in fatto
circa l’assenza, nel caso de quo, dell’elemento costitutivo dell’obbligazione
rivendicata dai lavoratori nei confronti della società, consistente
nell’esercizio del potere di eterodirezione datoriale riguardo al tempo, al
modo e al luogo della vestizione/svestizione. Aveva, pertanto accertato che –
anche a prescindere dalla testimonianza resa in altro giudizio da uno dei
lavoratori, documento non disconosciuto e della cui erronea valutazione ai fini
della prova gli odierni ricorrenti si dolevano nei primi due motivi non era
stata raggiunta la prova dell’imposizione in capo ai lavoratori dell’obbligo di
indossare gli abiti da lavoro negli appositi spogliatoi aziendali, ben potendo
gli stessi recarsi al lavoro e far ritorno a casa indossandoli; né ai predetti
fini la Corte d’Appello aveva ritenuto rilevante che la società avesse offerto
servizi quali spogliatoio, doccia e lavanderia, in merito all’utilizzo dei
quali ai lavoratori era lasciata totale libertà di scelta. In sostanza, non era stata raggiunta la prova
dell’imposizione in capo ai lavoratori dell’obbligo di indossare gli abiti da
lavoro negli appositi spogliatoi aziendali, ben potendo essi recarsi al lavoro
e far ritorno a casa indossandoli, e in questa ottica era irrilevante che la
società avesse offerto servizi quali spogliatoio, doccia e lavanderia, in
merito all’utilizzo dei quali ai lavoratori era lasciata totale libertà di
scelta. Dunque fondamentale era stata la mancanza di prova sul fatto che “i
dipendenti dovessero indossare i dispositivi di protezione individuale prima di
iniziare l’attività lavorativa”. In conclusione all’esito
dell’accertamento circa la concreta gestione del cd. tempo tuta presso la
società, la Corte territoriale aveva escluso l’elemento dell’eterodirezione
quale potere direttivo e organizzativo equiparabile al tempo di lavoro in cui
si traduceva la messa a disposizione atta a generare il corrispettivo obbligo
di remunerazione.
Per tali motivi la Corte di Cassazione
rigettava il ricorso e condannava i ricorrenti al rimborso delle spese del
giudizio di legittimità in favore della controricorrente.
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La ratio dell’art. 890 c.c. è quella di evitare che fumi nocivi ed
intollerabili emessi dalle canne fumarie invadano le abitazioni e, trattandosi
di tetti che coprono il medesimo fabbricato ad altezza diversa, tale scopo può
essere raggiunto avendo come riferimento, per il calcolo delle distanze, il
c.d. “colmo del tetto”, cioè la parte più alta dell’intero fabbricato
e non già il tetto di copertura della porzione più bassa del medesimo
fabbricato. Questo è quanto sancito dalla Corte di Cassazione, sez. II
Civile, ordinanza n. 15441/2021, depositata il 3 giugno.
Il caso.Una condomina lamentando
la violazione delle distanze previste dall’art. 890 c.c., in combinato disposto
con il Regolamento Edilizio del Comune de quo, art. 32, chiedeva ex art. 1170
c.c., artt. 703 e 669 bis c.p.c., la rimozione della canna fumaria realizzata
nel dicembre 2003 da un altro condomino sul tetto dell’edificio di quest’ultimo
e adiacente alla finestra della ricorrente. Quest’ultimo, si
costituiva nel giudizio possessorio, rilevando come il manufatto era esistente
fin dal 1967 e che, nel dicembre del 2003, era stato interessato da un
intervento di manutenzione che non ne aveva alterato la precedente funzione;
chiedeva, altresì, l’accertamento dell’acquisto per usucapione del diritto a
mantenere la canna fumaria in quella posizione e a quella distanza. Il
Tribunale competente rigettava la domanda.
Avverso
tale sentenza la parte soccombente interponeva gravame. In particolare, secondo la Corte
d’Appello territoriale, ai fini della conformità della canna fumaria alle
prescrizioni del Regolamento, l’altezza della canna fumaria non era quella del
tetto sul quale la stessa insisteva, bensì quella del colmo della più alta
copertura del fabbricato comune. Inoltre, l’intervento edilizio realizzato non
poteva essere inteso come una semplice ristrutturazione. La Corte d’Appello accoglieva il gravame proposto dalla
parte appellante.
Avverso
tale sentenza la parte soccombente proponeva ricorso per cassazione. Con
il primo motivo di ricorso, si eccepiva che la Corte territoriale aveva errato nel ritenere che
l’intervento edilizio del 2003 costituiva una “nuova costruzione”
quando, di contro, tale mutamento doveva essere ricondotto alla categoria degli
interventi di ristrutturazione. Inoltre, il ricorrente contestava il
ragionamento della determinazione dell’altezza necessaria all’installazione di
una canna fumaria. Secondo gli Ermellini, i giudici di seconde cure avevano
fatto corretta applicazione dei principi di diritto in materia di
“costruzione”. Come noto,
difatti, “è ravvisabile una “nuova costruzione” quando l’opera di
modifica si traduce non soltanto nella realizzazione “ex novo” di un
fabbricato, ma anche in qualsiasi modificazione della volumetria dell’edificio
preesistente che ne comporti un aumento della volumetria (Cass. civ. sez. II,
n. 28612 del 15.12.2020; Cass. civ., sez. II, n. 10873 del 25.05.2016). Ai fini
dell’osservanza delle norme in materia di distanze legali stabilite dall’art.
873 c.c. e seguenti, e delle norme dei regolamenti locali integrativi della
disciplina codicistica, la nozione di “costruzione” è unica e non si
identifica con quella di edificio, ma si estende a qualsiasi manufatto non
completamente interrato avente i caratteri della solidità, stabilità e immobilizzazione
al suolo anche mediante appoggio, incorporazione o collegamento fisso a un
corpo di fabbrica contestualmente realizzato o preesistente e ciò
indipendentemente dal livello di posa ed elevazione dell’opera stessa
(Cassazione civile, sez. II, 17/10/2017, n. 24473).” Dall’orientamento
menzionato si ricavava che, conformemente a quanto statuito dalla Corte di
merito, era ravvisabile una “nuova costruzione” ogniqualvolta l’opera
originariamente esistente subisse variazioni in termini di superficie o volume.
Pertanto,
l’intervento edilizio effettuato nel 2003 non poteva essere inteso come una
semplice ristrutturazione di una canna fumaria preesistente ma come una nuova
costruzione perché non erano rimasti invariati volume e dimensioni del
manufatto. Con il secondo motivo di
ricorso, si censurava la violazione dell’art. 890 c.c., in combinato disposto
con il Regolamento Edilizio del Comune in questione, art. 32, nonché la
carenza, mancanza ed illogicità della motivazione, per avere la Corte d’Appello
erroneamente interpretato la previsione normativa dello strumento urbanistico
ritenendo che, ai fini della determinazione dell’altezza necessaria
all’installazione di una canna fumaria, dovesse aversi riguardo non già al
tetto sul quale la canna fumaria insisteva bensì alla parte più alta del
fabbricato comune. Inoltre, la Corte avrebbe, altresì, errato nel ritenere
impossibile un innalzamento della canna fumaria fino al raggiungimento
dell’altezza di legge, non essendo siffatta conclusione avvalorata da alcun
supporto giuridico o scientifico. Al riguardo, in giurisprudenza, era stato sostenuto
che in presenza di un regolamento anche locale che disciplina il profilo delle
distanze, vigeva una presunzione di pericolosità assoluta la quale preclude
qualsiasi accertamento concreto (Cass. n. 22389/2009,) mentre, in difetto di
una disposizione regolamentare, si aveva pur sempre una presunzione di pericolosità,
seppure relativa, che poteva essere superata ove la parte interessata al mantenimento
del manufatto dimostrasse che mediante opportuni accorgimenti poteva ovviarsi
al pericolo o al danno del fondo vicino. Detto ciò, poiché il fabbricato
oggetto di giudizio risultava coperto da due tetti strutturalmente autonomi,
secondo la Suprema Corte, i Giudici di merito avevano correttamente preso in
considerazione, per verificare la conformità della canna fumaria alle
prescrizioni del Regolamento, non il tetto sul quale la stessa insisteva ma il
colmo della più alta copertura del fabbricato comune. Nel caso di specie, a
seguito di CTU, la canna fumaria si trovava a mt 3,375 di distanza dalla
finestra dell’attrice mentre l’art.32 del Reg. Edilizio prevedeva una distanza
minima di dieci metri da ogni finestra posta a quota uguale o superiore;
inoltre detta canna fumaria superava l’altezza della finestra di soli 0,87
metri e non di un metro come prescritto dallo strumento urbanistico. Pertanto,
secondo la Suprema Corte, era corretta la decisione della Corte di merito di
disporre la demolizione, resa peraltro necessaria dalle esigenze di stabilità
della canna fumaria.
Per tali motivi la Corte di Cassazione dichiarava
inammissibile il ricorso e condannava la parte ricorrente al pagamento, in
favore della parte controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità.
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I poteri inerenti al diritto di proprietà, tra i quali rientra quello di
esigere il rispetto delle distanze, non si estinguono per il decorso del tempo,
salvi gli effetti dell’usucapione del diritto a mantenere la costruzione a
distanza inferiore a quella legale. L’azione per ottenere il rispetto delle
distanze legali è quindi imprescrittibile, trattandosi di azione reale
modellata sullo schema dell’actio negatoria servitutis, rivolta non ad
accertare il diritto di proprietà dell’attore, bensì a respingere l’imposizione
di limitazioni a carico della proprietà suscettibili di dar luogo a servitù.
Ciò è quanto stabilito dalla Corte di Cassazione, sez. II Civile,
ordinanza n. 15142/2021, depositata il 31 maggio.
Il caso. Un Condominio, proprietario dell’edificio confinante,
costruito in aderenza, adiva in giudizio per chiedere accertarsi la violazione
delle distanze in relazione a tre finestre situate al piano terra e quattro
finestre site al primo piano; lamentava, inoltre, che il cornicione sporgeva
per cm 50 ed il canale di gronda ed i pluviali sconfinavano nella proprietà del
Condominio sporgendo oltre il confine. Il Condominio esponeva, inoltre, che il
precedente proprietario del suddetto fabbricato aveva autorizzato l’attuale
proprietario a mantenere in quella posizione tali finestre, cornicione e gronda
fino alla vendita dell’immobile stesso, deducendo quindi che la concessione non
fosse più operante essendo avvenuta la suddetta vendita. Il Tribunale respingeva
la domanda del Condominio e accoglieva la domanda di usucapione.
Avverso tale sentenza il Condominio interponeva appello. La Corte d’Appello
distrettuale, invece, non condivideva tale pronuncia sottolineando l’avvenuta
prescrizione del diritto del Condominio a pretendere il rispetto delle distanze
legali.
Avverso tale sentenza il Condominio proponeva ricorso per cassazione. Con
il primo motivo di ricorso, si deduceva la violazione e falsa applicazione
degli artt. 948, 949 e 2946 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n.
3, per avere la corte di merito dichiarato prescritto il diritto del Condominio
di pretendere l’eliminazione delle opere realizzate in violazione delle
distanze legali pur trattandosi di azione imprescrittibile connessa
all’esercizio delle facoltà e dei poteri inerenti al diritto di proprietà,
salvo l’acquisto per usucapione. Secondo il ricorrente, il diritto a chiedere
il rispetto delle distanze legali non sarebbe derivato dall’atto di concessione
precaria del 1966, con il quale il ricorrente avrebbe consentito al resistente
di mantenere le vedute a distanza non legale dietro versamento di un
corrispettivo in quanto l’accordo avrebbe efficacia tra le parti, sarebbe stato
limitato nel tempo e soggetto a revoca in caso di trasferimento del bene da
parte del concessionario. Sarebbe stata, pertanto, errata la decisione della Corte
distrettuale, che aveva ritenuto prescritto il diritto di chiedere
l’eliminazione delle opere per non avere il Condominio esercitato il diritto di
credito come contropartita della convenzione conclusa tra i danti causa delle
parti, in quanto il diritto non sarebbe derivato dall’obbligazione
contrattuale. Il motivo di doglianza era fondato in quanto “I poteri inerenti
al diritto di proprietà, tra i quali rientra quello di esigere il rispetto
delle distanze, non si estinguono per il decorso del tempo, salvi gli effetti
dell’usucapione del diritto a mantenere la costruzione a distanza inferiore a
quella legale. Discende da tale principio che anche l’azione per ottenere il
rispetto delle distanze legali è imprescrittibile, trattandosi di azione reale
modellata sullo schema dell’”actio negatoria servitutis”, rivolta non
ad accertare il diritto di proprietà dell’attore, bensì a respingere
l’imposizione di limitazioni a carico della proprietà suscettibili di dar luogo
a servitù (Cass. Civ., Sez. II, 23.1.2012, n. 871, Cass. Civ., Sez. II,
7.9.2009, n. 19289; Cass. Civ., Sez. II, Cass. Civ., Sez. II, 26.1.2000, n. 867).” Nel caso de quo la Corte di
merito non aveva rispettato i suddetti principi, sostenendo che l’azione volta
al rispetto delle distanze legali fosse prescritta per decorrenza del termine
decennale previsto per l’esercizio del diritto di credito del Condominio.
Per tali motivi la Corte di Cassazione accoglieva il ricorso, cassava la sentenza impugnata e rinviava alla Corte d’Appello distrettuale in diversa composizione.
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nel suo caso. L’utente potrà, poi, richiedere chiarimenti sino a tre
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Secondo l’art. 51, D.L. n. 79/2011, le locazioni di breve durata stipulate
da alcuni condomini sono riconducibili a quelle per finalità turistiche per
brevi periodi non superiori a 30 giorni. Ne consegue che esse non si
distinguano dunque dalle ordinarie locazioni, connotandosi solo per la loro
durata transitoria. Ciò è quanto stabilito dalla Corte d’Appello di Milano, sez. III Civile, sentenza
n. 93/2021, depositata il 13 gennaio.
Il caso. Un Condominio proponeva appello
avverso la sentenza del Tribunale competente che aveva respinto la sua domanda
nei confronti di alcuni condomini, avente ad oggetto l’accertamento della
contrarietà al regolamento condominiale dell’utilizzo dell’unità immobiliare
degli stessi, sita al terzo piano dello stabile, ad alloggio temporaneo di
breve durata, nonché l’ordine ai convenuti di cessare immediatamente tale
utilizzo. Aveva censurato la suddetta sentenza per aver erroneamente ritenuto
che non fosse opponibile ai condomini (che avevano acquistato l’appartamento in
questione nel 1981) il regolamento condominiale (approvato all’unanimità nel
1961) ed in particolare le clausole che vietavano l’esercizio all’interno
dell’appartamento dell’attività di “pensione” o l’uso dello stesso
“a camere ammobiliate affittate a terzi”, sostenendo che dette
limitazioni costituissero servitù atipiche e come tali opponibili ai terzi
acquirenti solo ove trascritte o specificamente indicate nell’atto di acquisto
(mentre in realtà si sarebbe trattato di una obbligazione propter rem,
vincolante per effetto dell’acquisto dell’immobile e della contestuale
accettazione del regolamento condominiale). Poiché gli stessi appellati avrebbero
riconosciuto di affittare il loro appartamento per periodi brevissimi (limitati
a qualche giorno), aveva chiesto l’integrale riforma della sentenza appellata,
considerato altresì – come già sostenuto in primo grado – che dette locazioni
brevi avrebbero arrecato disturbo alla tranquillità degli altri condomini e
sarebbero stati contrari al decoro dell’edificio (in violazione di altra
disposizione regolamentare) e che non sarebbero state previamente comunicate
all’amministratore del Condominio (come pure previsto dal regolamento). Gli
appellati chiedevano la conferma della sentenza impugnata, affermando che
comunque la locazione breve posta in essere non costituisse violazione di
alcuna norma regolamentare, non essendo assimilabile all’affitto di camere ammobiliate
(trattandosi di affitto dell’intera unità immobiliare, per uso abitativo e
senza servizi accessori di carattere alberghiero). Secondo la Corte d’Appello,
il Tribunale aveva affermato che nel 1961, con l’approvazione all’unanimità del
regolamento del Condominio de quo ed in particolare del suo art. 4 (il quale
prevedeva il divieto di “uso dell’appartamento a camere ammobiliate
affittate a terzi”), i condomini avessero costituito una servitù atipica
di non facere a carico di ciascuna unità immobiliare ed a favore di tutte le
altre: come tale, essa sarebbe opponibile al terzo che fosse divenuto
proprietario di una di dette unità solo a condizione che la clausola
regolamentare fosse trascritta nei registri immobiliari ex artt. 2659 e 2665
c.c., oppure che l’acquirente avesse preso atto in modo specifico della stessa
contestualmente all’atto d’acquisto, non essendo invece sufficiente che l’atto
di provenienza contenesse un mero richiamo al contenuto del regolamento. Con
ciò, dunque, il Tribunale aveva aderito all’orientamento espresso dalla Suprema
Corte a partire dalla sentenza n. 21024/16 (confermato in seguito da Cass. n.
6769/18), in contrasto con il consolidato precedente orientamento secondo il
quale “la semplice limitazione al godimento degli immobili, senza la
determinazione di un peso di prestazioni positive, non raffigura né una
servitù, né un onere reale…il divieto di svolgere una determinata attività
negli appartamenti costituisce un rapporto obbligatorio reale di non facere;
precisamente, una obbligazione propter rem con contenuto negativo, di non
conferire all’immobile una certa destinazione” (Cass. n. 11684/00). A
queste conclusioni si era giunto rilevando soprattutto l’assenza, nelle
clausole di cui si discuteva, del connotato tipico della servitù, e cioè la
soggezione di un bene, in questo caso l’immobile, a vantaggio di un altro
immobile, che non si configurava nel caso di clausole regolamentari incidenti
sulla destinazione d’uso degli immobili, che, invece, costituivano una
previsione concepita nell’interesse e a vantaggio dei condomini che ne
beneficiavano: quanto all’ammissibilità di una convenzione che ponesse
limitazioni ai diritti dei condomini, poi, questa era stata ritenuta sulla base
del principio di autonomia negoziale. Tutto ciò con la conseguenza della
idoneità della mera indicazione del regolamento condominiale nell’atto di
acquisto ai fini dell’opponibilità ai terzi acquirenti (Cass. n. 19212/16).
Detta qualificazione, peraltro, si presentava irrilevante nel caso in esame, posto
che il comportamento attribuito agli appellati non si poteva ritenere
violazione delle prescrizioni del regolamento di condominio in questione.
Inoltre, i giudici di seconde cure ritenevano che “Le locazioni stipulate dagli
appellati sono riconducibili a quelle per finalità turistiche per brevi periodo
non superiori a 30 gg ai sensi dell’art.53 del D.lgs. n.79/2011, che la Regione
Lombardia ha espressamente escluso dall’ambito delle attività ricettive (quali
proprio quelle di Bed and Breakfast ed affittacamere): esse non si distinguono
dunque dalle ordinarie locazioni (cui certamente il Condominio non può neppure
opporre un proprio gradimento, il che porta a ritenere l’onere di informazione
preventivo all’Amministratore come finalizzato al più alla facilitazione dei
contatti con i conduttori, ogni diversa interpretazione configurando la nullità
della clausola), connotandosi solo per la loro durata transitoria. In sé, del
resto, dette locazioni non sono necessariamente più moleste per gli altri
condomini rispetto a quanto potrebbe esserlo una di ordinaria durata
quadriennale, osservandosi ad esempio che il turista è di norma un adulto,
senza animali al seguito e che per la maggior parte della giornata non occupa
l’alloggio, mentre eventuali comportamenti irrispettosi possono essere propri
anche di uno stabile conduttore (che il locatore potrebbe solo richiamare
all’osservanza del regolamento)”.
Per tali motivi la Corte d’Appello distrettuale rigettava il ricorso e
condannava il Condominio al pagamento delle spese processuali.
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In tema di autovelox non risulta da alcuna normativa che la segnaletica di avvertimento del controllo debba essere anche luminescente ma incombe sulla P.A. fornire le prove relative alla “omologazione” e alla “taratura” dell’autovelox per legittimare il verbale redatto dalla Polizia municipale. Ciò è quanto stabilito dalla Corte di Cassazione, sez. II Civile, ordinanza n. 13630/2021, depositata il 19 maggio.
Il caso. Un automobilista proponeva, innanzi al
Giudice di Pace competente, opposizione avverso il verbale di accertamento di violazione
dell’art. 142, comma 8, C.d.S. elevato dal Comando della Polizia Municipale
del Comune competente. Il Giudice di prime cure accoglieva l’opposizione e annullava l’impugnato
verbale sul presupposto che “dalle emergenze processuali risultava che in
loco non era stato apposto alcun dispositivo luminoso di segnalazione e/o
comunque alcun cartello indicante la tipologia di controllo effettuato”.
Avverso tale sentenza il Comune interponeva appello. Il Tribunale, in
funzione di Giudice di appello, ritenendo privo di senso il riferimento alla
presunta necessità di una segnalazione luminosa dell’autovelox, accoglieva il gravame
e rigettava l’opposizione.
Avverso tale sentenza l’automobilista proponeva
ricorso per cassazione. Con il primo e il secondo motivo il ricorrente deduceva
sostanzialmente il vizio di violazione delle norme del C.d.S. in tema di
segnalazione delle postazioni di rilevamento della velocità. La doglianza della
parte ricorrente si risolveva nel pretendere – al fine della legittimità della sanzione
contestata – l’adempimento di un “obbligo di informazione della presenza
di postazioni di controllo” per il quale non sarebbe stata sufficiente la
sola relativa segnaletica (pacificamente esistente), ma una ulteriore e
necessaria segnaletica di tipo luminoso. Secondo gli Ermellini tale lamentela
era del tutto infondata “non risultando da alcuna normativa che la segnaletica
di avvertimento del controllo debba essere anche luminescente.” Con il terzo
motivo, parte ricorrente lamentava una errata applicazione, da parte della
sentenza impugnata, dei principi relativi all’onere probatorio. In particolare
(e per il profilo meritevole di accoglimento) veniva svolta censura in ordine
alla mancata prova – da parte della P.A. procedente – della prova e
attestazione della omologazione dell’apparato autovelox a mezzo del quale
veniva accertata la contestata violazione al C.d.S.. Il Tribunale aveva, sul
punto, ritenuto che era “onere dell’opponente dimostrare il fatto
impeditivo della pretesa sanzionatoria” e che “alcuna prova sulla
circostanza che l’autovelox potesse non essere omologato era stata data”
dall’odierna parte ricorrente. Tanto comportava un’errata applicazione del
principio dell’onere della prova con violazione della norma di cui all’art.
2697 c.c.. Infatti, come già affermato dalla Corte di Cassazione 26 maggio
1999, n. 5095, incombeva all’Amministrazione “l’onere (nel caso de quo non
risultante svolto) di dimostrare compiutamente l’esistenza dei fatti
costitutivi dell’illecito”. Al riguardo doveva raffermarsi il principio
secondo cui l’allegazione della omologazione e taratura del sistema di verifica
ed accertamento della velocità costituiva indefettibile onere a carico della
P.A.. Nel caso in esame, in violazione
anche di detto principio, si era verificata, prima ancora
dell’apprezzamento della prova, un’errata applicazione del principio dell’onere
della prova attribuito ad una parte diversa da quella che ne era gravata”
(Cass. 16 maggio 2007, n. 11216).
Per tali motivi la Corte di Cassazione rigettava il
primo ed il secondo motivo del ricorso, accoglieva il terzo, assorbiti i
rimanenti motivi, cassava – in relazione al motivo accolto – l’impugnata
sentenza e rinviava, anche per le spese, al Tribunale competente in persona di
diverso Giudice.
Avvocato Anna Maria Cupolillo Staff Giuridico Avvocato Express
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In caso di spese condominiali di carattere
straordinario il Condominio è legittimato ad agire sia verso il Condomino che
era proprietario al momento della delibera assembleare che aveva deciso
l’esecuzione dei lavori, sia verso il soggetto che ha acquistato l’immobile dal
primo, ed è quindi responsabile per le somme dovute per l’anno in corso e per
l’anno precedente. Nei rapporti interni tra i due debitori, invece, salvo patto
contrario, a sostenere le spese sarà il soggetto proprietario al momento della
delibera assembleare. Questo è quanto stabilito dalla Corte di Cassazione, sez.
II Civile, sentenza n. 11199/2021, depositata il 28 aprile.
Il caso.Un Condominio depositava
ricorso per decreto ingiuntivo nei confronti dell’ex condomina e dell’attuale
proprietaria dell’appartamento al fine di ottenere il pagamento della somma di
Euro 8.436,25 dovuta per spese relative a lavori straordinari di
ristrutturazione eseguiti nell’edificio. Secondo il Condominio le due intimate
erano responsabili in solido per l’obbligazione relativa al pagamento delle
spese condominiali per i lavori straordinari. Entrambe proponevano opposizione
al decreto ingiuntivo con due azioni in seguito riunite nel medesimo
procedimento. In particolare l’ex condomina sosteneva che le spese non fossero
imputabili a lei in quanto i lavori erano stati eseguiti a seguito della
vendita del suo appartamento. L’attuale condomina, al contrario, sosteneva che
la sua dante causa fosse debitrice, in quanto i lavori erano stati deliberati
quando ella aveva la qualità di condomina. L’adito Tribunale dava ragione all’ex
condomina e, con il rigetto dell’opposizione dell’attuale condomina, decretava
la sua responsabilità per il pagamento delle spese.
Avverso tale sentenza l’attuale proprietaria
interponeva appello. La Corte d’appello distrettuale accoglieva il gravame
proposto e riteneva che, base a quanto stabilito dall’art. 63 disp. att. c.c.,
correttamente il Tribunale aveva intimato ad entrambe le ingiunte di pagare i
contributi pretesi dal Condominio, e perciò rigettato la domanda di revoca del
decreto ingiuntivo avanzata dall’appellante. Invece, quanto ai rapporti
interni, la Corte d’Appello richiamava il principio secondo cui obbligato a
contribuire alle spese di manutenzione delle parti comuni dell’edificio era
colui il quale risultava proprietario dell’unità immobiliare al momento
dell’adozione della delibera di approvazione dei lavori. La ragione,
chiaramente, era da ricercarsi nel fatto che i lavori erano stati decisi quando
il venditore poteva partecipare all’assemblea e votare, mentre il compratore
era ancora estraneo al Condominio e non aveva voce in capitolo. Applicando tale
criterio in ordine all’azione di rivalsa, i giudici di seconde cure concludevano
che l’ex proprietaria era tenuta a rifondere all’attuale proprietaria quanto la
stessa dovesse pagare al Condominio in forza del decreto ingiuntivo opposto.
Avverso tale sentenza l’ex condomina proponeva ricorso
per cassazione. Secondo la ricorrente la Corte d’Appello non aveva
correttamente valutato le risultanze istruttorie dei gradi di merito, infatti,
l’obbligo di pagare le spese sarebbe stato trasferito alla parte acquirente per
espresso accordo delle parti. Tale accordo avrebbe derogato alla disciplina
legale invece applicata dalla Corte d’Appello. Secondo gli Ermellini, i Giudici
d’Appello non avevano correttamente valutato delle testimonianze che avrebbero
provato l’esistenza di accordi in ragione dei quali la parte acquirente si era
impegnata a sostenere le spese relative ai lavori straordinari dietro ad uno
sconto nel prezzo dell’immobile. Tale patto avrebbe avuto il potenziale effetto
di derogare alla disciplina legale, introducendo quella pattizia. L’effetto,
tuttavia, non sarebbe stato verso il Condominio, ma solo volto a modificare i
rapporti debitori interni tra i due soggetti legittimati passivi. Ecco perché
la Suprema Corte sollevava l’attenzione sull’importante locuzione “salvo
diversi accordi”. Nel caso di debiti relativi alle spese straordinarie il
Condominio poteva validamente rivolgersi sia all’ex condomino, che a quello
attuale. Infatti, alla stregua dell’art. 63 disp. att. c.c., comma 2 (nella
formulazione antecedente alla modificazione operata dalla L. 11 dicembre 2012,
n. 220), “chi subentra nei diritti di un condomino è obbligato, solidalmente
con questo, al pagamento dei contributi relativi all’anno in corso e a quello
precedente. Come già ricordato, occorre a tal fine distinguere tra spese
necessarie alla manutenzione ordinaria, alla conservazione, al godimento delle
parti comuni dell’edificio o alla prestazione di servizi nell’interesse comune,
ovvero ad impedire o riparare un deterioramento, e spese attinenti a lavori che
consistano in un’innovazione o che comunque comportino, per la loro
particolarità e consistenza, un onere rilevante, superiore a quello inerente
alla manutenzione ordinaria dell’edificio e cagionate da un evento non
evitabile con quest’ultima. Nella prima ipotesi, l’obbligazione si ritiene
sorta non appena si compia l’intervento ritenuto necessario
dall’amministratore, e quindi in coincidenza con il compimento effettivo
dell’attività gestionale. Nel caso, invece, delle opere di manutenzione
straordinaria e delle innovazioni, la deliberazione dell’assemblea, chiamata a
determinare quantità, qualità e costi dell’intervento, assume valore
costitutivo della relativa obbligazione in capo a ciascun condomino. Da ciò si
fa derivare che, verificandosi l’alienazione di una porzione esclusiva posta
nel condominio in seguito all’adozione di una Delib. assembleare, antecedente
alla stipula dell’atto traslativo, volta all’esecuzione di lavori consistenti
in innovazioni, straordinaria manutenzione o ristrutturazione, ove non sia
diversamente convenuto nei rapporti interni tra venditore e compratore, i
relativi costi devono essere sopportati dal primo, anche se poi i lavori siano
stati, in tutto o in parte, effettuati in epoca successiva, con conseguente
diritto dell’acquirente a rivalersi nei confronti del proprio dante causa, per
quanto pagato al condominio in forza del principio di solidarietà passiva ex
art. 63 disp. att. c.c..” Dunque, di nessun rilievo era la data di esecuzione
effettiva dei lavori, in quanto a valere, quanto meno nei rapporti con il
Condominio, era la data della deliberazione dei lavori e la data di acquisto
dell’immobile in Condominio. Dunque, tale momento di insorgenza dell’obbligo di
contribuzione condominiale rileva anche per imputare l’obbligo di
partecipazione alla spesa nei rapporti interni tra venditore e compratore, ma
sempre che gli stessi, come nel caso di specie, non si fossero diversamente
accordati, rimanendo, peraltro, inopponibili al Condominio i patti eventualmente
intercorsi tra costoro. La Corte di Cassazione considerava pure che il dedotto accollo del debito
condominiale da parte della compratrice, in quanto semplice modalità di
adempimento dell’obbligo di pagamento del prezzo della compravendita immobiliare
comunque determinato in contratto, non potrebbe dirsi sottoposto ai limiti di
prova di cui all’art. 2725 c.c., comma 2 e art. 1350 c.c., n. 1. Il Condominio,
pertanto, era legittimato a richiedere la quota spettante sia all’ex condomina,
che alla nuova. Quanto ai rapporti interni tra i debitori, invece, la
Cassazione specificava che – salvo diversi accordi – il responsabile doveva
intendersi il soggetto che rivestiva la qualità di condomino al momento della
deliberazione, e non dell’esecuzione, dei lavori. In caso di pagamento, totale
o parziale, da parte del nuovo condomino, quindi, questi sarebbe stato
autorizzato a richiedere il risarcimento al legittimo debitore, ossia il suo
dante causa.
Per tali motivi la Corte di Cassazione cassava la
sentenza impugnata e rinviava ad altra sezione della Corte d’Appello per una
nuova valutazione nel merito.
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Il proprietario di vani terranei di un edificio in un Condominio non può
eseguire modificazioni della pavimentazione e dell’accesso al proprio locale
per consentire l’attraversamento con autovetture, ove da tale utilizzazione
della cosa comune risulti alterata la destinazione e sia impedito agli altri
condomini di farne parimenti uso secondo il loro diritto. Questo è quanto
stabilito dalla Corte di Cassazione,
sez. VI Civile – 2, ordinanza n. 11870/2021,
depositata il 6 maggio.
Il caso. Un Condominio esprimeva parere contrario alla richiesta di una società di
eseguire, a sue spese, i lavori necessari ad adeguare la quota del marciapiede
condominiale al livello stradale e all’eliminazione dei vasi posti a ornamento
e delimitazione del marciapiede stesso. La suddetta società,
proprietaria di un appartamento a uso ufficio e di un terrazzo di uso
esclusivo, posto a piano terra del Condominio e destinato a parcheggio, otteneva
dal Comune l’autorizzazione ad aprire un passo carrabile, necessario per il
transito dei veicoli, previa esecuzione delle suddette opere di adeguamento. Il
Condominio, nel motivare il suo diniego, sosteneva che i
lavori costituivano innovazioni vietate ai sensi dell’art. 1102 c.c.. La
società impugnava la delibera citando in giudizio il Condominio dinnanzi al
Tribunale e lamentando: 1. l’erronea applicazione dell’art. 1120 c.c. e la
violazione degli artt. 1102 e 1122 c.c., relativamente al diniego all’apertura
del passo carrabile, che non costituiva un’innovazione ma una
“modificazione finalizzata alla migliore utilizzazione della cosa
comune”; 2. l’inopponibilità del regolamento condominiale alla società; 3.
l’illegittimità della delibera, per aver invitato la condomina a
“ripristinare la destinazione d’uso precedente”; 4. l’assenza di
legittimazione del Condominio rispetto all’area utilizzata come marciapiede e
adiacente al terrazzo della Società. Il Tribunale respingeva la domanda da parte della società
ritenendo che i lavori da eseguire costituissero un’innovazione rispetto alla
destinazione della cosa comune e al diritto al pari di ciascun condomino e che
il regolamento condominiale fosse opponibile all’attrice in quanto trascritto.
Avverso tale sentenza la società interponeva appello. La Corte d’Appello
distrettuale confermava la sentenza del Tribunale.
Avverso tale sentenza la società proponeva ricorso per cassazione sostenendo
che la Corte d’Appello avesse erroneamente ritenuto che i lavori autorizzati
dall’Amministrazione comunale fossero illegittimi ex art. 1102 c.c., in
quanto suscettibili di mutare “l’attuale destinazione dei luoghi comuni a
marciapiede che, per sua natura, ha come funzione tipica quella di consentire
il sicuro transito pedonale dei condomini”.
In realtà, ad avviso della ricorrente, era stato dimostrato che le opere da
eseguire non avrebbero determinato né una modificazione materiale, né
un’alterazione dell’essenza o della originaria funzione della cosa comune, né
un mutamento della sua destinazione, rimanendo l’area calpestabile per i
pedoni. Pertanto, l’utilizzo della cosa comune non avrebbe subito alcuna
compromissione qualitativa o quantitativa in danno degli altri condomini. Per la Suprema Corte, però, il
ricorso era inammissibile in quanto il motivo di ricorso allegava la violazione
o falsa dell’art. 1102 c.c., ma il suo contenuto si limitava a criticare
l’apprezzamento di fatto delle risultanze probatorie che aveva portato il
Giudice di merito alla pronuncia impugnata, la cui censura sarebbe possibile
solo tramite il vizio dell’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c.. Ne risultava che la
Corte d’Appello aveva evidenziato che sarebbe risultata mutata, seppure per un
tratto limitato, l’attuale destinazione dei luoghi comuni a marciapiede. Secondo
l’art. 1102 c.c., la nozione di pari uso della cosa comune, seppure non andava
intesa nel senso di uso identico e contemporaneo, implicava, tuttavia, la
condizione che questa fosse compatibile con i diritti degli altri. Secondo un
precedente orientamento della giurisprudenza, “Il proprietario di vani terranei di un edificio in condominio non può,
perciò, eseguire modificazioni della pavimentazione e dell’arredo del
marciapiede condominiale in corrispondenza dell’accesso al proprio locale per
consentirne l’attraversamento con autovetture, ove da tale utilizzazione della
cosa comune risulti alterata la destinazione e sia impedito agli altri
condomini di farne parimenti uso secondo il loro diritto (Cass. Sez. 2,
18/02/1998, n. 1708; Cass. 14/12/1994, n. 10704; Cass. Sez. 2, 17/07/1962, n.
1899). L’accertamento del superamento dei limiti imposti dall’art. 1102 c.c.,
al condomino, che si assuma abbia alterato, nell’uso della cosa comune, la destinazione
della stessa, ricollegandosi all’entità e alla qualità dell’incidenza del nuovo
uso, è comunque riservato al giudice di merito e, come tale, non è censurabile
in sede di legittimità per violazione di norme di diritto.”
Per tali morivi la Corte di Cassazione dichiarava inammissibile il ricorso e condannava la ricorrente a rimborsare al controricorrente le spese sostenute nel giudizio di cassazione.
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