In caso di lite fra due dipendenti di un supermercato, percepita dagli altri
lavoratori e dai clienti, il licenziamento è eccessivo, anche perché il
lavoratore ha reagito all’aggressione perpetrata ai suoi danni dal collega. Il
rapporto di lavoro è comunque concluso, ma l’oramai ex dipendente ha diritto ad
un adeguato risarcimento. Questo è quanto stabilito dalla Corte di Cassazione, sez. VI. Civile – L, ordinanza
n. 10621/2021, depositata il 22 aprile.
Il caso. Due lavoratori di un supermercato litigavano
all’interno del “reparto macelleria”: il primo schiaffeggiava il secondo, ma
quest’ultimo reagiva colpendolo con violenza e finiva per essere licenziato. Il
Tribunale, pronunciando sull’opposizione, ai sensi della L. n. 92 del 2012,
art. 1, commi 51 e ss., proposta dal lavoratore avverso l’ordinanza che aveva
respinto l’impugnativa del licenziamento intimato per giusta causa dal datore
di lavoro, rigettava il ricorso.
Avverso tale sentenza il lavoratore interponeva
appello. La Corte d’Appello accoglieva il reclamo del lavoratore e dichiarava
illegittimo il licenziamento; applicava la tutela di cui alla L. n. 300 del
1970, art. 18, comma 5, e, per l’effetto, dichiarando risolto il rapporto di
lavoro con decorrenza dalla data del licenziamento, riconosceva al lavoratore
un’indennità risarcitoria pari a 18 mensilità dell’ultima retribuzione di
fatto. A fondamento del decisum, la Corte d’Appello poneva le seguenti
argomentazioni: a) risultava provato il fatto posto a base del licenziamento:
il lavoratore, a seguito di una discussione con un collega nel reparto
macelleria, era passato alle vie di fatto; l’accadimento era visibile e/o
udibile da parte degli altri colleghi e dei clienti del reparto medesimo; b)
tale condotta era astrattamente riconducibile all’ipotesi sanzionata dal CCNL
di settore, con il licenziamento senza preavviso; c) tuttavia, in concreto, il
recesso datoriale non era proporzionato: il lavoratore aveva colpito il collega
dopo essere stato schiaffeggiato; dopo la prima discussione, avvenuta nel
reparto e rimasta nei limiti di un confronto verbale, il lavoratore aveva
continuato a lavorare senza dare seguito al diverbio. Era stato il collega a
seguire il resistente nella cella frigorifera con l’intenzione di continuare il
litigio e di aggredirlo; il lavoratore non aveva precedenti disciplinari.
Avverso tale sentenza il datore di lavoro proponeva
ricorso per cassazione. Per il Supremo Collegio era inutile il
richiamo a una presunta proporzionalità del licenziamento, come da contratto, a
fronte della condotta tenuta dal lavoratore nella struttura commerciale.
Difatti, era corretta, e non poteva essere messa in discussione, la valutazione
dell’episodio compiuta dai Giudici di secondo grado. I dettagli della vicenda,
come acclarati tra primo e secondo grado, erano sufficienti, in sostanza, per
ritenere evidente “l’illegittimità della sanzione espulsiva” decisa
dall’azienda. Ciò comportava che il lavoratore doveva dire addio al proprio
posto di lavoro, ma poteva comunque aveva diritto ad un adeguato risarcimento.
Per tali motivi
la Corte di Cassazione rigettava
il ricorso.
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È
manifestamente infondato, in diritto, l’assunto secondo il quale la eventuale
circostanza che la scala non fosse dotata di alcuni dei requisiti di sicurezza
imposti dalla vigente normativa possa essere da sola sufficiente per affermare
che essa sia stata la causa della caduta della ricorrente e che, di
conseguenza, non avrebbe alcun rilievo la effettiva dinamica dell’incidente,
dal momento che il criterio di imputazione della responsabilità di cui all’art.
2051 c.c. richiede sempre la dimostrazione (quanto meno in via presuntiva), da
parte dell’attore danneggiato, che la cosa in custodia sia stata la causa
dell’evento lesivo, sulla base della effettiva dinamica dell’incidente. Questo è quanto stabilito dalla
Corte di Cassazione, sez. VI Civile, ordinanza n. 9872/2021, depositata il 15
aprile.
Il caso. Una donna agiva in giudizio nei
confronti del Comune per ottenere il risarcimento dei danni subiti cadendo su
una scala del palazzo comunale. La domanda era accolta dal Tribunale competente.
Avverso tale sentenza il Comune interponeva appello. La Corte di Appello distrettuale, in riforma della
decisione di primo grado, la rigettava. Per i Giudici di secondo grado, “la scala presentava
gradini usurati, privi di nastri antisdrucciolo” e “il corrimano di appoggio
era presente solo su un lato”. Ciò nonostante, però, “la scala non era
connotata da una situazione di oggettivo pericolo in ragione delle sue
caratteristiche, tale da rendere il danno molto probabile, se non inevitabile”.
Tutto ciò faceva escludere la responsabilità del Comune e negare il
risarcimento alla donna.
Avverso tale sentenza la donna proponeva ricorso per Cassazione. La ricorrente sosteneva che la Corte d’Appello, nel
valutare la pericolosità della scalinata dov’era avvenuto l’incidente, non
avrebbe tenuto in adeguata considerazione che la stessa aveva gradini usurati,
privi di nastri antisdrucciolo e mancanti da un lato del corrimano di appoggio.
Secondo la Suprema Corte, come era noto “l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5,
riformulato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54 convertito in L. 7 agosto
2012, n. 134, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per
cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o
secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti
processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia
carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito
diverso della controversia); ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle
previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e art. 369 c.p.c., comma 2, n.
4, il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia
stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso
risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia
stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”,
fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per
sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico,
rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice,
ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie.”
Era comunque opportuno sottolineare che era manifestamente infondato, in
diritto, “l’assunto secondo il quale la eventuale circostanza che la scala non
fosse dotata di alcuni dei requisiti di sicurezza imposti dalla vigente
normativa possa essere da sola sufficiente per affermare che essa sia stata la
causa della caduta della ricorrente e che, di conseguenza, non avrebbe alcun
rilievo la effettiva dinamica dell’incidente, dal momento che il criterio di
imputazione della responsabilità di cui all’art. 2051 c.c. richiede sempre la
dimostrazione (quanto meno in via presuntiva), da parte dell’attore
danneggiato, che la cosa in custodia sia stata la causa dell’evento lesivo,
sulla base della effettiva dinamica dell’incidente.” Nella specie la Corte d’Appello,
sulla base di una incensurabile valutazione delle prove, aveva ritenuto non
dimostrato il nesso eziologico tra la cosa e l’evento lesivo. A tal fine, dopo
avere dato atto che non era stata in alcun modo documentata dall’attrice la
effettiva dinamica dell’incidente aveva, del tutto correttamente, effettuato
anche una valutazione relativa alla pericolosità della cosa (con riguardo alle
sue effettive condizioni e, quindi, anche ai requisiti di sicurezza) al fine di
stabilire se ciò potesse fornire, almeno in via presuntiva, la prova del
suddetto nesso causale. La decisione impugnata risultava, dunque, conforme in
diritto ai principi in tema di responsabilità da cose in custodia costantemente
affermati dalla Corte di legittimità e recentemente ribaditi e precisati,
secondo i quali: “a) il criterio di imputazione della responsabilità fondato
sul rapporto di custodia di cui all’art. 2051 c.c. opera in termini
rigorosamente oggettivi; b) il danneggiato ha il solo onere di provare il nesso
di causa tra la cosa in custodia (a prescindere dalla sua pericolosità o dalle
sue caratteristiche intrinseche) ed il danno, mentre al custode spetta l’onere
della prova liberatoria del caso fortuito, inteso come fattore che, in base ai
principi della regolarità o adeguatezza causale, esclude il nesso eziologico
tra cosa e danno, ed è comprensivo del fatto del terzo e della condotta incauta
della vittima; c) la deduzione di omissioni, violazione di obblighi di legge,
di regole tecniche o di criteri di comune prudenza da parte del custode rileva
ai fini della sola fattispecie dell’art. 2043 c.c., salvo che la deduzione non
sia diretta soltanto a dimostrare lo stato della cosa e la sua capacità di
recare danno, e a sostenere allegazione e prova del rapporto causale tra quella
e l’evento dannoso.”
Per tali
motivi la Corte di Cassazione rigettava il ricorso.
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Allorché il sottotetto assolva all’esclusiva funzione
di isolare e proteggere dal caldo, dal freddo e dall’umidità l’appartamento
dell’ultimo piano, e non abbia dimensioni e caratteristiche tali da consentire
l’utilizzazione come vano autonomo, va considerato pertinenza di tale
appartamento. Ciò è quanto stabilito dalla Corte di Cassazione, sez. VI Civile
– 2, ordinanza n. 9060/2021, depositata il 31 marzo.
Il caso. Il Tribunale rigettava la domanda proposta da due coniugi di accertamento della natura pertinenziale del vano
sottotetto di un edificio, rispetto all’appartamento sottostante, acquistato
dagli stessi in sede di procedura esecutiva promossa nei confronti promossa nei confronti di un
condomino, e della conseguente richiesta
di liberare il vano dai suoi oggetti.
Avverso tale sentenza la parte soccombente interponeva
appello. La Corte d’Appello riteneva invece sussistente il vincolo di
pertinenzialità evidenziando che il sottotetto aveva esclusiva funzione di copertura del fabbricato.
Avverso tale sentenza l’ex condomino proponeva
ricorso per cassazione deducendo la violazione
o la falsa applicazione dell’art. 817 c.p.c., e contestando la qualificazione
del vano sottotetto come pertinenza dell’appartamento sottostante. Secondo il
ricorrente, il vano costituiva un ampliamento del fabbricato, quindi un nuovo
locale, e non vi era prova che gli fosse stata impressa la destinazione
pertinenziale, ponendolo al servizio dell’appartamento. La Corte d’appello, in
esito all’esame documentale, aveva evidenziato che il vano sottotetto era la
risultante della nuova copertura “a falde inclinate” del fabbricato,
che aveva sostituito la precedente copertura “piana”; e che, come già
accertato dal giudice di primo grado, le caratteristiche intrinseche del vano
così realizzato non consentivano di qualificarlo come autonoma entità
abitativa. Sulla base di tale accertamento, la Corte d’appello aveva concluso
nel senso che il vano fosse destinato esclusivamente a fungere da copertura e
coibentazione dell’appartamento sottostante, e che pertanto ne costituiva
pertinenza. L’affermazione era conforme al principio consolidato nella
giurisprudenza della Suprema Corte secondo cui “allorché il sottotetto assolva
all’esclusiva funzione di isolare e proteggere dal caldo, dal freddo e dall’umidità
l’appartamento dell’ultimo piano, e non abbia dimensioni e caratteristiche tali
da consentirne l’utilizzazione come vano autonomo, va considerato pertinenza di
tale appartamento (Cass. 21/05/2020, n. 9383; Cass. 30/03/2016, n. 6143; Cass.
12/08/2011, n. 1724).”
Per questi motivi la Corte di Cassazione rigettava il
ricorso e condannava il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
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L’obbligo del singolo di pagare al Condominio le spese dovute e le vicende
debitorie del Condominio verso i suoi appaltatori rimangono del tutto
indipendenti. Appare dunque evidente la diversità dell’azione diretta alla
riscossione dei contributi condominiali nei confronti dei partecipanti,
rientrante nella legittimazione dell’amministratore, rispetto all’azione per il
pagamento del corrispettivo contrattuale esercitata dal terzo creditore verso
il singolo condomino sul presupposto della riferibilità diretta dei debiti
condominiali ai singoli membri del gruppo. Questo è quanto stabilito dalla
Corte di Cassazione, sez. II Civile, ordinanza n. 7876/2021, depositata il 19
marzo.
Il caso. La Corte d’Appello territoriale rigettava il gravame
presentato da un condomino contro la
sentenza del Tribunale competente che aveva respinto l’opposizione al decreto
ingiuntivo intimato allo stesso su istanza del Condominio, per l’importo di
Euro 11.743,56, a titolo di contributo pro quota correlato al secondo ed al
terzo stato di avanzamento dei lavori condominiali. Secondo i giudici di seconde cure,
nel caso de quo, mancava l’eccepita ravvisabilità della litispendenza e
continenza fra la causa di invalidità del provvedimento monitorio e quella di
nullità del contratto di appalto; altresì, escludevano il difetto di
legittimazione attiva dell’amministratore, trattandosi di azione per la
riscossione di spese dovute da un condomino moroso per poter estinguere il
corrispettivo dovuto all’appaltatrice.
Avverso tale sentenza la parte soccombente proponeva ricorso in cassazione
eccependo la mancata riunione del presente giudizio a quello intrapreso da lui
davanti allo stesso Tribunale avente ad oggetto la nullità del contratto di
appalto stipulato dal Condominio con la ditta appaltatrice e la riconvenzionale
proposta dall’appaltatrice per ottenere la condanna del condomino al pagamento
pro quota del corrispettivo dei lavori. Secondo il ricorrente, entrambi i
giudizi avevano ad oggetto il “prezzo dell’appalto richiesto nello stesso
tempo dal terzo e dal Condominio”, e come l’altro processo, in
particolare, riguardasse altresì la nullità dei titoli contrattuali posti a
base della pretesa monitoria del Condominio. Inoltre, il ricorrente eccepiva
che l’amministratore aveva azionato il diritto contrattuale rientrante nella
titolarità sostanziale di terzi. A tale riguardo la Suprema Corte precisava che
“L’obbligo di pagamento degli oneri
condominiali da parte del singolo partecipante ha, per contro, causa immediata
nella disciplina del condominio, e cioè nelle norme di cui agli artt. 1118 e
1123 c.c. e segg., che fondano il regime di contribuzione alle spese per le
cose comuni.” I giudici di legittimità avevano già affermato che “l’obbligo del
singolo partecipante di pagare al condominio le spese dovute e le vicende
debitorie del condominio verso i suoi appaltatori o fornitori rimangono del
tutto indipendenti, tant’è che il condomino non può ritardare il pagamento
delle rate di spesa in attesa dell’evolvere delle relazioni contrattuali tra
condominio e soggetti creditori di quest’ultimo, né può utilmente opporre
all’amministratore che il pagamento sia stato da lui effettuato direttamente al
terzo, in quanto, si è detto, ciò altererebbe la gestione complessiva del
condominio: sicché il singolo deve sempre e comunque pagare all’amministratore,
salva l’insorgenza, in sede di bilancio consuntivo, di un credito da rimborso
per gli avanzi di cassa residuati (Cass. Sez. 2, 29/01/2013, n. 2049).”
Altresì, affermavano che, ponendosi il Condominio, nei confronti dei terzi,
come “soggetto di gestione” dei diritti e degli obblighi dei singoli
condomini attinenti alle parti comuni, l’amministratore di esso assumeva la
qualità di necessario rappresentante della collettività dei condomini, e ciò
sia nella fase di assunzione degli obblighi verso i terzi per la conservazione
delle cose comuni, sia, all’interno della medesima collettività condominiale,
in quanto unico referente dei pagamenti ad essi relativi; con la conclusione
che il pagamento diretto eseguito dal singolo partecipante a mani del creditore
del Condominio non sarebbe comunque idoneo ad estinguere il debito “pro
quota” dello stesso relativo ai contributi ex art. 1123 c.c. (Cass. Sez. 6
– 2, 17/02/2014, n. 3636). Secondo il Supremo Collegio, la domanda per il pagamento dei contributi
condominiali proposta nel presente giudizio dal Condominio nei confronti del
condomino era diversa per soggetti, petitum e causa petendi dalla
causa avente ad oggetto il rapporto contrattuale d’appalto, e gli obblighi da
questo derivanti, intercorrente tra il medesimo condomino e l’appaltatrice
Beta. Difatti, secondo consolidata interpretazione giurisprudenziale (Cass.
Sez. U, 08/04/2008, n. 9148), il credito che il terzo creditore, in forza di
contratto concluso dall’amministratore nell’ambito delle sue attribuzioni,
poteva far valere anche direttamente nei confronti del singolo condomino, in
proporzione della rispettiva quota millesimale, era cosa giuridicamente diversa
(seppur economicamente coincidente) rispetto al credito per la riscossione dei
contributi condominiali che poteva far valere l’amministratore di Condominio.
Il primo credito aveva, invero, natura di prestazione sinallagmatica e trovava
causa nel rapporto contrattuale col terzo approvato dall’assemblea e concluso
dall’amministratore in rappresentanza di tutti i partecipanti al Condominio.
Appariva, pertanto, evidente la diversità dell’azione diretta alla riscossione
dei contributi condominiali nei confronti dei partecipanti, rientrante nella
legittimazione dell’amministratore (artt. 1130 n. 3 c.c. e 63, comma 1, disp.
att. c.c.), rispetto all’azione per il pagamento del corrispettivo contrattuale
esercitata dal terzo creditore verso il singolo condomino sul presupposto della
riferibilità diretta dei debiti condominiali ai singoli membri del gruppo. Ciò
escludeva ogni interferenza sul presente giudizio del distinto giudizio
inerente al contratto d’appalto concluso con la ditta appaltatrice, e smentiva
ogni dubbio sulla legittimazione attiva, o, meglio, sulla titolarità
sostanziale dell’amministratore in ordine al credito dedotto in sede monitoria.
Per tali motivi la Corte di Cassazione rigettava il ricorso.
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In caso di revoca dell’amministratore di Condominio
prima della scadenza del termine previsto nell’atto di nomina, egli ha diritto,
oltre che al soddisfacimento dei propri eventuali crediti, altresì al
risarcimento dei danni, in applicazione dell’art. 1725, comma 1, c.c., salvo
che sussista una giusta causa, indicativamente ravvisabile tra quelle che
giustificano la revoca giudiziale dello stesso incarico. Questo è quanto
stabilito dalla Corte di Cassazione, sez. II Civile, ordinanza n. 7874/2021,
depositata il 19 marzo.
Il caso. Il Tribunale competente accoglieva solo in parte l’appello di una
condomina contro la sentenza del Giudice di Pace, affermando che
all’appellante, ex amministratrice di un Condominio, spettasse solo il saldo
del compenso fino all’esaurimento del rapporto e non anche il risarcimento del
danno, ai sensi dell’art. 1725 c.c., norma inapplicabile al recesso in materia
di professioni intellettuali in quanto disciplinato dall’art. 2237 c.c..
Avverso tale sentenza la condomina proponeva ricorso
per cassazione deducendo la violazione e la falsa applicazione degli artt. 2237
e 1725 in relazione all’art. 1229 c.c., sostenendo che al rapporto tra Condominio
e amministratore non potesse applicarsi l’art. 2237 c.c., in quanto norma
attinente al contratto d’opera intellettuale e dovendosi assimilare
l’amministratore condominiale ad un mandatario con rappresentanza. Secondo gli
Ermellini era evidente come, a differenza
di quanto ritenuto dal Tribunale, gli effetti della revoca dell’incarico di amministratore
di Condominio non potessero trovare la loro disciplina nella fattispecie di cui
all’art. 2237 c.c., la quale regola, invero, il recesso del cliente nel
contratto di prestazione d’opera intellettuale. Il contratto tipico di
amministrazione di Condominio, il cui contenuto era essenzialmente dettato
negli artt. 1129, 1130 e 1131 c.c., non costituiva prestazione d’opera
intellettuale, e non era perciò soggetto alle norme che il codice civile
prevedeva per il relativo contratto, atteso che l’esercizio di tale attività
non era subordinata – come richiesto dall’art. 2229 c.c., all’iscrizione in
apposito albo o elenco, quanto (e ciò peraltro soltanto a far tempo
dall’entrata in vigore dell’art. 71-bis disp. att. c.c., introdotto dalla L. n.
220 del 2012) al possesso di determinati requisiti di professionalità ed
onorabilità, e rientrava, piuttosto, nell’ambito delle professioni non
organizzate in ordini o collegi, di cui alla L. 14 gennaio 2013, n. 4. Inoltre,
“come chiarito da Cass. Sez. Un. 29/10/2004, n. 20957, la previsione della
revocabilità ad nutum da parte dell’assemblea conferma la assimilabilità al
mandato del rapporto intercorrente tra condominio ed amministratore e,
conseguentemente, il carattere fiduciario dell’incarico. Trattandosi, peraltro,
di mandato che si presume oneroso conferito per un tempo determinato, se la
revoca è fatta prima della scadenza del termine di durata previsto nell’atto di
nomina, l’amministratore ha diritto, oltre che al soddisfacimento dei propri
eventuali crediti, altresì al risarcimento dei danni, proprio in applicazione
dell’art. 1725 c.c., comma 1, salvo che ricorra a fondamento della medesima
revoca una giusta causa, indicativamente ravvisabile tra quelle che
giustificano la revoca giudiziale dello stesso incarico”. Era infatti da
ritenere che l’art. 1129 c.c., si preoccupava unicamente di far salvo il potere
di revoca dell’assemblea, senza tuttavia regolarne gli effetti, il che non
esonerava l’interprete dal far uso di quelle norme analoghe che, a proposito della
revoca ante tempus, differenziavano le conseguenze avendo riguardo alla
sussistenza, o meno, della giusta causa di recesso (art. 1725 c.c., comma 1,
appunto, ma anche art. 2383 c.c., comma 3).
Pertanto, l’amministratore di Condominio, in ipotesi di revoca
deliberata dall’assemblea prima della scadenza del termine previsto nell’atto
di nomina, aveva diritto, oltre che al soddisfacimento dei propri eventuali
crediti, altresì al risarcimento dei danni, in applicazione dell’art. 1725
c.c., comma 1, salvo che sussistesse una giusta causa, indicativamente
ravvisabile tra quelle che giustificavano la revoca giudiziale dello stesso
incarico.
Per tali motivi la Corte di Cassazione accoglieva il
ricorso, cassava la sentenza impugnata e rinviava la causa al Tribunale
competente, in persona di diverso magistrato, anche per le spese processuali.
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R. «Il potere del giudice d’appello di procedere d’ufficio ad un nuovo regolamento delle spese processuali, quale conseguenza della pronuncia adottata, sussiste in caso di riforma in tutto o in parte della sentenza impugnata, in quanto il relativo onere deve essere attribuito e ripartito in relazione all’esito complessivo della lite, laddove, in caso di conferma della decisione impugnata, la pronuncia sulle spese può essere modificata soltanto se il relativo capo della decisione abbia costituito oggetto di uno specifico motivo d’impugnazione».
(Corte di Cassazione, sez. VI Civile – 2, ordinanza n. 7616/21; depositata il 18 marzo)
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In caso di infiltrazioni d’acqua provenienti dal manufatto
per la mancata manutenzione sono corresponsabili un Condominio ed il proprietario
di un terrazzo ricoprente quest’ultimo. Questo è quanto stabilito dalla Corte
di Cassazione, sez. VI Civile – 2 ordinanza n. 6816/2021, depositata l’11
marzo.
Il caso. Con atto di citazione due condomini convenivano in giudizio la proprietaria
del terrazzo di copertura del Condominio nel quale entrambi risiedevano, nonché
lo stesso Condominio, affinché fossero
condannati in solido all’esecuzione dei lavori necessari ad eliminare le
infiltrazioni verificatesi negli appartamenti di loro proprietà in conseguenza
delle precipitazioni, con la condanna altresì al risarcimento dei danni.
Deducevano che la causa dei danni era da addebitare sia alla proprietaria
esclusiva del terrazzo di copertura del fabbricato, sia al Condominio, che
aveva omesso di assicurare la necessaria manutenzione e impermeabilizzazione
della terrazza. La base normativa dell’azione dei danneggiati, infatti, era l’articolo 1126
c.c., che prevedeva che “quando l’uso dei lastrici solari o di una parte di
essi non è comune a tutti i condomini, quelli che ne hanno l’uso esclusivo sono
tenuti a contribuire per un terzo nella spesa delle riparazioni o ricostruzioni
del lastrico: gli altri due terzi sono a carico di tutti i condomini
dell’edificio o della parte di questo a cui il lastrico solare serve in
proporzione del valore del piano o della porzione di piano di ciascuno”, nonché
l’art. 2055 c.c. dove si leggeva al primo comma che “se il fatto dannoso è
imputabile a più persone, tutte sono obbligate in solido al risarcimento del
danno”. L’omessa manutenzione, imputabile sia al Condominio che ai condomini,
era stata la causa del danno e in ragione di ciò entrambi i convenuti dovevano
secondo l’attore essere condannati. Si costituiva in giudizio il Condominio,
chiedendo il rigetto della domanda o, comunque, che la condanna fosse irrogata
alla sola condomina che aveva omesso l’ordinaria manutenzione della terrazza.
Il Tribunale competente accoglieva la domanda attorea soltanto nei confronti
del Condominio.
Avverso tale sentenza il Condominio interponeva appello chiedendo l’estensione
della condanna anche alla proprietaria del terrazzo. La Corte d’Appello affermava
che la condanna fosse stata erroneamente comminata al solo Condominio quando,
ai sensi di legge, anche la condomina proprietaria della terrazza doveva essere
considerata come responsabile in solido. I giudici di secondo grado dopo avere evidenziato che dalle indagini peritali
emergeva che le cause delle infiltrazioni oggetto di causa erano da individuare
in parte nella non corretta impermeabilizzazione del terrazzo di copertura di
proprietà esclusiva della convenuta ed in parte nelle pessime condizioni in cui
versava il cornicione con l’annesso canale di gronda, riteneva che dovesse
pervenirsi alla condanna in solido del condominio e della proprietaria
esclusiva del bene alla luce di quanto affermato dalle Sezioni Unite con la
sentenza n. 9449/2016 secondo la quale “in tema di condominio negli edifici, qualora l’uso del
lastrico solare (o della terrazza a livello) non sia comune a tutti i
condomini, dei danni da infiltrazioni nell’appartamento sottostante rispondono
sia il proprietario, o l’usuario esclusivo, quale custode del bene ai sensi
dell’art. 2051 c.c., sia il condominio in forza degli obblighi inerenti
l’adozione dei controlli necessari alla conservazione delle parti comuni
incombenti sull’amministratore ex art. 1130, comma 1, n. 4, c.c., nonché
sull’assemblea dei condomini ex art. 1135, comma 1, n. 4, c.c., tenuta a
provvedere alle opere di manutenzione straordinaria; il concorso di tali
responsabilità va di norma risolto, salva la rigorosa prova contraria della
specifica imputabilità soggettiva del danno, secondo i criteri di cui all’art.
1126 c.c., che pone le spese di riparazione o di ricostruzione per un terzo a
carico del proprietario o dell’usuario esclusivo del lastrico (o della
terrazza) e per i restanti due terzi a carico del condominio”. La Corte
d’Appello riformulava parzialmente la sentenza di primo grado estendendo la
responsabilità anche alla condomina.
Avverso tale sentenza la parte soccombente proponeva ricorso per cassazione
lamentando la violazione e la falsa
applicazione degli artt. 1126 e 2055 c.c., in quanto, proprio alla luce dei
principi espressi dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 9449/2016 non sarebbe
stato possibile affermare una responsabilità soldale tra il Condominio ed i
singoli condomini. Secondo gli Ermellini, i Giudici di secondo grado avevano correttamente
deciso sul punto estendendo la condanna anche alla condomina e applicando così
i principi dettati dalle citate Sezioni Unite n. 9449/2016. Inoltre,
affermavano che, in base a quanto affermato dalle Sezioni Unite, in relazione
ai danni provenienti da lastrico solare di proprietà esclusiva, sussisteva una concorrente
responsabilità per la mancata manutenzione del Condominio e del proprietario.
Pertanto, l’omissione di atti conservativi integrava una violazione per il Condominio
per mancata conservazione delle parti comuni (nel caso il lastrico solare
fungesse da copertura per l’edificio) e del Condomino ai sensi dell’art. 2051
c.c., in quanto unico soggetto custode del bene e con una cognizione diretta
del suo stato di conservazione.
Per tali motivi la Corte di
Cassazione accoglieva il ricorso, cassava la sentenza impugnata con rinvio.
Avvocato Anna Maria Cupolillo Staff Giuridico Avvocato Express
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Per ottenere il risarcimento iure proprio del danno non patrimoniale, il
nipote deve fornire la prova di un rapporto di reciproco affetto e solidarietà
con la defunta e non di un rapporto eccedente la fisiologica intensità delle
relazioni con la nonna o un rapporto di convivenza con la stessa, che potranno
invece rilevare in sede di quantificazione del danno. Questo è quanto stabilito
dalla Corte di Cassazione, sez. III Civile, ordinanza n. 5258/2021, depositata
il 25 febbraio.
Il caso. La Corte
d’Appello distrettuale, confermando la pronuncia di primo grado, non riconosceva
il danno non patrimoniale sofferto iure proprio dalla nipote a seguito
dell’uccisione della nonna in un sinistro stradale; per i giudici di seconde
cure l’esistenza di un rapporto costante di affetto e la frequentazione nei
fine settimana non erano sufficienti, era necessaria la prova di un legame più
forte, eccedente l’intensità fisiologica dei rapporti con l’ascendente.
Avverso tale sentenza la nipote proponeva ricorso per cassazione lamentando
che il giudice di merito, pur avendo accertato che la nonna era
partecipe della sua vita, che vi era frequentazione durante le riunioni
familiari, nonché la cura della nipote durante i primi tre anni di vita della
medesima e poi durante i fine settimana, non aveva riconosciuto il danno non
patrimoniale, esigendo la prova di un legame eccedente la normale relazione
affettiva fra vittima e superstite, laddove invece, in assenza di convivenza,
ciò che doveva essere provata era l’esistenza di rapporti costanti di reciproco
affetto e di solidarietà con il familiare defunto. Secondo gli Ermellini “In
tema di domanda di risarcimento del danno non patrimoniale “da
uccisione”, proposta “iure proprio” dai congiunti dell’ucciso,
questi ultimi devono provare l’effettività e la consistenza della relazione
parentale, rispetto alla quale il rapporto di convivenza non assurge a connotato
minimo di esistenza, ma può costituire elemento probatorio utile a dimostrarne
l’ampiezza e la profondità, e ciò anche ove l’azione sia proposta dal nipote
per la perdita del nonno; infatti, poiché la “società naturale”, cui
fa riferimento l’art. 29 Cost., non è limitata alla cd. “famiglia
nucleare”, il rapporto tra nonni e nipoti, per essere ritenuto
giuridicamente qualificato e rilevante, non può essere ancorato alla
convivenza, escludendo automaticamente, in caso di insussistenza della stessa,
la possibilità per tali congiunti di provare l’esistenza di rapporti costanti
di reciproco affetto e solidarietà con il familiare defunto (Cass. n. 7743 del
2020, n. 29332 del 2017 e n. 21230 del 2016)”. La Suprema Corte censurava i Giudici di merito per avere confuso i criteri
relativi al quantum con quello che presiedeva invece all’andebeatur.
Il diritto al risarcimento per la lesione del rapporto parentale prevedeva
infatti che fosse fornita la prova di “rapporti costanti di reciproco affetto e
solidarietà con il familiare defunto”, che dalla motivazione della sentenza di
merito risultavano accertati e che costituivano il presupposto di fatto del
danno risarcibile. L’esistenza invece di un legame eccedente l’ordinario
rapporto di affetto, di cui la Corte d’Appello non aveva ritenuto essere stata
fornita la prova, avrebbe potuto incidere non sull’an bensì sul quantum
e, quindi, sulla liquidazione del danno, così come l’eventuale rapporto di
convivenza.
Per tali motivi la Corte di Cassazione cassava la sentenza e rinviava alla Corte di Appello competente.
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All’assegno
divorzile in favore dell’ex coniuge deve attribuirsi, oltre alla natura
assistenziale, anche natura perequativo-compensativa, che discende direttamente
dalla declinazione del principio costituzionale di solidarietà, e conduce al
riconoscimento di un contributo volto a consentire al coniuge richiedente non
il conseguimento dell’autosufficienza economica sulla base di un parametro
astratto, bensì il raggiungimento in concreto di un livello reddituale adeguato
al contributo fornito nella realizzazione della vita familiare, in particolare
tenendo conto delle aspettative professionali sacrificate. Questo è quanto
stabilito dalla Corte di Cassazione, sez. I Civile, ordinanza n. 4494/2021
depositata il 19 febbraio.
Il caso. La Corte d’appello distrettuale
confermava la decisione di primo grado, che aveva pronunciato la cessazione
degli effetti civili del matrimonio concordatario tra i due coniugi e affidato congiuntamente agli stessi
la figlia minore, con domiciliazione della stessa presso la madre, cui veniva
assegnata la casa coniugale, con obbligo per il marito di corrispondere alla
moglie la somma mensile di Euro 300,00, a titolo di assegno di divorzio, e di
Euro 450,00, a titolo di contributo al mantenimento della figlia, oltre la metà
delle spese straordinarie. In particolare, i giudici d’appello sostenevano che
il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio si poteva desumere dal
reddito percepito dal marito, dal momento che la moglie non aveva mai lavorato,
e dal fatto che i coniugi vivevano in alloggio di proprietà e che non era
dimostrato un rifiuto della moglie a cercare un lavoro; inoltre, non era provato
che il solo marito sostenesse le spese condominiali della casa coniugale di
proprietà dello stesso ma assegnata alla moglie, non poste a suo carico, o le
spese straordinarie della figlia, ripartite, secondo la decisione del
Tribunale, in parti uguali tra i coniugi; doveva essere mantenuto l’importo
dell’assegno divorzile e di mantenimento della figlia minore, considerate, per
quest’ultima, le esigenze correlate all’età ed alla frequenza della scuola
elementare.
Avverso
tale sentenza il coniuge proponeva ricorso per cassazione. Il ricorrente
contestava la valutazione compiuta dai Giudici di merito. A suo parere, infatti, sul fronte
della “determinazione dell’assegno di divorzio” non si era tenuto conto del
reale “tenore di vita goduto dai coniugi durante la convivenza”, essendo il
ricorrente “un operaio con reddito di 1.400 euro mensili netti e proprietario di
un unico immobile, acquistato prima del matrimonio, adibito a casa coniugale ed
assegnato alla moglie”, e non si era compiuta “una verifica dell’inadeguatezza
dei mezzi della moglie, in rapporto alla sua capacità di trovare un lavoro”. Altresì, il ricorrente proponeva l’ipotesi di
“una riduzione dell’assegno in favore
della moglie e della figlia” evidenziando “il vantaggio economico per l’ex
consorte, assegnataria della casa coniugale”, e, allo stesso tempo, si soffermava
sulla “scelta, assunta di comune accordo con l’altro coniuge, di fare
frequentare una scuola privata alla figlia”, annotando però che solo su di lui
era ricaduto “tale onere” dal punto di vista economico. La Suprema Corte, a Sezioni Unite, con la recente
sentenza n. 18287/2018, aveva chiarito, con riferimento ai dati normativi già
esistenti, che: “1) il riconoscimento dell’assegno di divorzio in favore
dell’ex coniuge, cui deve attribuirsi una funzione assistenziale ed in pari
misura compensativa e perequativa, ai sensi dell’art. 5, comma 6, della L. n.
898 del 1970, richiede l’accertamento dell’inadeguatezza dei mezzi dell’ex
coniuge istante, e dell’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive,
applicandosi i criteri equiordinati di cui alla prima parte della norma, i
quali costituiscono il parametro cui occorre attenersi per decidere sia sulla
attribuzione sia sulla quantificazione dell’assegno. Il giudizio dovrà essere
espresso, in particolare, alla luce di una valutazione comparativa delle
condizioni economico-patrimoniali delle parti, in considerazione del contributo
fornito dal richiedente alla conduzione della vita familiare ed alla formazione
del patrimonio comune, nonché di quello personale di ciascuno degli ex coniugi,
in relazione alla durata del matrimonio ed all’età dell’avente diritto; 2)
all’assegno divorzile in favore dell’ex coniuge deve attribuirsi, oltre alla
natura assistenziale, anche natura perequativo-compensativa, che discende
direttamente dalla declinazione del principio costituzionale di solidarietà, e
conduce al riconoscimento di un contributo volto a consentire al coniuge
richiedente non il conseguimento dell’autosufficienza economica sulla base di
un parametro astratto, bensì il raggiungimento in concreto di un livello
reddituale adeguato al contributo fornito nella realizzazione della vita
familiare, in particolare tenendo conto delle aspettative professionali
sacrificate; 3) la funzione equilibratrice del reddito degli ex coniugi,
anch’essa assegnata dal legislatore all’assegno divorzile, non è finalizzata
alla ricostituzione del tenore di vita endoconiugale, ma al riconoscimento del
ruolo e del contributo fornito dall’ex coniuge economicamente più debole alla
formazione del patrimonio della famiglia e di quello personale degli ex
coniugi”. Pertanto, secondo gli Ermellini, nel caso de quo,
il giudizio espresso dalla Corte di merito risultava corretto anche alla luce
dell’orientamento espresso dalle Sezioni Unite nel 2018, essendosi dato rilievo
alla funzione principalmente assistenziale dell’assegno divorzile, sebbene in
concorso con quella perequativa e compensativa (cfr. Cass. 21926/2019), a
fronte dell’accertata disparità economica tra i coniugi successivamente allo
scioglimento del vincolo, della durata non breve del matrimonio e, quanto, alla
richiedente l’assegno, della condizione di disoccupazione e, implicitamente,
della sua oggettiva difficoltà di procurarsi un lavoro, per le condizioni di
età e personali. Anche quanto alla casa coniugale, di proprietà del marito,
essa era stata assegnata alla moglie solo in quanto genitore collocatario della
figlia minore e la Corte di merito aveva ritenuto indimostrata la circostanza
relativa al carico delle spese condominiali sul solo ricorrente. Quanto poi al
contributo per la figlia minore, la censura non era pertinente al decisum,
avendo la Corte rilevato che le spese straordinarie (essenzialmente quelle
relativa a scuola privata cui essa era stata iscritta) andavano ripartite tra i
genitori in parti uguali e non ricadevano quindi, come lamentato, solo sul
padre.
Per tali
motivi la Corte di Cassazione respingeva il ricorso e condannava il ricorrente
al pagamento delle spese processuali del giudizio di legittimità.
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Nessun obbligo di indossare la mascherina per
un’alunna con difetti di ossigenazione certificati e causati dall’uso
prolungato del dispositivo di protezione individuale durante l’intero orario di
lezione. Il pericolo di affaticamento respiratorio, in mancanza di costante
verificabilità tramite saturimetro è infatti troppo grave ed immediato. Questo
è quanto stabilito dal Consiglio di Stato, sez. III, decreto n. 304/2021,
depositato il 26 gennaio.
Il Consiglio di Stato accoglieva l’istanza cautelare proposta dai genitori
di una bambina per la riforma della pronuncia del TAR Lazio concernente l’obbligo
continuativo di indossare la mascherina a scuola per i minori infradodicenni.
Era emerso, infatti,
che “nella classe frequentata dalla minore, non risulta – o comunque dagli atti
non risulta – essere disponibile neppure un apparecchio di controllo della
ossigenazione – saturimetro, strumento di costo minimo e semplicissima
utilizzabilità in casi come quello prospettato, ad opera di ogni insegnante,
per intervenire ai primissimi segnali di difficoltà di respirazione con DPI da
parte del giovanissimo alunno”. I genitori avevano convenuto il MIUR per
ottenere il riconoscimento della possibilità di non fare indossare alla figlia
la mascherina di per il pericolo di affaticamento respiratorio. A sostegno di
ciò, la minore, tramite i genitori, aveva documentato con certificati medici,
ripetutamente, problemi di difetto di ossigenazione per l’uso prolungato del
DPI durante tutto l’orario di lezione. Il Consiglio di Stato riteneva che
“nelle more della camera di consiglio già fissata innanzi al T.A.R., alla
minore non possa essere imposto l’uso del DPI per la durata delle lezioni,
essendo il pericolo di affaticamento respiratorio – in mancanza di una costante
verificabilità con saturimetro – troppo grave e immediato, né ovviamente si può
ipotizzare una sospensione, sino alla decisione cautelare del T.A.R., del
diritto costituzionalmente tutelato della giovane allieva di frequentare il
corso scolastico”.
Per tali
motivi il Consiglio di Stato accoglieva l’istanza cautelare, e sospendeva, nei
confronti degli appellanti, con riguardo all’obbligo della minore di indossare
il DPI durante l’orario scolastico.
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