Installazione del sistema di videosorveglianza:serve l’unanimità o la maggioranza dei condomini?

Installazione del sistema di videosorveglianza:serve l’unanimità o la maggioranza dei condomini?

Le deliberazioni concernenti l’installazione su parti comuni di impianti volti a consentire la videosorveglianza di essi sono approvate dall’assemblea con la maggioranza di cui all’art. 1136, comma 1, c.c. (ossia tanti condomini che rappresentino i due terzi del valore dell’intero edificio e la maggioranza dei partecipanti al Condominio). Ciò è quanto stabilito dalla Cassazione civile, sez. II, ordinanza, 11 maggio 2022, n. 14969.

Il caso. Una condomina di uno stabile impugnava due deliberazioni assembleari: la prima riguardante la ripartizione, in base ai millesimi di proprietà, del canone da versare al Comune per una intercapedine per l’anno 2010 e della spesa per l’installazione di un sistema di videosorveglianza; la seconda la ripartizione del canone per l’intercapedine per l’anno successivo e la spesa per completare l’impianto già oggetto della precedente delibera. Il Tribunale dichiarava inammissibile l’impugnativa della prima delibera per decorso del termine e rigettava l’impugnativa della seconda, ritenendola infondata.

Avverso tale sentenza la condomina interponeva appello deducendo che le due delibere erano nulle e non semplicemente annullabili, sia per quanto riguardava la spesa per il canone per l’intercapedine, sia per la spesa relativa all’impianto di videosorveglianza. Secondo la condomina, l’intercapedine non era un bene comune e, in ogni caso, la relativa spesa non poteva essere imputata a tutti i condomini in base ai millesimi di proprietà, ma doveva ripartirsi in base all’uso. Al riguardo evidenziava che l’intercapedine era destinata al servizio dei box interrati posti ai piani -2 e -3 e, altresì, in ordine all’impianto di videosorveglianza, eccepiva che la materia esulava dalla competenza dell’assemblea, richiedendosi il consenso unanime di tutti i partecipanti al Condominio. La Corte d’Appello distrettuale confermava la sentenza di primo grado, osservando che il Condominio aveva replicato che l’intercapedine era funzionale all’intero fabbricato e che, al cospetto di tale deduzione, la diversa destinazione dell’intercapedine, dedotta dalla condomina, era rimasta del tutto sfornita di prova; inoltre, riconosceva la legittimità della decisione dell’assemblea riguardo all’impianto di videosorveglianza, benchè assunta solo a maggioranza.

Avverso tale sentenza la condomina proponeva ricorso per Cassazione sulla base di due motivi di doglianza. In particolare, la condomina lamentava che i giudici di seconde cure non avessero tenuto conto della maggioranza occorrente per l’installazione dell’impianto di videosorveglianza, non bastando secondo la ricorrente quella semplice. Secondo la Suprema Corte, prima della riforma del Condominio la giurisprudenza di merito, nel silenzio della legge, aveva affrontato più volte le problematiche sottese all’uso di telecamere, arrivando però a soluzione contrastanti. In particolare, una parte della giurisprudenza di merito sosteneva che la delibera dell’assemblea condominiale che approva l’installazione di un impianto di videosorveglianza relativo a parti comuni, non rientrava, in senso assoluto, tra quelle riconducibili all’approvazione dell’assemblea. Altro orientamento faceva salvo il caso in cui la decisione fosse stata assunta all’unanimità dai condomini, perfezionandosi in questo caso un comune consenso idoneo a fondare effetti tipici di un negozio dispositivo dei diritti coinvolti. Una terza impostazione si accontentava della deliberazione a maggioranza e per la prospettata violazione della privacy dei condomini richiamava la giurisprudenza della Corte di cassazione penale secondo cui installare una telecamera sul cortile condominiale non integrava gli estremi del reato di cui all’art. 615 bis c.p.. Il legislatore della novella, con un articolo dedicato, ossia il nuovo art. 1122 ter c.c., ha introdotto, nel sistema della disciplina condominiale, la videosorveglianza. La nuova disposizione prescriveva che le deliberazioni concernenti l’installazione su parti comuni di impianti volti a consentire la video sorveglianza di essi erano approvate dall’assemblea con la maggioranza di cui all’art. 1136, comma 1, c.c. (ossia tanti condomini che rappresentino i due terzi del valore dell’intero edificio e la maggioranza dei partecipanti al Condominio).

Per tali motivi la Corte di Cassazione rigettava il ricorso e condannava la ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità.

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Vettura rimasta in sosta nelle strisce blu con ticket scaduto: è legittima la multa?

Vettura rimasta in sosta nelle strisce blu con ticket scaduto: è legittima la multa?

Configura illecito amministrativo e, pertanto, è legittima la multa per il proprietario della vettura lasciata in sosta nelle strisce blu oltre la scadenza del tagliando acquistato subito dopo avere ultimato la manovra di parcheggio. Questo è quanto sancito dalla Corte di Cassazione, sez. II, ordinanza, 10 marzo 2022, n. 7839.

Il caso. Una donna agiva contro il Comune contestando la multa rinvenuta sul parabrezza della sua vettura rimasta parcheggiata, in un’area di sosta regolamentata, oltre l’orario esposto nel ticket, regolarmente acquistato subito dopo avere piazzato il veicolo nelle strisce blu. Il Giudice di prime cure dava ragione alla donna.

Avverso tale sentenza il Comune proponeva appello e il Giudici di seconde cure, in riforma della pronuncia di primo grado, ritenevano legittima la multa a carico della donna sostenendo che “la sosta dell’automobile nelle strisce blu con il ticket scaduto configura un illecito amministrativo, al pari di quanto avviene nel caso in cui l’automobilista non si munisca affatto del biglietto.”

Avverso tale sentenza la donna proponeva ricorso per cassazione sostenendo che “chi paga il ticket ma non integra il versamento per le ore successive non incorre in alcuna violazione del Codice della strada, bensì soltanto in una violazione dell’obbligazione contrattuale, sorta nel momento in cui si acquista il ticket. Il legislatore avrebbe distinto la sosta a pagamento dalla sosta regolamentata prevedendo la potestà sanzionatoria solo in caso di sosta regolamentata, con illegittima estensione analogica della norma sanzionatoria, in violazione del principio di legalità.” La Suprema Corte affermava che il Tribunale si fosse conformato al costante orientamento della Corte (Cass. sez. VI, 21.05.2021, n. 14083; Cass., sez. II, 3.08.2016, n. 16258), secondo cui “la sosta a pagamento su suolo pubblico che si protragga oltre l’orario per il quale è stata corrisposta la tariffa non costituisce inadempimento contrattuale ma illecito amministrativo, sanzionato dall’art.7 C.d.S., comma 15, trattandosi di evasione tariffaria in violazione delle prescrizioni della “sosta regolamentata”, introdotte per incentivare la rotazione e la razionalizzazione dell’offerta di sosta.” Inoltre, come già affermato in precedenti pronunce (Cass., Sez. II, 25 febbraio 2008, n. 4847; Cass. Sez. II, 4 ottobre 2011, n. 20308), “l’art. 157 C.d.S., prevede due distinte condotte: quella di porre in sosta l’autoveicolo senza segnalazione dell’orario di inizio della sosta, laddove essa è prescritta per un tempo limitato, ed il fatto di non attivare il dispositivo di controllo della durata della sosta, nei casi in cui esso è espressamente previsto.” Contrariamente a quanto affermato dalla ricorrente, l’art. 157 C.d.S., comma 8, prevedeva per la loro violazione la medesima sanzione. L’espressione “dispositivo di controllo di durata della sosta”, utilizzata dell’art. 157 C.d.S., comma 6, valeva a comprendere i casi di c.d. parcheggi a pagamento mediante acquisto di apposita scheda, ciò discendendo dal rilievo che tale formula era la medesima di quella usata dalla disposizione del Codice della Strada che consentiva ai Comuni, nell’ambito delle loro competenze in materia di regolamentazione della circolazione nei centri abitati, di stabilire aree di parcheggio a pagamento, anche senza custodia dei veicoli (art. 7, comma 1, lett. f). La sentenza della Sezione II, settembre 2008, n. 22036, aveva affermato che “là dove il sindaco si sia avvalso del potere di stabilire, previa deliberazione della giunta, aree destinate al parcheggio sulle quali la sosta dei veicoli è subordinata al pagamento di una somma da riscuotere mediante dispositivi di controllo di durata della sosta, anche senza custodia del veicolo, fissando le relative condizioni e tariffe, la stessa non si sottrae all’operatività della sanzione amministrativa pecuniaria nei casi di sosta protrattasi in violazione dei limiti o della regolamentazione al cui rispetto essa era subordinata.” A sua volta, la Sez. 6-2, 9 gennaio 2012, n. 30, aveva cassato la sentenza del giudice del merito che aveva escluso “che nell’ipotesi di cui all’art.7 C.d.S., superata l’ora scatti la medesima violazione come avviene nel caso del sistema previsto per la sosta limitata di cui all’art. 157 C.d.S. “, sul rilievo – non condiviso dalla Corte di legittimità – che nel primo caso “scatti soltanto il diritto del Comune di riscuotere la tassa per l’utilizzo del parcheggio a pagamento ed in relazione alla durata stessa della sosta”. Questo orientamento era stato recepito dalla giurisprudenza della Corte dei Conti (Sezione giurisdizionale per la Regione Lazio, sentenza 19 settembre 2012, n. 888). Il giudice contabile aveva infatti affermato che “la mancata contestazione della sanzione pecuniaria da parte dell’ausiliario del traffico (e della società affidataria del servizio) nel momento in cui è stata accertata la sosta del veicolo senza ticket comprovante il pagamento del corrispettivo dovuto oppure con tagliando esposto scaduto per decorso del tempo di sosta pagato (che è pur sempre una fattispecie di mancato pagamento che il C.d.S., senza distinzioni, sanziona), configura una ipotesi di danno erariale per il Comune, rappresentato dal mancato incasso dei proventi che sarebbero derivati dalla applicazione della sanzione per violazione delle norme che disciplinano la sosta in aree a pagamento.” Il Giudice di primo grado aveva fatto corretta applicazione dei principi affermati dalla Suprema Corte ed aveva ritenuto che, in materia di sosta a pagamento su suolo pubblico, ove la sosta si protraesse oltre l’orario per il quale era stata corrisposta la tariffa, si incorreva in una violazione delle prescrizioni della sosta regolamentata poiché l’assoggettamento al pagamento della sosta era un atto di regolamentazione della sosta stessa. Il Tribunale aveva, quindi, ritenuto che la sosta del veicolo della ricorrente, con ticket di pagamento esposto scaduto per decorso del tempo di sosta pagato, aveva natura di illecito amministrativo e di inadempimento contrattuale.

Per tali motivi la Corte di Cassazione rigettava il ricorso e condannava la parte ricorrente al pagamento, in favore della parte controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità.

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Furto in appartamento a causa dell’impalcatura: chi risponde?

Furto in appartamento a causa dell’impalcatura: chi risponde?

Per il furto occorso nell’appartamento di una condomina, in caso di riscontro, in modo univoco, di elementi quali il furto, le modalità di accesso all’appartamento, l’assenza di sistemi di allarme e di illuminazione sulle impalcature, la presenza di porta blindata nell’appartamento, sono responsabili, in solito, sia il Condominio che la ditta esecutrice dei lavori di straordinaria manutenzione. Questo è quanto stabilito dalla Cassazione civile, sez. VI – 3, ordinanza, 27 dicembre 2021, n. 41542.

Il caso. Una condomina citava innanzi al Tribunale competente il Condominio e la ditta deducendo di aver subito, nell’appartamento dei propri genitori presso il quale aveva il domicilio, sito al quinto piano dello stabile, un furto di oggetti preziosi per un valore complessivo di Euro 33.925,00, furto agevolato dalla presenza di una impalcatura, posta a ridosso dell’edificio dalla ditta esecutrice dei lavori di manutenzione straordinaria di cui i ladri si erano serviti per raggiungere l’appartamento. Altresì, chiedeva la condanna di entrambi i convenuti, in solido, al risarcimento dei danni. Il giudice di prime cure, acquisite prove testimoniali e i verbali di polizia giudiziaria redatti dall’agente che era intervenuto sul posto nell’immediatezza dei fatti, riteneva che entrambi i convenuti fossero responsabili: l’impresa appaltatrice, ai sensi dell’art. 2043 c.c., per aver omesso la dovuta diligenza nel posizionare l’impalcatura, ed il Condominio, ai sensi dell’art. 2051 c.c., per omessa custodia. Conseguentemente, entrambi in solido, venivano condannati a risarcire la somma di Euro 33.925,00.

Interposto gravame, i giudici di seconde cure, confermavano la responsabilità del Condominio e della ditta, escludevano ogni ipotesi di corresponsabilità della persona derubata e riducevano, in via equitativa, a 10.000,00 euro il risarcimento del danno.

Avverso tale sentenza il Condominio proponeva ricorso per cassazione. La Suprema Corte riteneva corretto e condivisibile l’operato della Corte d’Appello che aveva valorizzato il resoconto fornito dall’agente di Polizia chiamato dalla derubata subito dopo la scoperta del furto. Sostanzialmente, era evidente il valore dei dati evidenziati, in modo univoco, dall’esponente delle forze dell’ordine, ovvero “il furto, le modalità di accesso all’appartamento, l’assenza di sistemi di allarme e di illuminazione sulle impalcature, la presenza di porta blindata nell’appartamento”. Da tutto ciò era palese che tali elementi avessero facilitato l’opera dei ladri e che del danno subito dalla persona derubata fossero responsabili il Condominio e la ditta esecutrice dei lavori.  

Per tali motivi la Corte di Cassazione dichiarava il ricorso inammissibile e condannava il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità.

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Omessa manutenzione delle parti comuni:il condomino danneggiato partecipa alle spese riparatorie
Regolamento condominiale e uso dello stendino nel ballatoio comune

Regolamento condominiale e uso dello stendino nel ballatoio comune

Se il regolamento condominiale permette l’utilizzo dello stendino sul ballatoio a patto che non impedisca il passaggio dei condomini residenti, non si ritiene possibile vietarne in assoluto l’uso. Questo è quanto stabilito dal Tribunale di Monza, sez. II, sentenza, 24 novembre 2021, n. 2161

Il caso. Due condomini chiedevano al Giudice competente di accertare l’illiceità ex art. 1102 c.c. ed ex art. 14 del regolamento condominiale dello stabile e di inibire ad un’altra condomina il collocamento di uno stendino sul ballatoio comune che impediva il passaggio dei suddetti due residenti verso il proprio appartamento. Il giudice dava ragione agli attori.

Avverso tale sentenza la condomina soccombente interponeva appello denunciando, tra i vari motivi, la violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato ex art. 112 c.p.c.. Il giudice di seconde cure stabiliva che il Giudice di Pace, accertando la violazione dell’art. 1102 c.c. e del citato regolamento condominiale, aveva ritenuto che, da un lato, la condotta della condomina non potesse dirsi conforme ai principi di cui ai parametri normativi di fonte legale e negoziale richiamati, e,  d’altro lato, che la pretesa azionata dagli altri due residenti, diretta ad inibire il posizionamento di qualsiasi stendino sulla porzione immobiliare comune, fosse anch’essa non in sintonia con le regole fissate dalla legge e dal regolamento condominiale. Infatti, dal momento in cui il regolamento condominiale consentiva di mettere sui ballatoi in prossimità della propria abitazione stendini di dimensioni normali che non impedivano il passaggio degli altri residenti, non si era ritenuto possibile vietare in assoluto l’uso dei suddetti stenditoi. Pertanto, il giudice aveva inibito alla condomina l’utilizzo di uno stendino di dimensioni superiori ai 52 cm di profondità e di 80 di larghezza, disponendo anche che lo stesso dopo l’asciugatura dovesse essere immediatamente tolto per liberare il pianerottolo. Alla luce di tutto ciò, il Tribunale non riteneva riscontrabile la violazione dell’art. 112 c.p.c. e a sostegno della propria decisione ricordava che “il giudice di merito incorre nel vizio extrapetizione quando attribuisce alla parte un bene non richiesto perché non compreso neppure implicitamente o virtualmente nelle deduzioni o allegazioni” (Cassazione, sez. I, sentenza n. 12014 del 07.05.2019), avendo riguardo – nell’individuazione dell’oggetto della domanda – “al contenuto sostanziale della pretesa fatta valere, come desumibile non solo dal tenore letterale degli atti ma anche dalla natura delle vicende dedotte e rappresentate dalla parte istante e dal provvedimento sollecitato in concreto” (Cassazione, sez. I, sentenza n. 961 del 28.01.2000).

Per tali motivi, il Tribunale rigettava il ricorso.

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Condominio: nessun riallaccio d’urgenza in caso di distacco dell’energia elettrica

Condominio: nessun riallaccio d’urgenza in caso di distacco dell’energia elettrica

La cautela può essere concessa anche «in presenza della lesione di diritti di credito con contenuto e funzione patrimoniale, ma ciò è possibile solo nell’ipotesi in cui la semplice anticipazione delle somme dovute da parte del debitore arrechi un pregiudizio irreparabile». Questo è quanto stabilito dal Tribunale di Palermo, sez. III, sentenza 5 ottobre 2021.

Il caso. Un Condominio agiva in via cautelare davanti al Tribunale competente lamentando il distacco della fornitura elettrica per supposte morosità ammontanti a circa euro 4.700,00 frutto di conguagli effettuati dal gestore e contestati in toto dal Condominio. Il ricorrente sosteneva, in ordine al fumus boni iuris, che le somme portate nella fattura contestata erano ormai prescritte e, in ordine al periculum in mora, che la mancanza di corrente elettrica privava i condomini dell’energia necessaria al funzionamento di autoclavi, ascensori, luci condominiali creando un danno immediato ed irreparabile e, pertanto, chiedeva all’adito Tribunale di verificare la sussistenza degli estremi di cui all’art. 700 c.p.c. e 669 – bis e ss. c.p.c. e di emettere i provvedimenti necessari per ottenere il ripristino dell’energia. Il Tribunale competente, affermava che “il rimedio prescelto dal Condominio è dunque una procedura d’urgenza che è dettata quindi ad esclusiva tutela di diritti minacciati sia da un pericolo di infruttuosità (c.d. pericolo nel ritardo), sia da un pericolo di tardività (c.d. pericolo del ritardo). Mancando tale pericolo, anche se la domanda fosse fondata e -paradossalmente- il diritto fosse persino riconosciuto dalla controparte, la domanda formulata per meso del ricorso ex art- 700 c.p.c. sarebbe ugualmente inammissibile”. Nel caso de quo il pericololamentato dal Condominio era di natura esclusivamente economica ed era evidente che nel caso in cui fosse dimostrato che la somma fosse davvero prescritta, come sosteneva il Condominio, essa sarebbe potuta essere ripetuta all’esito del giudizio di cognizione ordinario, oltre agli interessi legali. Non si si riscontrava, pertanto, un pregiudizio irreparabile per la posizione del Condominio. Secondo il giudice, inoltre, “Non vi è infatti dubbio che la parte resistente sia in grado di restituire la somma in questione per quanto possa essere gravata da interessi; non vi è pertanto in nessun caso un pregiudizio “irreparabile” per la posizione del ricorrente. Ma non vi è nemmeno “pericolo del ritardo”, perché in qualsiasi momento il Condominio pagando quanto richiesto o cambiando gestore avrebbe potuto ottenere il riallaccio. Non sussisteva quindi alcun pericolo di restare senza energia elettrica a lungo, il pregiudizio non è mai stato cioè “irreparabile”, ma anzi era facilmente evitabile pagando quanto richiesto e riservandosi di agire per la restituzione dimostrando la fondatezza delle proprie ragioni. Il permanere senza energia a lungo sarebbe stata cioè la conseguenza (evitabile) della scelta consapevole da parte del Condominio di restare morosi e di non cercare un altro gestore”. Il Tribunale, però, precisava che in generale la cautela poteva essere concessa “anche in presenza della lesione di diritti di credito con contenuto e funzione patrimoniale, ma ciò è possibile solo nell’ipotesi in cui la semplice anticipazione delle somme dovute da parte del debitore arrechi un pregiudizio irreparabile”, circostanza però inverosimile nel caso in esame, “dato il modesto importo della bolletta da ripartire per altro tra tutti i condomini”. Ne conseguiva che in difetto del periculum in mora la domanda era inammissibile.

Per tali motivi il Tribunale rigettava il ricorso e condannava il ricorrente al pagamento delle spese di lite.

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